lunedì 7 marzo 2016

La decadenza dell'aristocrazia zarista nella Russia dell'Ottocento: torna Leskov

Una famiglia decadutaNikolaj Leskov: Una famiglia decaduta, t Fazi

Risvolto
"Una famiglia decaduta", scritto nel 1874, è forse il romanzo in cui Leskov riconosce più chiaramente l'attimo tremendo che lega la gioia allo sconforto, quando la felicità si comincia a fare desiderio e timore. E' l'esistenza nella sua pienezza, la semplicità assoluta degli uomini a raccontare come la vita, quanto più ricolma, già decada e dia conto di una fatica ineluttabile, dello sconforto per ciò che deve fallire. E' proprio questa verità, ripetuta in filigrana, pagina dopo pagina, a commuovere i lettori.
Uno dei vertici dell’opera narrativa di Leskov, Una famiglia decaduta racconta la storia dell’affascinante principessa Varvara Nikanorovna, costantemente in lotta contro ogni forma di ingiustizia. È la nipote Vera a ricostruire l’ascesa della nonna, che dalla piccola nobiltà di provincia entra a far parte di una delle famiglie aristocratiche più in vista di San Pietroburgo. La cronaca inizia nell’anno 1812, quando il marito della principessa resta ucciso nella guerra contro Napoleone, e termina nel 1825, con la rivolta dei decabristi. Vedova a meno di trent’anni, ma ancora giovane e bella, Varvara non è interessata a risposarsi: lei ha amato, e amerà sempre, un unico uomo nella sua vita. Si dedica invece, con grande impegno, ai suoi figli, ai quali vorrebbe impartire un’educazione genuinamente cristiana, e al benessere dei suoi contadini. La principessa agisce con una bontà fuori dal comune, che però le procura un danno dopo l’altro, specie quando dalla campagna si trasferisce a San Pietroburgo – la cui corruzione è descritta con un realismo “comico” impressionante – e si trova a frequentare i salotti dei nobili. Una fitta cronaca di eventi e personaggi che si muovono in un’atmosfera sospesa tra tragedia e commedia, dove dramma e felicità appaiono come i due volti di uno stesso sogno: la vita.

Parte di una grande trilogia che comprende anche Gli ecclesiastici e Tempi antichi nel villaggio di Plodomasovo, Una famiglia decaduta è uno dei capolavori della letteratura russa dell’Ottocento. Lo stesso Leskov lo riteneva il suo romanzo più maturo e senz’altro il più vicino al suo cuore.


Leskov e la donna che disse no 

Il romanzo «Una famiglia decaduta», ora ripubblicato da Fazi, ruota intorno a una protagonista che smaschera ipocrisie e miseria umana della nobiltà zarista. Piuttosto che piegarsi, se ne va 

