venerdì 25 marzo 2016

Soft power midcult: Hopper e lo stile dell'Impero in mostra a Bologna

Quel classico così americano. A Bologna il genio di Hopper
Edward Hopper a Palazzo Fava: l'anteprima della mostraFra le opere in esposizione anche "Soir Bleu", simbolo della solitudine e dell'alienzione umana. Un'installazione permetterà ai visitatori di entrare nel quadro "Second Story Sunlight"
Bologna today

Quel classico così americano. A Bologna il genio di Hopper 
Dagli autoritratti alle influenze del cinema. Sessanta capolavori del grande figurativista del Novecento, provenienti dal Whitney Museum of American Art in mostra a Palazzo Favadi NICOLA PERILLI Repubblica

Hopper, così tranquillo da essere inquietante Ritratti, paesaggi, interni, solitudini, silenzi: i quadri del primo artista davvero americano sono classici e pop E influenzarono, tra gli altri, l'Hitchcock di «Psycho»Luigi Mascheroni Giornale 25 3 2016


UN SILENZIO FRAGOROSO COSÌ LO SMARRIMENTO DI HOPPER HA ANTICIPATO IL PRESENTE COME L’UOMO- ENIGMA DI MAGRITTE 2 apr 2016  Corriere della Sera di Francesca Bonazzoli fbonazzoli@corriere.it © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’appuntamento A Bologna una mostra sull’artista americano che ha raccontato le paure del mondo moderno: dagli squilibri economici alla precarietà, anche sentimentale. In un’alchimia perfetta tra normalità e mistero. Al pari del collega surrealista Sagome Da sinistra, Nighthawks (‘42) di Hopper e Le fils de l’homme (‘64) di Magritte
Il 15 maggio 1967 Edward Hopper moriva a Manhattan; tre mesi dopo, in Belgio, anche René Magritte concludeva la sua vita. In apparenza nulla accomuna il pittore realista al collega surrealista, eppure sia l’uno che l’altro sono i creatori di alcune delle immagini più popolari del Novecento, assurte a icone rappresentative della modernità.
Un denominatore comune deve dunque esserci e la pista porta a cercare in direzione di quell’ineffabile equilibrio raggiunto da entrambi fra assoluta normalità ed enigma. Un modo peculiare di descrivere la realtà e insieme nasconderla così che l’essenza della modernità potrebbe definirsi come un significato esistenziale che sfugge sempre, nonostante il disvelamento della realtà più piccola e invisibile ottenuto dai progressi della scienza.
Proprio in quel margine di mistero, la modernità ha nutrito un sentimento di ansia e di paura cresciuto assieme all’urbanizzazione, all’industrializzazione e al sistema capitalistico. Un’insicurezza per la propria esistenza sempre minacciata da nuovi fattori invisibili, fuori controllo, che in occasione delle cicliche crisi finanziarie si manifesta nell’individuazione di nemici esterni: comunismo, terrorismo, guerra fredda, nucleare, immigrati, profughi e perfino extraterrestri. É una condizione della modernità liquida, che appartiene all’America quanto all’Europa tanto che sia Nighthawks di Hopper (il bar notturno con gli avventori, solitari falchi della notte, appoggiati al bancone) che Le fils de l’Homme di Magritte (l’anonimo uomo con la bombetta e il viso occultato da una mela verde) la rappresentano in maniera universale. Ecco perché Hopper non si riteneva un pittore realista e ancor meno americano: «Non ho mai cercato di rappresentare la scena americana come hanno fatto Thomas Benton, John S. Curry e i pittori del Midwest. Io ho sempre voluto fare solo me stesso». L’America che sta dietro i quadri di Hopper è appena uscita dalla condizione rurale e isolazionista per lanciarsi in una forsennata crescita economica. Gli anni Novanta dell’Ottocento, quelli dell’adolescenza di Edward, sono uno spartiacque nella storia americana. I grattacieli salgono; i carri frigoriferi trasportano le derrate alimentari da una parte all’altra del Paese; i treni transcontinentali smistano ferro e carbone dalle miniere alle fabbriche; le metropolitane velocizzano i tempi produttivi dei lavoratori. La «Gilded Age» capitalista e colonialista criticata da Mark Twain genera un nuovo tipo umano: il «robber baron», il barone ladrone, ossia i super miliardari come Carnegie, Morgan, Rockefeller, creando i primi macro squilibri di una società che va verso una crescente alienazione. Quando Hopper nasce, la prima Depressione economica è passata da un decennio e la nuova Grande Depressione gli segnerà la vita.
Taciturno, introverso, ciclicamente depresso, «un cencio senza consapevolezza» (come lo definì la moglie, sadicamente vessata) praticamente recluso fra l’appartamento di Manhattan e la casa a Cape Cod, senza luce elettrica e acqua corrente, Hopper è solo apparentemente il cronista della classe media urbana americana, di uffici e appartamenti dove la vita sembra di passaggio, della mediocrità di certe tavole calde e sale cinematografiche dove trovava rifugio quando cadeva in depressione per l’incapacità di dipingere; delle pompe di benzina perse in anonime strade di campagna, di fari a guardia di una natura abbandonata, della solitudine delle stazioni ferroviarie, dei motel, di cottage di legno. La sua non è una cronaca della realtà, ma dello smarrimento esistenziale di una società subentrata alla comunità e al suo precedente senso identitario. In questa nuova aggregazione precaria si vive estranei l’uno all’altro, senza radici, in continuo movimento nel Paese, cambiando e abbandonando affetti, case e posti di lavoro. All’apparenza, tutto sembra più facile e felice.

