lunedì 28 marzo 2016

Il Manifesto fa sempre da sponda alle spinte anticinesi


Nello stesso momento in cui schifava il socialismo reale per la sua mancanza di libertà, il Manifesto 
gli contrapponeva paradossalmente la rivoluzione culturale, che portò tante inutili violenze. Ancora oggi, i pallidi eredi di quella stagione non hanno imparato la differenza tra diritti formali e libertà liberali da una parte e il loro stesso desiderio assoluto e dittatoriale di arbitrio sfrenato e di ancor più sfrenato consumo [SGA].

Cina, «Compagno Presidente è ora di dimettersi» 
Cina. Una lettera firmata da «membri fedeli del Partito» chiede a Xi di abbandonare la leadership. Al di qua della Muraglia il miracolo cinese ha cominciato a perdere smalto e tira una brutta aria. Nel mirino finisce il numero uno del Pcc. Arresti e sparizioni sono la risposta

Alessandra Colarizi Manifesto 27.3.2016, 23:59 
«Chiediamo per il bene del Partito, per la salvezza a lungo termine della Nazione, per il tuo bene e per quello della tua famiglia, di dimetterti da ogni incarico statale e di Partito. Di lasciare nelle mani del popolo cinese e del Partito la scelta di un’altra persona capace che possa guidarci attivamente verso il futuro». Firmato: «I membri fedeli del Partito». 
È una bomba a orologeria la lettera comparsa qualche settimana fa sul sito specializzato in diritti umani Canyu.org e ripresa nel giro di poche ore da altre piattaforme online, compreso il filo-governativo Watching.cn. 
Lo è davvero dal momento che il destinatario della missiva è nientemeno che il presidente cinese Xi Jinping, l’uomo che dal novembre 2012 guida il gigante asiatico sullo scivoloso sentiero delle riforme economiche con pungo di ferro e tolleranza zero verso le voci del dissenso politico. 
L’appello comincia con un plauso dei successi ottenuti dal leader (con riferimento alla campagna anti-corruzione e all’implementazione delle riforme economiche) per poi degenerare in un’aspra critica contro l’erosione dell’indipendenza degli organi statali, l’aggressività inconcludente della politica estera, e l’incapacità gestionale manifestata di fronte all’altalena dei mercati finanziari, al problema disoccupazione e alla svalutazione dello yuan, la moneta locale. Come spesso accade in caso di contenuti sensibili, la lettera è stata fatta sparire dal web in un tardivo ripensamento dello staff di Watching.cn. Il problema è che a sparire non è stata soltanto la lettera. 
Il 15 marzo, il giornalista Jia Jia (87mila follower su Twitter) scompare nel nulla mentre si trova all’aeroporto di Pechino in viaggio verso Hong Kong. Di lui si perdono le tracce per giorni fino a quando domenica scorsa è arrivata la conferma del suo avvocato: Jia è stato trattenuto per «un’indagine», non è ben chiaro se come sospettato o per collaborare alle ricerche. 
Ma i bene informati non hanno dubbi sul fatto che esista un collegamento tra la sua sparizione, quella di un’altra quindicina di persone e la lettera, sulla cui pubblicazione Jia aveva espresso molti timori. La notizia del suo rilascio, circolata venerdì e confermata dal suo legale, per il momento non basta a fare luce sul caso. Chi ha scritto veramente la lettera? E soprattutto, come è finita su un sito finanziato dal governo? 
Jia è l’ultima vittima di un giro di vite che non sembra avere fine. Attivisti, avvocati, dissidenti e giornalisti. Chiunque metta in discussione l’operato dell’amministrazione Xi Jinping si ritrova dietro le sbarre o sulla Cctv, l’emittente di Stato con il pallino per le autocritiche a telecamere accese.
Tira un’aria tesa a Zhongnanhai, il Cremlino d’oltre Muraglia, da quando il «miracolo cinese» ha cominciato a perdere smalto. Secondo un’analisi basata su una serie di direttive interne, tra il 2012 e il 2014 l’economia si classificava soltanto settima tra gli argomenti considerati più sensibili nella lista nera dei censori. L’anno scorso – quando il Pil è cresciuto ai minimi da 25 anni – era già salita al secondo posto. 