7 mar 2016 Corriere della Sera Di Giorgio Montefoschi 
Varvara Nikanorovna, l’eccentrica e straordinaria protagonista di Una famiglia decaduta (traduzione di Flavia Sigona, edito da Fazi, pagine 286, 16), il romanzo apparso nel 1874 che Nikolaj Leskov, uno dei maggiori scrittori russi dell’Ottocento, considerava il suo capolavoro, nasce da una famiglia assai modesta di «piccoli nobili». All’ età di cinque anni viene adottata da una famiglia ben più ricca e di antichissimo lignaggio: i principi Protozanov, e condotta ad abitare nella loro casa di campagna. Ventenne, Varvara è di incomparabile bellezza: bruna, alta e snella, dai grandi occhi azzurri, limpidi e intelligenti, colpisce chi la guarda per il portamento naturalmente aristocratico da principessa vera, per l’espressione insieme dolce e risoluta del viso. 
I Protozanov hanno due eredi: Dimitrij e Lev. Dimitrij, annegando in un fiume, si toglie presto di mezzo; Lev se ne innamora e la sposa. Nascono tre figli: Anastasja — che presto verrà sottratta dall’imperatrice all’educazione famigliare per seguire quella impartita, a Pietroburgo, nel severo Istituto per le ragazze dell’alta nobiltà — e due maschi. La loro è una vita felice, tranquilla. Ma, come accade a molte persone che non riescono a sopportare il peso della felicità, Varvara è inquieta, ha il presentimento che una qualche sventura non si farà attendere. Lev Protozanov — ritratto da Leskov con l’irresistibile umorismo che percorre tutto questo libro incantevole, enormemente divertente e serio — è un prode militare perseguitato dalla sfortuna: lui, ogni volta, si lancia animoso e con coraggio in battaglia, e ogni volta è una disfatta. La morte lo raggiunge nella guerra contro Napoleone Bonaparte. È il 1812. Anche i genitori di Lev sono sotto terra. Varvara Nikanorovna diventa l’incontrastata regina della casa. 
Ha soltanto trentacinque anni; ma la risolutezza appena mitigata dall’espressione dolce che aveva da ragazza, le è maturata dentro facendola diventare una donna forte, autoritaria, con delle idee molto precise. 
Queste riguardano principalmente i nobili e la giustizia sociale, la religione e il clero. L’aristocrazia, e in particolare la nobiltà terriera che vive a contatto con il mondo dei contadini — pensa Varvara —, dall’epoca di Pietro il Grande in poi si è progressivamente imbastardita, grazie agli speculatori e ai procacciatori che possono accedervi non per i propri meriti bensì per il proprio servilismo, e ha perso i suoi valori antichi; l’attuale sistema feudale è decrepito, destinato al fallimento; la cecità nei confronti dei miseri, della gente che muore di fame, è degna del massimo disprezzo. L’aristocrazia, il bel mondo: e dove mai sarebbero! Chi può dirsi aristocratico se ruba il pane al suo prossimo! 
Quanto alla religione, il discorso è semplice. Il volterriani, dei quali adesso tanto si parla,e gli atei in generale, sono «persone che hanno smarrito il senso della vita»; i massoni sono antipatici perché fanno tutto di nascosto (e perché mai, se ci si comporta bene, si dovrebbero fare le cose di nascosto); i mistici, e tutti coloro che con le loro limitate capacità pretendono di sollevare il velo dei grandi misteri, sono insopportabili. 
La giusta fede è quella propugnata dalla Chiesa ortodossa (anche se tutte le religioni meritano rispetto): dunque, benissimo i digiuni, benissimo la messa, e benissimo controllare capillarmente che i contadini vadano alle funzioni e alla messa. Ma il clero, il clero! Il clero è «pigro, avido, negligente nel lavoro e ignorante delle Sacre Scritture». 
E poi: possibile che un pope si soffi il naso, e rumorosamente, quando è sull’altare, oppure si pulisca la barba con i panni del leggio? Possibile che i chierici urlino o si mangino le parole quando recitano il Salterio e soprattutto i sette Salmi penitenziali che lei conosce a memoria? Infine — prima di tutte le devozioni, le pratiche e le preghiere — che cos’altro conta per essere dei buoni cristiani, e in senso assoluto, se non occuparsi di chi ti sta accanto? 
Varvara Nikanorova, amministratrice di una proprietà ricca e parecchio estesa, papessa riconosciuta come tale dai suoi contadini, lo fa congrande generosità nei confronti di chiunque: delle persone che versano in difficoltà; dei visitatori che «pretende» vengano a trovarla e sempre congeda con dei doni: dei soldi, del cibo, un buon taglio di stoffa; degli ospiti fissi che ha accolto nella sua dimora e le dimostrano fedeltà e timoroso affetto: per esempio Patrikej, il maggiordomo attento e «diplomatico» col resto della servitù, sempre elegantissimo nella sua redingote di panno color blu di Prussia; per esempio Olga Fedotovna, la nutrice dei suoi figli, la dama di compagnia che della casa conosce ogni segreto, e per lei ha rinunciato a sposarsi; per esempio il cavaliere errante Rogozin, soprannominato Don Chisciotte.


Costui è un personaggio a dir poco bizzarro. Secco, allampanato, provvisto di un solo occhio verde smeraldo (l’altro lo ha perduto in uno dei suoi numerosi combattimenti), ha venduto o regalato i pochi beni che possedeva nel suo villaggio (nel quale ha lasciato una splendida moglie contadina) e, insieme allo scudiero di nome Zinka, su una carretta sgangherata trainata da cavalli decrepiti che a lui paiono quelli di Achille, se ne va in giro per il mondo a difendere i deboli, gli oppressi, chiunque ritiene abbia subito un torto. È pure un uomo molto colto: perché, quando non combatte, legge il leggibile e lo impara a memoria fino a raggiungere il delirio, o il buio del già appannato cervello. Il primo incontro fra lui e Varvara è travolgente. Diventano rispettosi, polemici, grandi amici. 

Siamo appena a metà del romanzo. Potrebbe non succedere più nulla. Invece succede di tutto. Nel Governatorato è arrivato il conte tedesco Funkendorf col preciso scopo di «sistemarsi», e naturalmente vuole conoscere la principessa. Lei, nonostante detesti i conti, lo invita a pranzo. Lui commette l’errore imperdonabile di arrivare con un quarto d’ora di ritardo, e di considerare con sufficienza, dall’alto in basso, niente meno che Rogozin-Don Chisciotte. Una situazione disastrosa. Che peggiora a Pietroburgo, dove Varvara Nikanorovna si è trasferita per incontrare la figlia che esce dal collegio e pensare al suo futuro. Perché di nuovo Funkendorf si fa vivo e, prima chiede lei in moglie: Varvara (Ma come osa? Lei ha amato una volta suo marito e lo amerà per sempre), poi sua figlia che invece, nonostante la differenza d’età accetta con entusiasmo. 


Mezzana di queste nozze è una lontana parente dei Protozanov, la contessa Antonida Petrovna Chotetov: una vecchia zitella ricchissima e avara, che spende i suoi quattrini per dissotterrare le reliquie che giacciono in modesti involucri nei monasteri, e seppellirle di nuovo in costose bare d’argento. Come può, Varvara, non odiare questa stupida bigotta. Ma anche Funkendorf è un impostore. A Pietroburgo, nei salotti, dominano gli arrivisti, i «nuovi nobili», i nullafacenti. Non è meglio tornare in campagna, e aspettare la morte in pace? Sì,certo. 

Così Varvara parte, abbandona un mondo nel quale non si riconosce più. E così il romanzo si conclude. Romanzo per il quale — al di là delle varie considerazioni sulla forza narrativa di Leskov — valgono le semplici parole che gli dedica Walter Benjamin in un suo lungo saggio: «Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve».

Nessun commento: