lunedì 21 marzo 2016

Il quarto volume del Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena

Giovanni Scoto Eriugena: Periphyseon, IV, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla













LE DUE FACCE DELLA GENESI 
Nel suo capolavoro «Sulle nature dell’universo» il grande pensatore medievale Giovanni Scoto ipotizza una doppia creazione: nella prima l’uomo è molto simile a un angelo, nella seconda decade verso l’animalità

21 mar 2016 Corriere della Sera di Pietro Citati 
Con ogni probabilità, Giovanni — il più grande filosofo del Medioevo latino — nacque in Irlanda attorno all’815. La tradizione gli attribuisce due nomi: Giovanni Scoto e Giovanni Eriugena, cioè Giovanni l’Irlandese. Lo circondava una specie di leggenda: « vir barbarus in finibus mundi positus », come scrisse Anastasio il Bibliotecario. Abbiamo pochissime notizie sulla sua vita. Tutto lascia credere che, carico di un’immensa erudizione, abbia insegnato nella giovinezza in Irlanda; e che il re Carlo il Calvo lo abbia invitato, intorno all’840, alla sua corte, affidandogli il compito di insegnare arti liberali alla scuola palatina di Parigi. 
Divenuto re nell’840, Carlo il Calvo esercitò un grande fascino sui letterati del suo tempo. Giovane, abile parlatore, dotato sia di urbanitas sia di dulcedo, aveva costruito in numerosi anni una corte molto più brillante, viva ed originale di quella di Carlo Magno. Moltiplicava le biblioteche e gli scriptores, che ricopiavano manoscritti italiani, inglesi e irlandesi: ispirava meravigliose miniature; leggeva i testi latini che aveva a disposizione, e possedeva una conoscenza sia pure superficiale del greco. Il libro era il cuore mobile e vibrante della sua vita. Giovanni Scoto e Carlo nutrivano, l’uno verso l’altro, sentimenti di ammirazione e di venerazione; e giocavano con il greco, il latino, le idee, le immagini, come se la cultura fosse una specie di spettacolo inesauribile. 
A Parigi Giovanni Scoto conobbe dei professori provenienti da Costantinopoli, che gli insegnarono un greco quasi perfetto, in tutta la ricchezza delle sue sfumature. D’allora in poi si abbeverò a quella abbondantissima fonte: tradusse Prisciano di Lidia, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore e, soprattutto, il corpus dello Pseudo-Dionigi, che accreditò in Occidente. Scrisse il De praedestinatione, un commento a Dionigi, una mirabile Omelia sul prologo di Giovanni (Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori, 1987), un commento incompiuto al Vangelo di Giovanni. Prima dell’866, compose l’immenso Periphyseon, ovvero Sulle nature dell’universo: in questi giorni esce il quarto volume di una bellissima edizione commentata, che comprenderà cinque volumi della Fondazione Valla (pagine LXVI-418, 30). L'introduzione e il commento sono di Peter Dronke, uno dei più eccellenti medioevalisti e comparatisti di lingua inglese: la traduzione italiana di una elegante studiosa, Manuela Pereira, che negli anni scorsi curò per i Meridiani Mondadori un volume sull’Alchimia e Il libro delle opere divine di Hildegarde Von Bingen. 
Mentre Giovanni Scoto traduceva il Corpus dello Pseudo-Dionigi, i normanni scendevano in Francia: incendiarono e distrussero tre volte Parigi: attaccarono Nantes, sgozzarono il vescovo, arsero la cattedrale: bande di mori penetrarono a Arles e a Nimes: altre flotte normanne assediavano Bordeaux; risalirono la Senna, la Loira, raggiunsero Tours, Orléans, Amiens, devastando case, chiese, palazzi reali, abbazie. Dopo qualche anno di pausa, le navi normanne riportarono dovunque desolazione e distruzione: tornò a diffondersi un’atmosfera da fine del mondo. Ma Giovanni Scoto non desisteva: lui doveva indagare le vere nature dell’universo, i principii, le entità angeliche, le teofanie; non i casuali disastri, che la follia degli uomini produce sulla superficie del mondo. 

