mercoledì 13 aprile 2016

E' cominciata la stagione della caccia? Il fuoco a pallettoni sul Renzi continua

Anche il fronte anti-Renzi lasci i toni muscolari e discuta nel merito
di Paolo Pombeni Il Sole 14.4.16
La grande battaglia è cominciata. L’uscita teatrale di tutte le opposizioni dall’aula della Camera prima che Renzi pronunziasse il suo discorso chiedendo il voto definitivo sulla riforma costituzionale vuole essere un messaggio chiaro per quel che ci aspetta.
Non si tratta ovviamente di consenso o dissenso nei confronti di un testo di riforma pur impegnativo al massimo livello: si tratta dell’apertura di quella che vorrebbe essere l’ultima fase dello scontro per bloccare la trasformazione del panorama politico italiano. Solo così infatti si può spiegare la saldatura fra la destra e l’estrema sinistra, che sono unite solo dalla necessità di mettere fine alla dinamica di rinnovamento sostanziale degli equilibri interni alla classe politica.
Renzi ha capito da tempo che questo era l’obiettivo dei suoi avversari (anche interni al suo partito) ed ha fatto di tutto per renderlo esplicito, ciò per accentrare su di sé i riflettori e per presentare la contesa come un referendum sulla sua persona. Ora le opposizioni hanno accreditato questa impostazione e c’è da chiedersi se fosse davvero conveniente per loro farsi attirare su questo terreno.
La partita è confusa e viene giocata con molti trucchetti di bassa politica, di quelli buoni per muovere gli istinti irrazionali di un paese. Il primo, che non regge ad una analisi distaccata, ma che ha conquistato anche studiosi di rango, si basa sull’argomento che una riforma istituzionale non deve passare a colpi di maggioranza, ma deve coinvolgere le opposizioni. Se in astratto potrebbe anche essere auspicabile che così fosse, in concreto si debbono notare due cose. La prima è che la costituzione della Quinta Repubblica francese, tutt’ora vigente, è passata con una maggioranza a cui si contrapponeva una minoranza ostile ed è stata validata da un successivo referendum. Si può discutere se la Francia sia un ottimo modello, ma è difficile negare che sia una buona democrazia e che abbia conosciuto una storia di alternanze fra
le forze di governo.
La seconda notazione è che per ottenere un concorso fra maggioranza e opposizioni nel fare le riforme ci vuole una disponibilità delle seconde. Ora la nostra storia, dalla commissione Bozzi (1983-85!) in avanti, rivela che non si è mai riusciti a cavare un ragno dal buco in questo campo proprio perché non c’è mai stata una disponibilità delle forze politiche a convergere, ma sempre una convinzione che ciascuna possedesse dei poteri di veto in grado di bloccare tutto e dei comportamenti conseguenti a questa premessa. Quando Renzi rivendica di avere sbloccato la situazione non consentendo più questo giochetto ha le sue ragioni. Che poi questa ottusità delle opposizioni abbia alla fine favorito il passaggio di un testo non sempre equilibrato non può essere ascritto a colpa del governo che si è trovato incitato (e agevolato) a tirare dritto per una sua strada.
Un altro aspetto molto discutibile di come viene impostata la battaglia è mischiare la questione della riforma costituzionale con quella della nuova legge elettorale. Non si nega che i due aspetti abbiano connessioni, ma quella elettorale è una legge ordinaria, cioè facilmente modificabile se ci saranno maggioranze diverse alla Camera, e la nuova formulazione degli articoli della seconda parte della nostra Carta non sono scritti in maniera tale da impedire il loro funzionamento con un sistema elettorale diverso.
Naturalmente sono tutti ragionamenti che si potrebbero sviluppare se ci fosse un qualche interesse a fare del confronto sul referendum costituzionale un vero dibattito politico. Tanto per fare l’esempio minore, chi si oppone a questa riforma dovrebbe spiegare in che modo intende riformare poi la nostra Carta, visto che molte sue debolezze sono denunciate davvero da un larghissimo schieramento. Non siamo però tanto ingenui da non sapere che nel momento in cui davvero si entrasse in questo campo il fronte delle opposizioni si sfalderebbe, perché non c’è fra loro altra unità che l’anti-renzismo, così come in passato l’anti-berlusconismo è stato l’unico collante di coalizioni eterogenee che non è che abbiano lasciato un ottimo ricordo di sé.