Perché, come si sa, il rallentamento della crescita minaccia l’agognata «armonia sociale», lo dimostra l’impennata del numero delle proteste sul lavoro registrate negli ultimi tempi, circa 500 solo nel mese di gennaio. 
Va da sé che, in tempi di intolleranza, l’editoria risulta tra i settori più colpiti. Introdotta inizialmente nell’ambito della campagna anti-corruzione (in Cina il silenzio stampa non di rado viene indotto attraverso generose mazzette), la mordacchia viene ormai applicata con mezzi decisamente più grezzi. 
Ancora prima di Jia Jia a volatilizzarsi nel nulla erano stati i cinque librai di Hong Kong legati alla Causeway Bay Bookstore, libreria nota per i suoi testi scandalistici sull’establishment cinese. 
Una storia dai contorni ancora poco chiari, specie per quanto riguarda l’inettitudine dimostrata dalle autorità dell’ex colonia britannica in un momento in cui il Porto Profumato avverte più che mai l’ingerenza della mainland dopo il fallimento delle manifestazioni democratiche degli Ombrelli. 
E non sembra strano se nel 2015 l’Hong Kong Journalists Association ha registrato un ulteriore deterioramento della libertà di stampa per il secondo anno di fila. Sulla terraferma, il nuovo anno si è aperto con una storica visita di Xi Jinping presso le sedi dei principali media di Stato, la prima da quando ha assunto l’incarico di presidente. 
Il messaggio risuona forte e chiaro: i media devono «allineare la loro ideologia, il pensiero politico e le azioni a quelle del Comitato centrale del Partito e debbono aiutare a forgiare le ideologie e le linee del Partito», ha dichiarato il numero uno di Pechino. Come spiega David Bandurski su China Media Project, il tour di Xi inaugura una nuova linea politica per i media nazionali.
Bandurski paragona la visita di Xi a quella realizzata dal suo predecessore, Hu Jintao, nella redazione del People’s Daily. Correva l’anno 2008 e per l’ex presidente i media avevano il compito di «incanalare l’opinione pubblica», mentre ora Xi predilige la linea definita dei «48 caratteri» che implica una quasi completa aderenza ai valori del Partito. 
Un approccio non più «strategico e selettivo» come ai tempi di Hu Jintao, ma «senza esclusione di colpi». Quello della lealtà a tutti i costi. Funziona? Per il momento parrebbe proprio di no. E a poco sono serviti i cartoni animati e i motivetti orecchiabili con cui la propaganda ha tentato di umanizzare i leader agli occhi dei cittadini. Gli ultimi attacchi sono partiti direttamente dal cuore del sistema. All’indomani del tour mediatico di Xi, Ren Zhiqiang, il «Donald Trump cinese», riversava su Weibo la sua disillusione verso le sorti dell’informazione oltre Muraglia, non più al servizio del popolo bensì del Partito. 
Bersagliato dalla stampa ufficiale, il magnate è stato infine silenziato dalla Cyberspace Administration of China che ne ha chiuso l’account sul Twitter cinese. Un evento grave ma non raro nell’era della «nuova normalità» di Xi Jinping. 
Sarebbe potuta rimanere una delle innumerevoli purghe 2.0 inflitte dai censori ai surfisti della rete: la blogosfera insorge, i gendarmi di Internet fanno pulizia e si ricomincia. Invece no. Una lettera aperta – stavolta indirizzata al «parlamento» cinese – ha preso le difese di Ren accusando i dipartimenti governativi di aver, negli ultimi anni, «completamente ignorato la Costituzione e lo Stato di diritto». A differenza di quanto si potrebbe pensare, dietro l’audace messaggio (che riporta tanto di firma, numero di telefono e Id) non c’è un attivista bensì un dipendente dell’agenzia statale Xinhua. 
E non è l’unico «insider» ad aver lanciato il guanto di sfida. Ad inizio mese anche la nota rivista finanziaria Caixin, diretta da Hu Shuli (una che in passato ha sempre saputo mantenersi sul filo del lecito con maestria funambolica), ha puntato i piedi portando allo scoperto un eclatante caso di censura ai propri danni.
