venerdì 18 marzo 2016

Per l'amazzonia e per la pecunia: a chi piacciono i testimonial glamour delle cause dell'Impero?


Angelina Jolie e le star testimonial degli ultimi
di Nadia Urbinati Repubblica 18.3.16


L’ALTO Commissariato dell’Onu per i rifugiati ha nominato sua inviata speciale Angelina Jolie, dando un riconoscimento autorevole al suo impegno a rappresentare cause umanitarie globali; un servizio volontario che l’attrice americana porta avanti da anni. Non votata né scelta dai rifugiati che rappresenta, l’attrice è stata incaricata da un’autorità di indubbia autorevolezza morale e simbolica a mettere la sua persona e la sua fama al servizio di milioni. Accettando l’incarico, l’attrice ha sottolineato di parlare a nome dei sessanta milioni di rifugiati che vanno ogni giorno nel mondo alla ricerca di un luogo sicuro dove vivere. Ha detto di parlare soprattutto per quelli che provengono dal Medio Oriente e dal Nord Africa, che scappano dalla guerra civile in Siria e che premono, spesso respinti con la forza, alle frontiere dei Paesi europei. Angelina Jolie si fa rappresentante senza alcun mandato elettorale e con la forza della sua celebrità, che ha il potere di avere e fare audience, si rivolge ai «governi di tutto il mondo» spronandoli a «dimostrare leadership» e ad «analizzare la situazione e capire esattamente quello che i loro Paesi possono fare, quanti rifugiati possono assistere».
La rappresentanza di problemi ( claim- making representation) è da alcuni anni un fenomeno sempre più ricorrente. Basato su un semplice concetto: l’informazione e Internet in particolare hanno il potere di unificare l’opinione dell’umanità al di là dei confini nazionali, e di fare pressione su chi deve prendere decisioni. Parlare per chi non ha voce scuotendo la sensibilità di milioni (fare audience) con lo scopo di risolvere o almeno di mantenere un problema grave sempre sotto i riflettori. Per impedire che chi non ha voce scompaia dai radar del pubblico.
Il primo caso dirompente di questa rappresentanza non elettorale, eppure molto politica, è stato quello di Bono. Nel corso della campagna 2004 “ Make Poverty History” il cantante degli U2 dichiarò: «rappresento molte persone che non hanno voce alcuna... non mi hanno chiesto di rappresentarle. È impudente da parte mia, ma spero che siano contente che lo faccia».
In tutte le società ci sono persone che non sono state elette né scelte da nessuno e che a volte rivendicano di essere “rappresentanti politici” di qualcuno che soffre per una condizione di ingiustizia ma non ha voce nelle istituzioni, spesso nemmeno tramite la rappresentanza elettorale tradizionale. Anche tra i cittadini di uno Stato il voto non riesce a dare garanzia che la voce di alcuni non sia ignorata, che i problemi di tutti siano considerati, che alcune questioni non siano iniquamente considerate inferiori ad altre, che magari hanno rappresentanti di interessi forti e agguerriti. I gruppi forti hanno anch’essi i loro rappresentanti non eletti che incidono sulle scelte dei Paesi, ma proprio per la loro forza non hanno bisogno di ricorrere all’espediente della risonanza (anzi, spesso, per essere incisivi non vogliono essere visti né ricevere l’attenzione del pubblico). Sono i perdenti della rappresentanza tradizionale che hanno bisogno di ricorrere a forme nuove di rappresentanza.
Il declino delle ideologie classiste, l’indebolimento dei confini nazionali nel sollevare questioni e determinare decisioni condizionate vieppiù dalle multinazionali, la cronica disaffezione dei cittadini dei Paesi democratici verso i partiti politici (veicolo classico di rappresentanza idologica e simbolica oltre che elettorale), infine la prepotente affermazione di problemi transnazionali e globali che nessuno Stato ha il potere di risolvere da solo: tutto questo fa della rappresentanza di persone che nessuno ha eletto un fenomeno sempre più importante.
Certo, c’è un deficit istituzionale e di legittimità democratica in queste forme di patrocinio volontario transnazionale. Come ha riconosciuto Bono, è un «impudenza» dichiararsi rappresentante di qualcuno senza che quel qualcuno nemmeno lo conosca e, forse, non condivida neppure le sue idee. E impudente ma è una scelta che può avere successo e che, soprattutto, può aprire un nuovo processo rappresentativo, capace di mobilitare le opinioni di milioni di persone, fino a costringere chi ha la funzione di decidere a non girare le spalle. Nonostante gli scettici, dunque, per alcuni problemi e per alcuni gruppi di persone la cui vita è toccata pesantemete da quei problemi, la rappresenza non elettorale, che fa centro sulla figura dello speaker di fama, può essere rilevante. In un mondo che su questioni sempre più importanti non conosce confini, avere forme di rappresentanza capaci di giungere all’opinione pubblica che sta oltre i confini nazionali è sempre più necessario. 