Il problema politico a cui non dovrebbe sfuggire chi propone la grande battaglia è dire come poi, una volta che si fosse riusciti a mandare a gambe all’aria il ridisegno attuale degli equilibri politici, si governerà questo paese che manterrà magari la mitica “costituzione più bella del mondo”, ma dovrà gestire una situazione interna e internazionale non esattamente idilliaca (dalla questione del Brennero al caso Regeni anche chi è osservatore distratto della vita politica potrebbe essere indotto a capire quali rischi corriamo).
In secondo luogo varrebbe la pena di chiedersi cosa succederà anche nel caso di una vittoria di Renzi ottenuta di fronte ad uno schieramento così imponente e variegato di oppositori. L’esaltazione di un leader drogandolo con gli effetti di un successo che sbaraglia gli avversari è sempre un evento rischioso. La trasformazione del sistema politico italiano dopo la lunga transizione della seconda repubblica ha bisogno di un andamento migliore di quello del meccanismo dell’ “asso pigliatutto”, soprattutto perché poi accanto all’asso ci stanno figure non sempre all’altezza
di un successo.
La lotta all’ultimo sangue fra fronti contrapposti non fa mai bene ad una democrazia. Renzi in qualche ultima occasione sembra averlo capito e di fatto ha talora optato per un approccio meno arrembante. Ma non si può pretendere troppo dalla natura umana.

Il leader riparte ma cerca di svelenire lo scontro
di Massimo Franco Corriere 14.4.16
Matteo Renzi rivendica la riforma del Senato approvata martedì come «un gigantesco passo avanti»: tanto più importante perché, a suo avviso, pochi ci credevano. Le opposizioni, invece, hanno una gran fretta di archiviare e far dimenticare il successo del governo. E non tanto perché si tratta di una riforma votata in una Camera abbandonata dalle minoranze. L’obiettivo è di spostare di nuovo i riflettori sulla seduta del 17 aprile a Palazzo Madama dove sarà presentata una mozione di sfiducia; e sul referendum sulle trivellazioni di domenica.
Matteo Renzi e i suoi ministri sono decisi a farlo fallire puntando sull’astensione: un obiettivo probabile, nonostante le polemiche. Ma per il presidente del Consiglio gli esami sono destinati a diventare più difficili. C’è l’inchiesta giudiziaria a Potenza che ha portato alle dimissioni del ministro Federica Guidi. E ancora le Amministrative di giugno, con la commissione Antimafia di Rosy Bindi che vorrebbe dare un’occhiata alle liste dovunque. Non bastasse, la minoranza del Pd insiste nel voler cambiare il sistema dell’Italicum, nel timore di essere tagliata fuori dalle liste elettorali; ma «io no», le replica Renzi. E, a ottobre, ci sarà lo spartiacque della legislatura: il referendum sulle riforme appena approvate. In realtà, sarà uno snodo cruciale anche per Palazzo Chigi. E al suo esito contribuiranno le condizioni politiche nelle quali il premier e il governo ci arriveranno. All’inizio, Renzi lo ha impostato come una sorta di plebiscito su se stesso e su quanto ha fatto in due anni e mezzo. E adesso i suoi nemici glielo rinfacciano, e per primi tendono a politicizzarlo nella speranza tuttora remota di dare una spallata all’esecutivo.
«Il referendum non deve essere un plebiscito», ma «lo vinciamo noi», rilancia il premier. «La lotta politica non può arrivare a prendere in ostaggio il Paese». Eppure sa che «il rischio c’è. La riforma costituzionale deve essere votata sul Senato, sulle Regioni, e non su di me. Poi io, è chiaro che se non ce la facciamo devo trarne le conseguenze e andare a casa». Il suo appare un tentativo di non radicalizzare oltre misura lo scontro. È difficile, però, che le opposizioni glielo consentano. La raccolta di firme che stanno organizzando sul referendum d’autunno dice questo. «C’è un accordo tra tutti i gruppi parlamentari d’opposizione», annuncia trionfante quello di FI alla Camera, Renato Brunetta.