«Il Partito ha cominciato a perdere la lealtà degli intellettuali sulla scia del movimento antidestrista del 1957. Dalle riforme e l’apertura anni ’80 si è avuto un qualche miglioramento, ma da quando Xi Jinping ha preso il potere la situazione è nuovamente peggiorata» spiega al manifesto Qiao Mu, docente della Beijing Foreign Studies University, editorialista, nonché amico di Jia Jia. 
«Molti accademici, giornalisti e avvocati considerano il presidente una specie di «guardia rossa» che ha riportato in vita il culto della personalità con mezzi da Rivoluzione Culturale. Un ipocrita bugiardo che ha nella sua discendenza dall’aristocrazia comunista l’unico fattore di legittimazione». 
In un certo senso, siamo di fronte alla rottura del tacito accordo tra media e potere suggellato all’indomani dei fatti di piazza Tiananmen, quando Pechino concesse maggiore libertà imprenditoriale e manageriale in cambio di obbedienza. 
Non a caso, secondo il Washington Post, l’escalation repressiva ha innalzato il livello d’allarme presso la comunità diplomatica internazionale a livelli mai visti dai tempi dello storico massacro.

La forza di Xi Jinping e il giornalismo di stato
Cina. Dopo la lettera che chiede le dimissioni del numero uno, la leadership di Xi appare ancora più solida. E i media sono a disposizione di Simone Pieranni il manifesto 27.3.16
La lettera che chiede le dimissione del presidente cinese (nonché segretario del Partito comunista) Xi Jinping e le sue conseguenze immediate, gli arresti e le detenzioni di persone ritenute coinvolte se non nella sua stesura, quanto meno nella sua diffusione, indicano una difficoltà della leadership di Pechino a rendere omogeneo tutto il Partito, di fronte alla figura di un numero uno che si è via via rivelato accentratore anche più dei suoi predecessori.
Significa che quelle lotte intestine diventate pubbliche durante lo scandalo Bo Xilai sono ancora lì, non sopite e pronte a scattare a ogni segnale di debolezza del Partito. L’impressione è che si tratti di tentativi che finiranno per consolidare ancora di più la posizione di Xi Jinping, leader che si è saputo armare di validi scudieri in grado di eliminare anche rivali contrari alla sua politica. I firmatari per altro hanno inserito nella loro lettera alcuni avvertimenti macabri, come quelli che si riferiscono all’integrità fisica di Xi e dei suoi famigliari, che pongono perfino dubbi sulla veridicità del testo. Prendendolo per buono, al presidente cinese vengono evidenziati tre problemi della sua azione: in primo luogo il disastro economico dovuto al tonfo in borsa e la perdita di soldi da parte di tante persone; in secondo luogo una politica estera eccessivamente aggressiva, a dire loro, che avrebbe finito per riportare gli Stati uniti ad un ruolo piuttosto pericoloso nell’area (abbandonando così – secondo i firmatari – la teoria della politica estera di Deng Xiaoping che puntava a «nascondere» la potenza cinese sotto forma di una diplomazia più subdola e apparentemente più accomodante).
Xi Jinping viene infine accusato di aver coltivato un culto della personalità che avrebbe finito per sradicare la «guida collegiale» del Partito.
I «fedeli membri del Partito» con questa lettera finiscono però per dimostrare poca forza, prima di tutto. Nella liturgia tutta cinese fatta di messaggi trasversali, quanto esce pubblicamente – di solito – ha lo stampo della debolezza, al contrario di imboscate interne capaci di partire del tutto silenti, salvo poi ottenere risultati. In secondo luogo la lettera appare densa di conservatorismo e volontà di mantenere lo status quo e quindi, dato il percorso comunque intrapreso dal paese, i desiderata di chi l’ha scritta sembrano inesorabilmente destinati a soccombere di fronte alla storia.
Più interessante appare una lettura di tipo «comunicativo» che permette di scorgere la necessità, da parte di chi contesta la presidenza, di armarsi di strumenti in grado di incidere quella realtà ovattata creata dal sistema informativo cinese, oggi ancora più sottoposto al potere rispetto al passato. E questo secondo aspetto indica il sentiero di una riflessione che avvicina Pechino alla gestione del consenso che possiamo ritrovare anche in altri sistemi politici.
Xi Jinping di recente ha compiuto una visita nel quartier generale dell’agenzia di stampa cinese, la Xinhua, invocando la «fedeltà al partito» e ribadendo una più generale necessità che i mezzi di informazione funzionino come cassa propagandistica delle azioni di governo. Si tratta di qualcosa che ben si inserisce nella considerazione, si permetta la generalizzazione, che tanti cinesi hanno del giornalismo (compresi molti addetti ai lavori). Ma in generale richiedere alla stampa una narrazione capace di supportare, anziché puntellare e imporre al potere una condotta attenta, non sembra oggi un desiderio esclusivo del leader cinese.

«Presidente Xi, dimettiti» Una lettera fa scattare la caccia all’uomo in Cina 
di Guido Santevecchi Corriere 29.3.16
Chi sono i «Leali membri del Partito comunista» autori di una lettera che invoca le dimissioni del presidente cinese Xi Jinping? E come ha fatto quella lettera di sfida ad essere pubblicata su un sito web legato al governo? Per scoprirlo Pechino ha scatenato una caccia all’uomo, arrestando decine di persone, compresi genitori e fratelli di dissidenti rifugiati all’estero.
Il documento cominciava così: «Salve compagno Xi Jinping, siamo leali membri del Partito comunista e ti chiediamo di dimetterti da tutte le tue cariche». Seguiva una dettagliata requisitoria sui tre anni di leadership di Xi che «accentrando tutti i poteri e abbandonando il sistema di decisione collettiva ha aperto crisi nelle sfere politiche, economiche, ideologiche e culturali del Paese». Al dirigismo e al personalismo del presidente sono stati addebitati il crollo in Borsa dell’estate scorsa; i licenziamenti massicci nelle imprese statali; una politica estera fallimentare, incapace di fermare la corsa nucleare della Nord Corea e che avrebbe causato invece il ritorno in forze degli americani nella regione.
La lettera è comparsa sul portale Watching.cn il 4 marzo: una data scelta con cura perché quel giorno si apriva la sessione dell’Assemblea del Popolo, il parlamento cinese incaricato di votare il nuovo Piano quinquennale. E soprattutto, Watching.cn era stato aperto l’anno scorso dal governo provinciale dello Xinjiang e finanziato anche dal gruppo di e-commerce Alibaba con l’obiettivo di propagandare l’iniziativa «Una Cintura una Strada», riedizione della Via della Seta fortemente voluta da Xi Jinping. Anche su questo progetto geopolitico del presidente i Leali membri del Partito hanno sparso veleno perché avrebbe sprecato: «una grande quantità di riserve valutarie in Paesi caotici senza alcun profitto».
La censura è intervenuta con la consueta rapidità e il testo è stato cancellato. Poco dopo è partita la repressione: il presidente del sito, due dirigenti giornalistici e quattro impiegati sono scomparsi, presumibilmente arrestati. Non si hanno notizie anche di una decina di dipendenti di una società di supporto tecnico di Watching.cn . È stato fermato un noto giornalista, Jia Jia, sospettato di coinvolgimento della diffusione del documento. Lo hanno rilasciato dopo una decina di giorni perché a quanto pare era solo amico del direttore del portale e gli aveva sconsigliato di pubblicare la lettera incriminata. Forse la polizia di Pechino non sa ancora chi si celi dietro la firma e quanto possa essere in contatto con la membri della nomenklatura. La caccia si è estesa anche all’estero: due dissidenti basati negli Stati Uniti e in Germania, Wen Yunchao e Zhang Ping, hanno denunciato che loro parenti in Cina sono stati arrestati e interrogati per estorcere informazioni e fare pressione. Wen e Zhang negano di aver avuto un ruolo nell’estensione del documento.