Boycott Rock 
Un tempo ci furono Selma, la battaglia anti Vietnam, Live Aid. Ora star come Bruce Spingsteen e Pearl Jam invece di organizzare concertoni di protesta annullano i loro tour Per denunciare ciò che non va in America C’era una volta il mito del musicista ribelle. Che oggi torna in una veste nuova: attivista contro leggi ingiuste
ANGELO AQUARO Restampa 24 04 2016
Corsi e ricorsi. Chi l’avrebbe mai detto che la nobilitate dei nostri rocker si sarebbe un bel giorno parrata nell’ennesima guerra di liberazione, e ci mancherebbe — ma nientemeno che delle toilette? Ah, i tempi gloriosi e maledettamente sanguinosi dei primi storici boicottaggi, il Montgomery Bus Boycott ispirato dal coraggio di Rosa Parks, e poi la marcia su Selma, Martin Luther King, Pete Seeger che canta We Shall Overcome.
Ah, i tempi magari meno gloriosi, ma così edificanti del “Live Aid”, poco più di trent’anni fa, 1985, il concertone visto in tv da quasi 2 miliardi di persone, 150 nazioni per sfamare l’Africa, tutti uniti da Michael Jackson a Stevie Wonder nel cantare a squarciagola We are the world. E come dimenticare il padre di tutti i concertoni, “The Concert for Bangladesh”, l’evento voluto nel lontanissimo 1971 da George Harrison — con il piccolo aiuto di Ringo Starr, Eric Clapton e un certo Bob Dylan. Ecco: quelli sì che erano i tempi in cui il rock alzava la testa e da protesta si trasformava in proposta. O no?
Non che la causa di oggi non sia nobilissima. Anzi. Da Bruce Springsteen all’immarcescibile Ringo, dai Pearl Jam a Ryan Adams per arrivare — mais oui — perfino al Cirque du Soleil, gli artisti più sensibili sembrano aver ritrovato l’engagement di un tempo dichiarando guerra alla legge del North Carolina che vieta a gay e transgender l’utilizzo del bagno che ritengono più appropriato. «Ci sono cose più importanti di un concerto rock», ha spiegato il Boss dei concerti rock ai suoi fan dopo la cancellazione del tour nello stato anti-gay. «E questa battaglia contro il pregiudizio e il bigottismo è una di quelle». Perfetto. Ma davvero l’onda di proteste segna il ritorno all’attivismo perduto?
«Chiariamo: non siamo tornati agli anni ‘60 delle battaglie sui diritti civili e la guerra in Vietnam. La musica oggi non è più parte integrante di un movimento di giustizia sociale», dice a Repubblica Stephen Petrus, autore di Folk City: New York and The American Folk Music Revival. «Sì, è vero che da Kendrick Lamar a Springsteen sono davvero tanti gli artisti che denunciano le politiche reazionarie di certi Stati. Ma dietro non c’è un movimento organico: stavolta, insomma, è differente». E infatti: che fine hanno fatto le protest songs? Sì, ci aveva provato il povero Prince a spiegare la rivolta delle città nere: troppi giovani uccisi dalla polizia, da Beyoncé in su tutti a urlare Black Lives Matter, le vite dei neri contano. Ma la Baltimore del compianto re pop funk non è certo diventata un hit. E poi: avrete mica sentito nessuno cantare, oggi, contro la legge che nega i gabinetti multisex? «Ogni canzone a soggetto suonerebbe didattica: l’ennesima predica moralistica. E chi si arrischia a scrivere un pezzo che dura solo lo spazio di una battaglia? Guardate invece Bono: in ogni show degli U2 spunta il richiamo alla povertà globale. E funziona». Lo show è il messaggio?
Eunjce Rojas e Lindsay Michie hanno raccolto di tutto nei 23 capitoli del monumentale Sounds of Resistance: “I canti di resistenza dagli schiavi al rap”, “La musica di protesta contro la guerra in Vietnam”, “La nuova retorica politica dell’hip hop nell’era Obama”. E che cosa hanno concluso? Che per quanto nobili gli obiettivi dei promotori (lasciamo qui tra parentesi lo spinosissimo caso del boicottaggio di Roger Waters e altri big a Israele) il “fenomeno” dei concertoni andrebbe ascritto a quella «commercializzazione della musica di protesta» che tanta parte ha avuto «nella più recente storia dell’attivismo Usa». E troppo spesso ha finito per «danneggiare la forza rivoluzionaria delle protest songs». Neppure il rock a fin di bene ha fatto poi così bene?