Tornato alla luce dopo un lungo periodo di silenzio e di incomprensione, Sulle nature dell’universo è, per un lettore moderno, il libro filosofico più affascinante del Medioevo. La Summa di san Tommaso pretende di insegnarci una verità stabile e immobile: Sulle nature dell’universo commenta ogni idea, immagine, sensazione, intuizione, discese dai testi della filosofia greca e latina; e non fa che inseguire ipotesi che si sciolgono e si dissolvono in altre ipotesi e congetture, culminando in una sovracongettura, che appartiene, come diceva Borges, al genere della letteratura fantastica. Scoto corteggia qualsiasi suggestione culturale, ma non è vincolato a nessuna di esse. Non è platonico, né aristotelico, né stoico, né agostiniano, e tantomeno panteista. Mentre insegue i segreti dell’universo e di Dio, gioca, ironizza, dissemina false citazioni: il maestro del dialogo deride l’alunno, l’alunno deride il maestro; e non sappiamo mai chi dei due abbia veramente ragione. Scoto analizza ogni possibile complessità logica: glossa le categorie: nessuno sembra più minuzioso e razionale di lui; e alla fine prorompe in grandi sintesi mistiche su Dio e la natura originaria dell’universo. 
Il quarto libro di Sulle nature dell’universo commenta i primi capitoli della Genesi, testo difficilissimo, commentando contemporaneamente gli scritti dei Padri della Chiesa, da Gregorio di Nissa ad Agostino: Giovanni Scoto sa di appartenere alla grande tradizione cristiana, la quale dà interpretazioni molteplici e contraddittorie degli stessi versetti biblici. Egli li analizza «con assiduo e faticoso studio», e torna a scrutarli e ad analizzarli. Una moltitudine di questioni diverse lo attornia da ogni parte, sgorgando da una fonte inesauribile: «Simili alla figura immaginaria dell’idra erculea, alla quale crescono tante teste quante ne vengono tagliate, in modo tale che per una che è stata amputata cento pullulano». Tutto è oscuro davanti a lui: Giovanni Scoto si entusiasma per la grandezza del suo compito; e per la ricchezza del libro che esce, quasi miracolosamente, dalle sue mani. Non ignora che la sua impresa sarebbe disperata, se non fosse soccorsa, passo dopo passo, versetto dopo versetto, dal suggerimento aperto e misterioso di Dio. 
Giovanni Scoto pensa che sia esistita una doppia creazione dell’uomo, indicata da due versetti della Genesi: «Dio fece l’uomo, a immagine di Dio lo fece», e «Maschio e femmina li fece». Nella prima creazione, avvenuta prima del peccato, l’uomo era composto di due nature, una invisibile secondo l’anima, una visibile secondo il corpo: questo corpo era spirituale, incorruttibile, eterno, semplice, simile o identico a quello che avremo dopo la resurrezione; lo possediamo anche oggi, ed è l’unico corpo vero e sostanziale. Non abbiamo altri corpi: il resto non è altro che vano, inesistente movimento; veste mutevole e corruttibile del corpo vero e secondo natura, che da principio fu stabilito nell’uomo. In questo primo uomo, fatto ad immagine di Dio, Dio si aggira segretamente e spiritualmente, scrutando e interrogando il corpo, il cuore e la ragione di ognuno. Adamo non aveva bisogno di sensi corporei: utilizzava soltanto l’intelligenza: non aveva passioni; e conosceva Dio senza ricorrere alla ragione. 
La seconda creazione avvenne dopo il peccato di Adamo, e soltanto in essa, contravvenendo al testo della Genesi, Giovanni Scoto afferma che ebbe luogo la distinzione tra i due sessi, segno di degradazione, simile alla condizione bestiale. Se nella prima creazione l’uomo era similissimo a un angelo, nella seconda creazione egli perse la propria natura angelica e diventò un animale. Nella prima creazione si moltiplicava nel modo misterioso con cui si moltiplicano gli angeli: nella seconda creazione, invece, si moltiplicava secondo l’unione sessuale. Giovanni Scoto condanna ed esecra sia la divisione tra i sessi sia l’unione tra maschio e femmina. Di nuovo disobbedisce alla Bibbia, poiché vede in entrambe il segno del peccato di Adamo.
Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden, Un’opera del pittore rinascimentale tedesco Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), 1530, Vienna, Kunsthistorisches Museum 
Giovanni Scoto studia a lungo i due alberi dell’Eden: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. L’albero della vita, ovvero l’albero-tutto, è già il verbo e la sapienza di Gesù Cristo, piantati nel centro del paradiso della natura umana. Esso è la bontà sostanziale, e la semplicità metafisica. Il suo frutto è la vita eterna, e dà gioia ineffabile. Il suo aspetto è la bellezza. Dio ordinò all’uomo di cibarsi dei suoi frutti, ma l’uomo peccò, preferendogli il frutto dell’albero della scienza del bene e del male. Questo è l’albero doppio: il male colorato con l’immagine del bene; e produce un frutto confuso, un aggregato di qualità contrarie, di cui Dio ci proibisce di nutrirci. Noi non conosciamo il male assoluto: esso è inconoscibile e incomprensibile come Dio; lo conosciamo soltanto se ci appare, come nel caso dell’albero della scienza del bene e del male, sotto la forma del bene. 
Sempre geniale ed ardito, Giovanni Scoto affronta quasi tutti i temi della tradizione cristiana, e dà loro una forma imprevista, che ci affascina per la sua audacia. Le sue idee ci colpiscono per il loro carattere doppio: egli non dice mai che «Dio è verità», ma sia che «Dio è verità», perché è la causa di tutte le cose vere, sia «che Dio non è verità», perché è superiore a tutto ciò che si dice, si conosce, ed è. La teologia negativa, immaginata da Dionigi l’Areopagita, viene applicata a tutte le immagini e le idee, e conferisce loro una straordinaria ricchezza. Il mistero e l’incomprensibile vengono svelati, e, al tempo stesso, conservati nel loro mistero incomprensibile. «L’affermazione — Scoto dice — è meno adatta della negazione a significare l’ineffabile essenza divina, poiché la prima si riferisce al creatore prendendo le mosse dalla creazione, mentre l’altra riguarda il creatore in sé, al di sopra dell’intera creazione». 
Il quarto libro di Sulle nature dell’universo doveva trattare «del ritorno di tutte le cose nella natura che non crea e non è creata», cioè in una forma di Dio: in realtà ne tratterà soltanto il quinto libro. Il tema del ritorno — dice il maestro — è molto più difficile dei temi degli altri libri; e incute terrore. Mentre i primi tre libri erano simili a un mare calmo, che si può attraversare senza fare naufragio, il quarto libro è molto più arduo ed oscuro: è simile ad un mare sconvolto dalla tempesta: difficile e terrificante è appunto il tema del ritorno; e solo con l’aiuto della grazia divina si potranno superare gli ostacoli e giungere in porto. 
Il maestro esprime, quasi disperato, la difficoltà del viaggio che deve compiere nel libro di Giovanni Scoto. Il discepolo esalta la bellezza di questo viaggio: difficile e impossibile, eppure possibile e meraviglioso; la ragione ama rivelare la sua potenza «nei profondi flutti dell’oceanus divinus, piuttosto che riposare oziosamente nei mari calmi ed aperti, dove non può dimostrare la sua forza». Come accade sovente, spetta al discepolo dire l’ultima parola: l’ultima parola di Giovanni Scoto, che esalta la tremenda difficoltà e la profondità del suo viaggio nei misteri dell’oceanus divinus, il solo tema che ama veramente. Questo oceano è appunto il ritorno alla natura che non crea e non è creata. Giovanni Scoto balza al di fuori della creazione, sebbene ne avesse appassionatamente indagato le forme: si lascia dietro le spalle Dio creatore; e si perde affascinato nella «natura superessenziale, da nessuno creata, senza principio, che non scaturisce da niente». Come aveva preferito parlare dell’uomo senza peccato piuttosto che dell’uomo peccatore, così preferisce parlare del tenebrosissimo Dio in sé piuttosto che del Dio creatore.

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