La lettera è arrivata in un momento critico per la politica interna cinese: il 19 febbraio Xi Jinping ha visitato la televisione nazionale Cctv , il Quotidiano del Popolo e l’agenzia ufficiale Xinhua per pronunciare un discorso forte diretto a tutti i redattori e direttori dei media statali: «Adesione stretta ai valori del giornalismo marxista, guidare nel modo appropriato l’opinione pubblica, enfasi sulla pubblicità positiva, riflettere la volontà e il punto di vista del Partito». Il Capo dello Stato, nonché segretario generale comunista, presidente della Commissione militare e di altri cinque Gruppi di Guida appositamente costituiti per garantirgli un potere incontrastato, ha usato anche una frase vagamente poetica, una sua specialità: «Come le persone, i giornali hanno un nome, che è la loro testata, ma il cognome è sempre Partito».
Si sono però subito levate voci di intellettuali, giornalisti, persone pubbliche che hanno rivendicato il diritto di critica. Il caso più clamoroso è stato quello di Ren Zhiqiang, famoso imprenditore e blogger con 37 milioni di follower che ha postato: «Quando i media sono leali in primo luogo al Partito il popolo finisce in un angolo, abbandonato». Ren è stato cancellato dal web, ma non ancora arrestato, perché a quanto si dice ha appoggi importanti.
La lettera dei Leali membri del Partito contiene anche un monito personale a Xi: «Temiamo che la lotta di potere interna possa portare rischi per la sicurezza tua e della tua famiglia».

Xi Jinping a Praga, accordi investimenti e soft power
Repubblica ceca. Incontro con il presidente Zeman di Jakub Hornacek il manifesto 30.3.16
PRAGA Quella del presidente cinese Xi Jinping a Praga è una visita storica. In questa occasione sarà firmato il Memorandum di cooperazione strategica, che la Cina ha già stretto con altri stati europei come la Francia e la Gran Bretagna.
La Repubblica Ceca sarà il primo paese dell’Europa orientale a stabilire un livello di partnership privilegiato con la Cina. Nell’accordo ci sono alcuni punti salienti come il riconoscimento dell’indivisibilità della Cina, mentre i diplomatici cechi hanno dovuto respingere alcune richieste cinesi. Tra i punti scartati, secondo alcune indiscrezioni, c’era il riconoscimento della Repubblica Popolare come economia di mercato.
L’avvicinamento dei due Paesi è in corso da diversi anni. Il principale propulsore di questo indirizzo geopolitico è il presidente ceco Milos Zeman, che fu l’unico capo di stato dell’Unione europea a partecipare alla parata organizzata l’anno scorso a Pechino in ricorrenza della fine della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico. «La visita segna un nuovo inizio, in quanto i rapporti tra la Cina e i precedenti governi cechi erano pessimi – ha dichiarato Zeman alla vigilia dell’arrivo di Xi Jinping alla televisione cinese Cctv – I governi precedenti erano sotto l’influenza degli Stati uniti e dell’Unione europea. Ora siamo nuovamente un Paese indipendente con una politica estera autonoma corrispondente ai nostri interessi nazionali».
L’indirizzo espresso dal presidente ceco è stato – in qualche modo – accettato anche dal governo e dalla destra euroscettica, che vede in Pechino una possibile, per quanto aleatoria, alternativa all’odiata Bruxelles. Nel Paese non mancano però dissensi espressi soprattutto dai sostenitori dell’autonomia del Tibet e dagli attivisti per i diritti umani. All’arrivo di Xi si sono registrate in città scaramucce tra i critici e i cinesi festeggianti la visita del proprio numero uno. La visita di Xi Jinping si porta dietro anche le inevitabili attese di investimenti cinesi.
La Cina ha scoperto piuttosto di recente la Repubblica Ceca e i primi investimenti di qualche spessore sono arrivati solo nella seconda metà dell’anno scorso. L’investitore più attivo è stata fin’ora la compagnia Cefc, che ha fatto acquisizioni per circa 800 milioni di euro.
Gli investimenti hanno riguardato soprattutto operazioni finanziarie e acquisizioni simboliche, come per esempio quella dello storico club di calcio della capitale Slavia Praga.
A godere di maggiori benefici dall’arrivo del capitale cinese in Repubblica Ceca è stata una schiera trasversale di imprenditori nei media, oligarchi e lobbisti, che si sono visti arrivare in tasca una valanga di denaro fresco. Gli investimenti nelle attività produttive si fermano per ora a circa 50 milioni di euro.
È chiaro che queste acquisizioni fungono anche da strumenta di persuasione verso una fascia di imprenditori, che hanno grande influenza nella politica locali. Alcuni sinologi cechi hanno anche avvertito che la compagnia Cefc potrebbe essere nell’orbita dei servizi segreti cinesi, un fatto decisamente smentito dal factotum ceco della società e presidente della Camera di Commercio Ceco-Cinese Jaroslav Tvrdik. «Cefc è una normale compagnia commerciale privata», ha dichiarato Tvrdik al quotidiano Lidove Noviny.
Allo stato attuale i dirigenti cinesi considerano la Repubblica Ceca uno dei Paesi dell’Ue più aperti e amici nei confronti della Repubblica Popolare. Certamente il paese del centro Europa è appetibile per la sua posizione geografica di potenziale hub centro-europeo della Nuova via della Seta, che in Europa dovrebbe sbarcare nel porto del Pireo, risalire i Balcani e raggiungere i ghiotti mercati dell’Europa centrale e settentrionale tramite nuove infrastrutture ferroviarie e fluviali.
Allo stesso tempo la dirigenza della Repubblica Popolare tenta di non dipendere da un solo paese nelle sue strategie. Accordi simili alla partnership strategica con la Repubblica Ceca sono stati infatti offerti ad altri Paesi dell’area, ad esempio la Polonia. L’esclusività di rapporti con la Cina, in cui si cullano molti politici cechi, potrebbe diventare presto un’illusione.

In Europa record di investimenti cinesi
Nel 2015 sorpasso sul Nord America - Italia destinazione principale grazie al deal Pirelli-ChinaChem di Rita Fatiguso Il Sole 30.3.16
La tappa in Repubblica Ceca del presidente Xi Jinping prima di volare negli Usa conferma la volontà cinese di puntare le carte sull’Europa.
I cechi non si sono fatti prendere in contropiede e hanno presentato un gruppo di progetti ad hoc per la One belt One road strategy tanto cara a Xi, anche perchè lìanno scorso, in un sol colpo, i cinesi di Xi’an Shaangu Power hanno acquistato il 75% della fabbrica di turbine Brno Ekol per 49,1 milioni di dollari, un investimento pari al 17% del totale delle poste cinesi nella Repubblica Ceca.
Copione già visto, al punto che nel 2015 si è verificato un vero e proprio record di investimenti di Pechino in Europa, con un sorpasso deciso sul Nord America. Il 73% delle risorse totali è stato indirizzato nel real estate, automotive, IT, servizi finanziari. L’Italia, grazie al deal di Pirelli con la ChinaChem di Ren Jianxin è stata la principale destinazione con 7,8 miliardi, “bruciando” Francia (3,6 miliardi), il Regno Unito ( 3,3 miliardi), i Paesi Bassi (2,5 miliardi) e la Germania (1,3 miliardi), in cinque totalizzano il 78%.
Nel 2016 – avvisa il nuovo report di Baker & McKenzie che il Sole 24 Ore ha potuto leggere in anteprima, la pubblicazione è prevista per maggio - la pressione cinese aumenterà. In questi primi mesi del 2016 ci sono 70 miliardi di dollari potenziali operazioni in cantiere, di cui circa 50 miliardi in Europa e più di 20 miliardi in Nord America. L’acquisizione per 43 miliardi della svizzera Sygenta (sementi e fertilizzanti) da parte (ancora una volta) di ChemChina è già finita negli annali, la Svizzera due anni fa non aveva investimenti cinesi.