All’apparenza, appunto. Perché Hopper, come Magritte, è un saboteur tranquille, uno che insinua dubbi sul reale attraverso la rappresentazione stessa del reale.




Un tuffo nella middle class (con un inizio impressionista) 

Viaggio in sei sezioni tra dipinti, acquerelli e disegni 
2 apr 2016 Corriere della Sera di Andrea Rinaldi © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Interni domestici o spazi aperti luminosi, pochissimi soggetti. Un po’ della Parigi di inizio ’900 sostituita dalla quiete quasi annoiata della quotidianità americana. E su tutto scende il silenzio. Edward Hopper, il pittore delle solitudini (come ammette lo stesso curatore Luca Beatrice), è arrivato anche a Bologna, a Palazzo Fava, in una grande mostra e vi rimarrà fino al 24 luglio.
Sei sezioni per scoprire attraverso dipinti, acquerelli e disegni un artista taciturno e lontano dalla ribalta artistica ripercorrendone la carriera, dall’apprendistato, giovanissimo, in Europa alle immagini classiche e più conosciute passando per gli anni 30, 40 e 50, quelli che potrebbero far tuffare il pubblico nella middle class Usa di «Revolutionary Road». Hopper infatti è il pittore che da outsider ha dato inizio alla pittura americana. «Contestualmente con lui inizia un capovolgimento dei valori propri del Nuovo Continente, che valorizzava l’uomo solo in misura del suo successo e delle sue capacità, ignorando il suo mondo interiore, i desideri più autentici e l’idea di felicità. Nelle sue tele, Hopper mette in discussione il sogno americano: ma nel rivelare la disillusione, indica la strada per una rinascita, per la conquista di un’esistenza più consapevole», è il pensiero che accomuna Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae, e Leone Sibani, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna. 
È grazie infatti a queste due istituzioni, assieme ad Arthemisia Group, Comune di Bologna e al Whitney Museum di New York, che l’allestimento è stato reso possibile. Nella prima sala, quella di Les pont des Arts, vediamo un Hopper giovanissimo allievo dell’Impressionismo, «che guarda in tre direzioni, quella della luce; quella della pittura en plein air, come dimostrano certi angoli da lui dipinti; e quella di Degas, a cui Hopper fa riferimento per le scene d’interno degli anni ’10», sottolinea Beatrice, che ha curato l’esposizione con Barbara Haskel del Whitney Museum, lo scrigno a cui la vedova del pittore donò nel 1968 tutti i suoi artefatti. 
L’artista di New York era un grande disegnatore, viaggiava e con la sua affezionata matita Conté abbozzava futuri capolavori. A Palazzo Fava se ne troveranno molti, assieme agli altri dipinti realizzati di ritorno dal soggiorno europeo, dove i bistrot e i quai vengono sostituiti da grattacieli e uffici. 
Ma sicuramente l’opera più affascinante, anche per la storia che reca con sé, è Soir Bleu: sette soggetti tra cui un clown e una donna dal trucco esagerato, fermati dal pennello a un bar. Insolitamente affollato per un quadro di Hopper: «È il più grande e particolare, del 1914 — spiega il curatore — in esso si vede tutto il gusto teatrale di cui si era imbevuto il pittore nel Vecchio Continente, ma riportò un clamoroso insuccesso e rimase arrotolato e nascosto fino alla morte dell’artista». Second Story Sunlight è invece quello più rivelatore: «Due donne assorte fuori da questa casa hitchcockiana, sono l’elaborazione della moglie Josephine, che Hopper usava come modella, per rappresentare le due età della vita, anche se mancherebbe la terza, quella dell’infanzia», osserva Beatrice. 
E Josephine (anche lei pittrice, ma mai troppo incoraggiata dal consorte) si prestò altre volte per ispirare i lavori del marito. Una sera di San Valentino Hopper si recò a vedere il Burlesque da solo. Al ritorno chiese a Josephine di posare per lui. «La donna, ultrasessantenne, fu trasfigurata in una ballerina più giovane per “Girlie show”, che a Bologna vedremo in uno studio con gessetto». «Un’altra donna, questa volta nera, con un vestito rosso e il cappello, si fa ammiccante in “South Carolina Morning”: il dettaglio della figura si sposa con la sintesi estrema adottata nel paesaggio: cielo, terra e due diagonali». Tradizionale senza essere tradizionalista, lo sguardo voyeuristico di Hopper e la sua trattazione di interni verranno imitati da letteratura e cinema per catturare gli stereotipi della società americana.