Epensare che proprio dai boicottaggi nacque la musica dei giovani. Non solo perché senza la serrata che alla fine della seconda guerra mondiale oppose le radio Usa ai mammasantissima dell’Ascap non avremmo mai avuto né Elvis Presley né Bob Dylan. Lo racconta benissimo Norman Kelley in R& B: Rhythm and Business. Fu proprio la richiesta di alzare le royalties a spingere le emittenti a boicottare la Siae d’America e favorire un’altra associazione di categoria: la Bmi. Che pescò in un bacino di autori fino ad allora rimasti fuori mercato: cioè musicisti e cantanti soprattutto neri. Il boicottaggio dei bianchi dell’Ascap portò così la musica black nelle case dell’America borghese: e quindi al matrimonio con il country che fece nascere il rock.
Ma al di là di quella prima battaglia sui diritti, quantunque d’autore, è innegabile che rock & contestazione furono intrecciati sin dagli inizi. Il rock fu da subito irrimediabilmente “contro” proprio perché in piena segregazione mischiò Bianchi e Neri. «Aspettiamoci disordini a ogni concerto», giurò al New York Times il vice ispettore di polizia Francis Gannon. Era il 15 aprile 1957 e il giorno prima un quindicenne aveva rischiato di morire travolto dal treno in una rissa tra ragazzi (e ragazze) bianchi e neri dopo uno show. «Le notizie degli incidenti spinsero molte amministrazioni a mettere al bando i concerti di rock’n’roll», scrive Glenn A. Altschuler in All Shook Up: How Rock’n’Roll Changed America. Dalla California al New Jersey, «le città di tutti gli States si unirono una dopo l’altra al treno dei divieti». Già. Era la buona società, ai tempi, a boicottare il rock: e non il contrario. Che cos’è che farà invertire l’orologio della storia? La risposta è più semplice di quel che sembra. Scrive sempre il professor Altschuler nel suo studio per la Oxford University: «Verso la fine degli Anni ‘50 la grande maggioranza dei baby boomers non aveva ancora raggiunto neppure l’età da teenager: il rock’n’roll e la gioventù d’America avevano insomma la storia (e la demografia) dalla loro parte». Ma sì, in fondo lo cantavano già i Rolling Stones: «Time is on my side». Il tempo, e il rock, erano dalla loro parte. Fu il rock’n’roll «a spingere ragazzi e ragazze a resistere all’autorità dei genitori». Fu il rock’n’roll a portarli «a essere sessualmente più avventurosi». Da Fragole e Sangue alla battaglia sulle leggi antigay, passando per il “Revolution Rock” dei Clash, il passo sarà pure stato lungo: ma inevitabile.
Certo: magari qui e là ci è scappato pure qualche incidente di percorso. Tirare troppo le corde della politica, si sa, rischia di spezzare quelle della chitarra. Lo stesso Bob Dylan, il ragazzo che all’alba degli Anni Sessanta cantava The Times are a- changin’ — i tempi stanno cambiando — negli Anni Duemila del suo tramonto getterà la maschera dell’impegno. «Ero stanco del modo in cui le parole delle mie canzoni erano state estrapolate», scriverà in Chronicles, «il loro significato sovvertito nelle polemiche: io stesso consacrato di volta in volta come il Grande Fratello della Rivolta, l’Alto Prelato della Protesta, lo Zar del Dissenso, il Duca della Disobbedienza, l’Arcivescovo dell’Anarchia…». Per carità: oggi siamo (fortunatamente) lontani da quegli eccessi. Ma la domanda di partenza vale ancora. Tremate tremate: le streghe del rock engagé sono tornate?
«Le proteste di oggi stimoleranno anche il dibattito sul momento: ma nel lungo periodo rischiano di essere addirittura controproducenti », insiste Petrus, l’esperto di folk e movimenti. «Prendete un grande come Stevie Wonder. La decisione di non dare più concerti in Florida dopo l’uccisione di Trayvon Martin, il ragazzino nero ammazzato dal vigilantes bianco, non ha cambiato di una virgola quella controversa legge sulla legittima difesa. E ci meravigliamo se oggi molti attivisti chiedono agli artisti di rinunciare ai boicottaggi?». Giusto. L’ha scritto perfino su Salon — che non è proprio un sito di destra — uno storico del movimento gay come Jim Downs: «Dobbiamo educare i ragazzi e combattere per i diritti omosex qui al Sud: il boicottaggio è solo punitivo e fa male alla gente che avrebbe invece bisogno del nostro aiuto».
Corsi e ricorsi: chi l’avrebbe mai detto che a boicottare i boicottatori sarebbero stati un bel giorno proprio i poveri boicottati?
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