Marco Marazzi del China Desk Baker & McKenzie Italia preconizza un’annata record. «Il nostro report – dice - racconta la vera storia perché elaborato sui dati relativi ad acquisizioni e investimenti effettivamente portati a termine e non solo annunciati. I cinesi vogliono aumentare il loro presidio globale, il loro è un ciclo economico senza precedenti nell’era moderna. La Cina è uno dei primi tre investitori esteri al mondo e gli investimenti cinesi in Europa e Nord America in forma aggregata hanno battuto ogni record consecutivo negli ultimi cinque anni».
Dopo un breve calo registrato nel 2013, gli investimenti cinesi in Europa, infatti, sono più che raddoppiati a 18 miliardi nel 2014. Il 2015 è stato un anno record anche per quelli negli Stati uniti con 15,3 miliardi.
Negli ultimi due anni sono però calati drasticamente gli investimenti cinesi in Canada, in particolare nel settore energetico, per la cronaca ricordiamo che il fondo sovrano China investment corporation (Cic) aveva aperto un presidio importante che l’anno scorso ha chiuso, senza fornire troppe spiegazioni.
In Italia e Francia gli investimenti sono più che raddoppiati grazie alle grandi operazioni, nel Regno Unito , invece, sono calati del 35% dopo un eccezionale 2014. In Italia dal 2000 al 2015 gli investimenti cinesi si sono concentrati principalmente nei seguenti tre settori: nel settore automotive con 7,783 miliardi, nel settore delle infrastrutture e dei trasporti con 2,827 miliardi e nel settore dei macchinari industriali con 1,594 miliardi. I Paesi Bassi sono finiti nel mirino di acquisizioni tecnologiche e nei servizi finanziari. Anche il Belgio e la Norvegia stanno emergendo come nuove possibili destinazioni.
In Europa nel 2015 le operazioni greenfield da oltre 1 milione sono state 58 per 750 milioni mentre le operazioni di M&A sono state 104 per un valore di oltre 22 miliardi. Protagoniste, ovviamente, le aziende di Stato cinesi (con oltre il 60%).
Le operazioni nel real estate e nelle infrastrutture rappresentano investimenti a lungo termine, una sorta di compensazione contro il rallentamento economico in Cina. Gli investitori privati, le aziende di Stato e i fondi sovrani hanno investito più di 18,3 miliardi nel settore immobiliare in entrambi i continenti nel corso degli ultimi cinque anni. L’incremento di investitori finanziari cinesi sia in Nord America sia in Europa è dovuto alla rapida crescita di tale tipologia di impresa in Cina, alla liberalizzazione delle norme di investimento verso l’esterno e alla razionalizzazione dei processi amministrativi. Il valore complessivo degli investimenti in Europa e in Nord America di queste società, in particolare compagnie assicurative, private equity e conglomerati, è cresciuto dallo zero di soli tre anni fa fino ai 15 miliardi del 2015.
Gli investimenti di piccole dimensioni (sotto i 100 milioni) nel 2015 sono stati pari a un valore di 3,4 miliardi in Nord America e 2,6 miliardi in Europa, con tassi costanti di crescita a partire dai livelli del 2014. Gli investitori privati cinesi sono la categoria più attiva in questa tipologia di operazioni con oltre l’80% del valore totale degli investimenti.
In Europa la carenza di risorse nel settore delle infrastrutture e dei trasporti ha creato spazi per i settori aereoportuale, energetico, idrico con operazioni per 10.5 miliardi, quasi tre volte gli investimenti cinesi (3,8 miliardi) effettuati in Nord America in questi stessi settori.
Negli Stati Uniti l’industria dei software ha incassato ben 2,5 miliardi dal 2008 al 2015. Negli ultimi due anni gli investimenti nel settore entertainment sono cresciuti sia in Europa sia in Nord America raggiungendo i 2,9 miliardi nel 2015. Gli investimenti cinesi nell’industria alberghiera hanno toccato quota 6 miliardi nel 2015 e l’appetito non si sazia, basta guardare alle manovre di Anbang su Starwood. Il settore finanziario ovunque è risultato molto attraente per gli investimenti dalla Cina con 4,6 miliardi investiti solo nel 2015, un valore superiore al totale degli investimenti cinesi nel settore negli ultimi 14 anni. E non è finita. 

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