venerdì 11 marzo 2016

Imbalsamazioni: un gotico italiano

Il grande animale
Gabriele Di Fronzo: Il grande animale. , Nottetempo

Risvolto

Francesco Colloneve, imbalsamatore per mestiere, ha imparato che non c’è modo di scampare alla perdita e dunque tanto vale esercitarsi in tutti quei gesti che aiutino a sopravvivere agli abbandoni. Quando il padre si ammala, la sua memoria tarlata è l’occasione per ricordare insieme mancanze e colpe di cui Francesco porta ancora i segni. Ma è alla morte del genitore, da cui si è dovuto trasferire, che Colloneve – esperto di abbandoni per indole nonché per professione – dovrà usare tutte le sue strategie per trasformare il dolore del lutto in un incantesimo di eternità. Perché se, come ha scritto Elizabeth Bishop, “l’arte di perdere non è difficile da imparare”, piú complicata è l’arte di sopravvivere alle cose perse. In questo suo romanzo di esordio, con una lingua esatta e tagliente – che evoca gli strumenti del suo protagonista – Di Fronzo ci racconta come far sí che ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimanga nostro per sempre.


L’istante prima. Grandi animali in tempi glaciali 
Giacomo Giossi Manifesto 11.3.2016, 0:11 
Quale forma ha la morte? Quale spazio può occupare nel cuore? Francesco Colloneve di professione fa l’imbalsamatore di animali, lo fa con la cura e lo sguardo di un positivista alle prese esclusivamente con quel panorama spesso desolante che è la realtà percepita, concreta. Colloneve si muove con competenza e cura, racconta le piccole astuzie e le tensioni che i possibili errori generano: ogni animale una storia, ogni animale un abbandono. 
Colloneve infatti non si occupa dell’addio, ma arriva dopo quando tutto è finito, quando il passato è chiamato a farsi testimone a tratti assurdo del presente. Romanzo leggero e raffinatissimo, Il grande animale (Nottetempo, pp. 161, euro 12), di Gabriele Di Fronzo, è un testo glaciale eppure ricco di continui slittamenti emotivi. Di Fronzo domina la scrittura e come un attento chirurgo interviene con una narrazione vivissima su una storia in cui la morte è già fugata, già data. 
Il centro del libro è infatti l’abbandono che si spalma nel tempo tra l’addio e la morte e nel caso del protagonista addirittura permane come forma di azione, come motore della propria stessa ricerca esistenziale. La narrazione alterna il rapporto tra Colloneve e il padre, un rapporto fatto di esili dialoghi spesso legati allo spiccio della quotidianità, ad un’analisi dell’operare. Già perché un imbalsamatore non opera per la vita, ma opera sulla morte, fermando esattamente come fa lei la vita in un istante perenne e assoluto. 
L’imbalsamazione cancella il tempo che è stato e anche il tempo che verrà fatto di decadimento e perdita di senso. La tassidermia è l’arte dell’istante che diviene infinito ed soprattutto per la nostra epoca il ritorno di un contemporaneo che schiacciato tra nostalgie e ambizioni quindi tra passato e futuro pare avere le sembianze solo di una icastica morte. In questo lavoro è necessario saper organizzare i passaggi e le funzioni: un’esercizio del passaggio per colui che non subirà mai più alcun passaggio. Il tempo non esiste più, non solo è inafferrabile, ma condanna ad un continuo passare. L’espressione dell’«adesso» contraddistingue i suoi lavori, non un soffio vitale, né quello della morte ma il trucco di una esistenza al tempo presente continuo. 
Un meccanismo perfetto per il protagonista che è anche voce narrante, un uomo isolato e appartato che ritrova nel dialogo a tratti torvo con il padre il senso di una esistenza e di un tempo da vivere. Ed è proprio la relazione, questa doppia linea parallela che segna il discorso di Di Fronzo divenendone poi l’asse portante, a dare forma ad un testo che evita ogni forma di brillantezza per incedere a passo svelto con una durezza emotiva, pulsante. 
Il grande animale è l’assurdo che diviene azione di normalità, una narrazione piana che raccoglie tutta l’esperienza dell’ultima narrativa italiana – soprattutto degli anni Novanta – riuscendo però a fare un salto di qualità, superando i confini spesso stanchi e ormai inagibili di una letteratura che è stata a tratti di rottura, ma anche di comodo

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