Lo sguardo cinematografico che sedusse anche Hitchcock 2 apr 2016 Corriere della Sera Rscorranese@corriere.it © RIPRODUZIONE RISERVATA
vede i quadri di Rembrandt e, quasi in contemporanea, quelli di Degas: eccola l’alchimia finale, quelle scene dipinte come un set, colori acidi, nero dominante, figure scorciate di spalle, di schiena, sedute e viste dall’alto. Ma senza una vera partecipazione emotiva: sono inquadrature, ambienti che parlano, come la stanza maledetta di Laura, capolavoro di Otto Preminger del 1944. Una donna vista da sopra, il volto bianchissimo tagliato dall’ombra; in teoria lei è morta, ma l’uomo che le sta davanti la ama visceralmente, necrofilia sublimata in grande cinema.
Così, Excursion Into Philosophy di Hopper, tela del 1959, è un piccolo film in pittura: un uomo seduto sul letto, alle sue spalle una ragazza sdraiata su di un fianco, che dorme ancora, l’aria elettrica dell’amplesso appena consumato (forse) che viene smorzata da un dettaglio, piccolo ma evidente, un libro aperto sul talamo («È di Platone», dirà poi il pittore). Si capisce allora perché Hopper abbia sempre rifiutato di definire enfaticamente «alienazione» o «silenzio» quelle qualità invisibili che legano i suoi quadri come un romanzo: non c’era psicologia d’accatto, c’era solo tecnica, cinema, tableau, senso di sospensione che nasce da un dettaglio illuminato. Pura lezione hitchcockiana: lo stesso Alfred Hitchcock prese House by the Railroad (1925) come modello per la casa di Psycho. E da dove viene l’idea di spiare la casa di fronte ne La finestra sul cortile se non da dipinti come Night Window? Antonioni, ne Il grido, cita la fila dei distributori di Gas.
La sua arte comincerà a raggiungere pienezza tra gli anni ‘20 e ‘30, quando, come ha osservato Orietta Rossi Pinelli, in un bel saggio di qualche anno fa, dall’Europa sciamò verso gli Usa un piccolo esercito di registi in fuga, da Fritz Lang (che abbandonava la Germania nazista) a Ernst Lubitsch. La direzione artistica di Major come la Paramount venne affidata ad architetti tedeschi, i quali, freschi di Bauhaus, rivoluzionarono le scenografie, le luci. Inventarono la «città nuda», quel set metropolitano che diventerà il cuore della grande tradizione «noir».
Hopper fece una scelta: l’inquadratura soggettiva, non lo stravolgimento (picassiano) delle forme. E, come Orson Welles, fuggì dai manifesti poetici. Quando, negli anni ‘50, gli chiesero se la solitudine fosse il cuore della sua opera, lui tacque, ci pensò e poi scosse la testa: «Non saprei».