Ma il rumore di fondo che preoccupa di più è quello dei dati economici e della magistratura. La crisi rimane quasi intatta. E tra Palazzo Chigi e Pd, il numero di quanti temono un’offensiva giudiziaria contro il governo sta crescendo col nervosismo. Renzi si limita a ripetere di lavorare perché la giustizia lavori meglio. La possibilità di essere male interpretato va messa nel conto, tuttavia. Anche perché un M5S timoroso di perdere posizioni dopo la morte dell’«ideologo» Casaleggio sparge veleni quando il Pd è lambito dalle inchieste.

Cambiare è doveroso ma non così 

Ugo De Siervo Busiarda 13 4 2016
Vari commentatori hanno messo in rilievo il clima inadeguato delle ultime riunioni della Camera che hanno portato all’approvazione definitiva dell’importante delibera parlamentare che modifica tanta parte della nostra Costituzione: ci si è arrivati attraverso contrasti frontali e addirittura con l’uscita dall’aula parlamentare di una parte rilevante dei deputati, senza alcuna modificazione dei testi precedenti. 
E addirittura senza alcun dialogo fra le diverse opinioni emerse in Parlamento e che sono ormai dibattute anche fuori dai circuiti politici. Tutto viene minacciosamente rinviato all’esito del referendum del prossimo autunno, con la pericolosa prospettiva di farne solo un momento di giudizio sulla forza dei diversi schieramenti politici.
Ma, invece, si tratta di un vasto tentativo di modificazione della nostra Costituzione, che va valutato per il suo effettivo contenuto e per la qualità delle nuove disposizioni che si propongono.
Come più volte ho tentato di spiegare, di per sé le revisioni costituzionali che si stanno tentando non solo sono lecite, ma vari degli istituti che si vogliono modificare sono stati individuati da molto tempo come tali da necessitare adeguamenti e revisioni: basti pensare al nostro attuale inutile bicameralismo o alla necessità di riportare un po’ di chiarezza e di efficienza nel rapporto fra Stato e Regioni. Ma ovviamente non basta qualsiasi tipo di modificazione per essere soddisfatti, perché le revisioni costituzionali possono anche, se gravemente sbagliate, confuse o disorganiche, addirittura peggiorare il funzionamento delle istituzioni: dovrebbe essere istruttiva l’esperienza fatta con la grande riforma costituzionale del 2001 relativa ai rapporti fra Stato e Regioni, che –malgrado tante buone intenzioni- viene ora individuata (forse anche con qualche esagerazione) come causa non secondaria della crisi attuale della nostra amministrazione pubblica.
Ma allora occorre assolutamente evitare di fare in modo simile e forse anche peggiore, dal momento che ora il legislatore vorrebbe rivedere la Costituzione in molteplici settori (una quarantina di articoli verrebbero modificati in tutto o in parte).
E, invece, purtroppo il testo emerso da progettazioni alquanto improvvisate e da compromessi e mediazioni mediocri in Parlamento, lascia sinceramente assai delusi: un nuovo Senato dalla composizione e natura assai incerte, dotato di modesti e disorganici poteri legislativi e di controllo; un organo soprattutto che sembrerebbe dover portare in Parlamento il punto di vista degli amministratori regionali ma che in realtà è privato di ogni significativo potere nella definizione dei confini intercorrenti fra responsabilità statali e regionali.
Tutto ciò all’interno di una riforma che riduce drasticamente i poteri delle Regioni ordinarie aumentando moltissimo in parallelo i poteri della Camera dei deputati, del governo e della sempre più forte burocrazia statale. Ma tutto ciò, per di più, senza quella chiarezza di confini e limiti fra Stato e Regioni che sola potrebbe ridurre davvero l’attuale assurda conflittualità. E tutto ciò mentre, invece, escono pienamente confermati, se non accresciuti, i poteri legislativi e finanziari delle cinque Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Trentino – Alto Adige, Valle d’Aosta) e delle due Province autonome di Trento e di Bolzano.
Il riferimento anche alla dimensione finanziaria dell’autonomia di questi ultimi enti territoriali potrebbe anche ridimensionare la diffusa affermazione che con questa riforma si riduce la spesa in conseguenza della riduzione del numero dei senatori, quasi che la spesa pubblica dipenda essenzialmente dal numero dei parlamentari.
Forse, in previsione del referendum costituzionale, occorrerà sforzarsi tutti quanti a considerare davvero il contenuto effettivo delle disposizioni adottate dal Parlamento, rifuggendo da troppo facili semplificazioni o demagogie.
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La scommessa a rischio di un uomo soloEmanuele Felice Busiarda
Ma perché Renzi è in difficoltà? Stile e direzione di marcia non sono cambiati, in un orizzonte economico un po’ meno cupo. Il premier però non è riuscito a costruire una classe dirigente. Soprattutto, non vi è riuscito nel suo partito, che fatica a seguirlo. E così Renzi continua a realizzare il programma promesso – riforme strutturali per rendere l’Italia più competitiva – mettendoci la faccia, come ama dire. Ma sempre più appare un uomo solo, circondato da fedelissimi non senza macchia. Se tale rimarrà, finirà inevitabilmente per perdere la sua scommessa, e la stagione renziana si risolverà in un nulla di fatto. In un’altra occasione mancata.
Di quel che sta accadendo il referendum sulle trivelle è forse l’esempio più eloquente, benché meno importante. Le difficoltà per Renzi sono state create, in larga parte, dai governatori del suo stesso partito. Ma le grandi linee di politica energetica sono già state decise, vincoli ambientali compresi, e vanno nella direzione auspicata dai promotori del referendum. Quel che rimane è un punto di dettaglio, che peraltro comporta (piccoli) rischi ambientali in entrambi i casi: sia che alcune trivelle continuino a operare, sia che vengano smantellate a breve. Eppure su questo il Pd è riuscito nel capolavoro di dividersi in ben tre posizioni: astensione (renziani), no (Bersani, Letta), sì (altri esponenti della minoranza e amministratori locali, specie al Sud). E per un motivo o un altro, nessuna delle tre opzioni fa buona impressione: l’astensione per il suo opportunismo (peraltro in un referendum scorporato dalle amministrative, con grande sperpero di denaro pubblico), il no perché velleitario, il sì per la mistificazione degli argomenti. Un simile naufragio era difficile immaginarselo, per un grande partito riformista che guida il governo e le Regioni. Ancor più paradossale perché sul tema proprio quel partito le scelte fondamentali le ha già compiute: qui si naufraga in un bicchier d’acqua, anzi, in una goccia d’olio.
Che però il problema sia ben più ampio, e più serio, lo confermano altre vicende. Di Bagnoli si parla poco, ed è già dire: ma quella è la più grande iniziativa messa in campo per il rilancio del Sud, da vent’anni a questa parte. Opera pienamente renziana, nello spirito, va in una direzione più volte auspicata: procedure veloci ed efficienti, sì da non impantanarsi nelle pastoie locali; ambizione e visione strategica; al tempo stesso rispetto del contesto così come dei vincoli esistenti (in concreto prevede meno cemento e più turismo e innovazione). Tutto bene quindi? Macché. Renzi va a Napoli a proporre il suo grande piano e si trova alle prese con le manifestazioni di piazza – e con i media nazionali che parlano quasi solo delle proteste. Perché a Napoli c’è la campagna elettorale, certo. E perché in quella campagna elettorale il Pd è già sconfitto, paralizzato dalle liti interne.
E poi c’è il tema più importante, la riforma costituzionale. Sul referendum confermativo, in autunno Renzi ha deciso di giocarsi la premiership. Ma quel referendum può perderlo, se il suo partito non lo sosterrà in maniera convinta e compatta. Si mobiliterà il Pd a favore del suo segretario? O invece sarà quella, per una parte, addirittura l’occasione di farlo fuori? E perché il conflitto interno è arrivato a questo punto? Come altri outsider prima di lui, Renzi non riuscirà a cambiare il Paese, se non ha ben chiaro che tale è impresa – per l’enormità delle sfide in campo – di un’intera nuova classe dirigente, lungimirante e preparata: occorre sapersi scegliere i compagni di strada, sulla base del merito e della condivisione di un progetto generale; non di interessi particolari.
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