Hopper prima di Hopper 
Il lato europeo dell’artista eterna icona d’America 

MICHELE SMARGIASSI Restampa 24 4 2016
BOLOGNA Confessò quasi con imbarazzo, scusandosi per essere forse «poco umano», che in fondo tutto ciò che aveva voluto dipingere nel corso della sua vita era «la luce del sole sulla parete di una casa». Ineffabile Edward Hopper, il pittore che ha attraversato il Novecento delle rivoluzioni, delle avanguardie, delle guerre, stando solo sul cuor della terra, trafitto da quel raggio di sole e da null’altro. Hopper, artista trasparente come l’aria frescazzurra del mattino che circonda i suoi fari sulla costa di Cape Cod. Hopper, il grande conosciuto, uno dei due o tre pittori americani di cui un italiano medio istruito ricorda il nome (gli altri sono Warhol e forse Pollock). Hopper, così riconoscibile che quando per caso ci esce dallo smartphone una foto con quella certa atmosfera esclamiamo subito, felici: «Oh, guarda, mi è venuto un Hopper!». Hopper, della cui mostra bolognese (Palazzo Fava, fino al 28 luglio) il grande pubblico di picture- goers va affollando le sale per cercare quello che già conosce.
E forse esce un po’ deluso, o frastornato, perché cerca un Hopper e ne trova un altro. Nella selezione di una sessantina di opere che Barbara Haskell e Luca Beatrice hanno attinto dal Whitney Museum di New York, grande scrigno hopperiano, mancano quasi del tutto i suoi angoli nottambuli del Village rischiarati da una piatta satura luce artificiale, così come i suoi interni di appartamenti modernisti abbagliati dalla proiezione geometrica della luce di una finestra, cioè mancano i suoi Rembrandt e i suoi Vermeer metropolitani, e i visitatori devono attendere le ultime due sale, con le case assolate dai portici aperti sulla costa atlantica, per rinfrancarsi e convincersi di non aver sbagliato mostra.
È un Hopper prima di Hopper, dunque, la sorpresa di questa mostra. Se Hopper fa par- te forse più del nostro immaginario europeo dell’America che di quello degli americani stessi, qui ci viene svelato il motivo: c’è tanta Europa dentro quell’America. Eppure il ragazzino diligente e studioso di Nyack, New York, in Europa ci fece tre brevi viaggi giovanili, poi non si mosse più dall’asse fra il suo studio di Manhattan e il cottage di famiglia a Truro, a Nord della città. Gli bastarono però per parlare, leggere e forse pensare in francese per tutta la vita. Ma l’Europa che portò a casa era quella che in Europa ormai non esisteva più. Dolcemente in ritardo sul suo tempo, Hopper sbarcò a Parigi nel 1906 mentre Picasso si accingeva a dipingere le stravolte Demoiselles d’Avignon, ma preferì abbeverarsi ai già “sorpassati” Degas e Manet. Anche delle ombre azzurrine e porpora degli impressionisti si ricorderà solo decenni più tardi. Le tele degli anni parigini sono cupe e brune, anche se è apprezzabile lo sforzo del catalogo della mostra di vivacizzarle un po’, per non deludere i compratori.
Lo sforzo di liberarsi di quelle tavolozze (c’è in mostra un paesaggio di colline, anni Trenta, che sembra gemello del Mont Sainte- Victoire di Cézanne) per trovare la sua luce non sarà mai accompagnato dal desiderio di uscire dal figurativo. Hopper è ancora vivo a metà degli anni Sessanta quando il ritorno del Pop alla figura lo troverà ancora lì, saldo da sessant’anni. Passatista? No, americano. E l’America è il paese che in quegli stessi anni accoglie (grazie a due grandi newyorkesi innamorati di Parigi, Edward Steichen e Alfred Stieglitz) una grande invenzione europea, la fotografia, la libera dalle fumisterie pittorialiste e ne fa un’arte americana della limpidezza, della nettezza, della luce. Così, mentre la pittura parte per un viaggio di mezzo secolo nell’informale, Hopper si direbbe scelga di seguire la fotografia in quell’altra ricerca. Gliene saranno grati i fotografi (quanto Hopper c’è nel nostro Ghirri?) ed anche i registi, per primo Wim Wenders i cui omaggi al maestro, nelle sue foto e nei suoi film americani, saranno spudorati.
C’è fotografia non solo nei tagli anomali delle sue inquadrature (questo, fin dagli anni di Parigi), o nella sovresposizione delle sue alte luci (da cui, facendosi quasi violenza, elimina via via il giallo, come il Rinascimento abolì i cieli d’oro), ma anche nella scelta di soggetti estranei alla pittura (le pompe di benzina amatissime dalla fotografia); o nella transustanziazione dai suoi bozzetti a carboncino grasso pastoso (anche questi, quasi sconosciuti, sono in mostra) alle luminose tele ad olio o agli acquerelli, quasi come un negativo in camera oscura si rovescia in positivo. E come la fotografia, l’arte di Hopper non può fare a meno della realtà. «Poco umano» potrebbe sembrarci fors’anche il suo più acclamato capolavoro,
Nighthawks (che qui a Bologna, rassegnatevi, non c’è), insomma il bar illuminato di notte, con i quattro personaggi muti spiati attraverso la lunga vetrina: lo sarà di più sapendo che cominciò a dipingerlo poco dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor. E allora ti chiedi se quella coppia taciturna al bancone, il loro silenzio, quell’atmosfera sospesa non siano la consapevole attesa di una catastrofe, se Hopper non fosse un pittore un po’ meno sereno di quel che ci appare quando ci proiettiamo (un giochino elettronico nell’ultima sala ci aiuta a farlo davvero) seduti nel portico assolato di quella casa dipinta, mentre guardiamo l’oceano e aspettiamo che il futuro si mostri.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: