venerdì 15 aprile 2016

Il cinismo volgare dei difensori dell'esistente: il "romanzo" mistificante di un funzionario del capitale

Colosseo vendesiMarcello Sorgi: Colosseo vendesi, Bompiani

Risvolto
Primavera 2017. Vendere il Colosseo per ridurre il debito pubblico: per quanto incredibile, l’ipotesi avanzata da un economista dal nome rivelatore, Ermanno Buio, sulla prima pagina di un quotidiano romano in crisi prende corpo nella Capitale grazie alla combinazione di una serie di fattori imprevedibili. Il Governo dei Ragazzi è caduto dopo che il suo Capo ha perso le elezioni; al suo posto è arrivato un Successore privo di scrupoli, pronto a tutto pur di salvare l’Italia dal default. “Il Vento”, diretto da uno stravagante cronista di nera, Dino Bricco, si trova così al centro di una vicenda internazionale in cui i mercati, il “Financial Times” e il “Wall Street Journal”, premono perché l’Italia risani al più presto il suo bilancio. E spunta a sorpresa uno sceicco arabo, Ibn Al Taib, che vuole togliersi il capriccio di comperare il monumento più conosciuto al mondo, smontarlo e portarselo a casa. Nei palazzi romani della politica si moltiplicano le opposizioni a un piano che rasenta la follia, ma il Successore è inarrestabile. Tutti i protagonisti ignorano un’angosciosa profezia che grava sul Colosseo e su Roma. Sarà questo dettaglio niente affatto trascurabile a provocare in conclusione un inatteso capovolgimento. 


Roma 2017, dove tutto è possibile
Il Partito del No è al potere, i conti dello Stato sono disastrosi: non resta che vendere il Colosseo...
Corriere della Sera

14 Apr 2016 Di Aldo Cazzullo
C’ è qualcosa di Sciascia e qualcosa di Salvini, in questo apologo politico che Marcello Sorgi pubblica oggi da Bompiani: Colosseo vendesi. Una storia incredibile ma non troppo. Da Sciascia l’autore prende il tono immediato e insieme surreale: una vicenda piena di nomi, personaggi, dettagli, con un’ambientazione precisa — Roma, primavera 2017 —, e nello stesso tempo con quella distanza rarefatta dal presente che sembra tenerla sospesa, incombente, improbabile ma possibile. Salvini nel libro non c’è, o almeno non è mai nominato; ma è come se ci fosse. Perché il nuovo capo del governo, il Successore, gli somiglia molto. E la vicenda non sarebbe mai accaduta senza di lui.
Anche Matteo Renzi — indicato come Capo del Governo dei Ragazzi — non c’è: è caduto. Ha vinto il referendum sulla riforma costituzionale dell’ottobre 2016, ha chiamato nuove elezioni, ma a sorpresa le ha perse. Ha fatto il pieno al primo turno, senza arrivare al 40 per cento, ed è stato sconfitto al ballottaggio dal leader del Partito del No, nato dall’alleanza tra la Lega Nord e la destra sudista, che ha candidato un’infornata di giovani, spesso nipoti di antichi signori delle preferenze. Il programma dei vincitori si sintetizza appunto in un molteplice No: «No al governo, No alle tasse, No all’Europa e all’Euro, No, ovviamente, agli immigrati, No ai tre gradi di giudizio nei processi, No alle carceri aperte». Decisivo è stato il duello tv alla vigilia del secondo turno, con il Capo del Governo dei Ragazzi che per un’ora ha magnificato i propri successi, e lo sfidante che dopo aver incassato ha capovolto il verdetto con uno show finale: «Siete un gruppo di fighetti, dovreste vergognarvi, tu e le tue ministre che vanno ogni giorno dal parrucchiere. Che ne sapete voi di come vive davvero la gente?». E ancora: «Tu e il tuo governo in questi due anni non avete affrontato uno, dicasi uno, dei problemi italiani, sempre in giro a far viaggi, la sera ai ricevimenti, un ospite straniero di qua, uno di là, ogni scusa è buona per organizzare un banchetto a spese della comunità. C’era più rispetto per il denaro pubblico ai tempi dell’antica Roma».
Quel riferimento all’antica Roma ha avuto molto successo. È stato considerato cruciale per l’esito del dibattito e del ballottaggio. Forse è da lì che ha preso spunto il professor Ermanno Buio per la sua pazza idea, concepita portando a spasso il cane nella via dove un ministro «sosteneva di aver comperato una casa con vista Colosseo “a sua insaputa”, per quattro soldi, ignorando che qualcun altro aveva versato la maggior parte del prezzo».
Buio è uno di quegli «studiosi che tutte le sere si affacciavano in tv e a cui si era affidato un Paese sprofondato in una crisi senza rimedio»: un allievo di Ludovico Noè — eteronimo di Federico Caffè —, «un economista-star conosciuto in tutto il mondo per il suo pessimismo razionale, misteriosamente sparito a metà degli anni Ottanta in qualcosa che poteva essere un sequestro, un attentato o semplicemente il desiderio di ritirarsi dal mondo». È Buio a scrivere un articolo su un giornale romano, «Il vento», rilanciando una vecchia proposta di Giancarlo Pagliarini, leghista, ministro del Bilancio nel secondo governo Berlusconi: «Piuttosto che introdurre pedaggi sulle strade statali per pagare i servizi pubblici, meglio vendere il Colosseo». All’apparenza una boutade. Ma il direttore, vecchio cronista romanesco con un certo fiuto, pubblica l’articolo come editoriale di prima pagina, con un con titolo secco: «Colosseo vendesi».
La prima reazione, negativa, è del ministro della Cultura, Ino, «l’unico sopravvissuto della stagione del Governo dei Ragazzi», che «aveva nel nome un diminutivo che introduceva un discreto contenimento delle sue ambizioni» (l’evocazione di Franceschini non è così remota). Ma poi la proposta comincia a suscitare interesse. La cita Giulio Africa, «nome d’arte dell’abbronzato conduttore di Speciale Mattino, il principale contenitore delle morning news, in onda sulla tv pubblica». Rimbalza sui siti del «Guardian» e del «Financial Times»: «Selling Colosseum. A strange proposal of an Italian professor». Segno che qualcosa sta succedendo nella comunità finanziaria internazionale. Il caso vuole che sia in visita a Roma, nel suo solito hotel vicino a Trinità dei Monti, lo sceicco Ibn Al Taib, che sarebbe interessato…
Qui la vicenda comincia a prendere una piega all’apparenza surreale, ma basata su elementi di verità. Al premier leghista di Roma non importa nulla, anzi più viene penalizzata e meglio è. Le istituzioni internazionali non lo stimano, ma il momento è difficile, l’euro si è rafforzato sul dollaro frenando la ripresa, l’Italia ha talmente bisogno di soldi per tamponare il debito che deve rassegnarsi a vendere i propri gioielli, a cominciare dal più celebre; non a caso appena la notizia viene diffusa i titoli del debito pubblico vengono sospesi per eccesso di rialzo. Solo il presidente della Repubblica tenta di opporsi, ma l’opinione pubblica è talmente rassegnata che, pur di non pagare altre tasse, è disposta a dare il via libera alla clamorosa cessione del Colosseo: lo conferma la valanga di «like» e di condivisioni del pezzo di Buio; tanto, si pensa, il Colosseo mica si può portare via. Ma lo sceicco non è un mecenate: ha pagato, l’arena è sua, e ne fa quello che vuole. Fatto sta che un mattino il Colosseo…
La fine dei romanzi, o degli apologhi, non si racconta. Basti dire che nel crescendo con cui la proposta bizzarra di un economista poco serio diventa un affare internazionale ci sono tutti gli ingredienti dell’Italia di oggi: le spregiudicatezze della politica colte da uno scienziato del potere come Sorgi, le esilaranti conversazioni non tanto in romanesco quanto nell’italiano romanizzato in cui si esprimono un po’ tutti nella capitale (che l’autore ha ricostruito con la consulenza di Filippo Ceccarelli), l’influenza a volte nefasta del web, l’accidia di un Paese non all’altezza di se stesso, e l’atmosfera mediterranea di una città in cui sembra non accadere mai nulla ma in realtà tutto, o quasi tutto, è possibile.


E per sanare il debito pubblico alla fine si vendettero il Colosseo 
Anteprima dal romanzo fantapolitico di Marcello Sorgi. Nella primavera del 2017 un economista lancia la proposta, il nuovo premier la accoglie. E si fa avanti uno sceicco 

Marcello Sorgi Busiarda 14 4 2016
La vendita del Colosseo maturò in pochi giorni: incredibile, dopo quasi duemila anni di storia. Ermanno Buio, l’uomo che inconsapevolmente – ma non del tutto involontariamente – l’aveva ideata e provocata, era un economista. Apparteneva, cioè, a quella categoria di studiosi che tutte le sere si affacciavano in TV e a cui si era afidato un paese sprofondato in una crisi senza rimedio, malgrado le ricette e le terapie suggerite non sortissero gli effetti promessi e il Grande Infermo continuasse a peggiorare a ritmo costante. 
In realtà, Buio non era affatto famoso, come tanti colleghi più giovani o compagni di corso. La sua intuizione, più che dagli studi e dai continui aggiornamenti, l’aveva tratta dalla quotidiana e diuturna osservazione dell’Anfiteatro Flavio, quando si sporgeva dalle finestre di casa sua e durante la passeggiata, che era solito fare con il cane Pugnale, un setter reso nevrotico dalla mancanza della caccia, che Ermanno, pigramente, non praticava. In quell’insolita primavera del 2017 – cielo grigio, scrosci d’acqua e temperature basse –, Ermanno Buio non poteva ricordare, o forse non l’aveva mai saputo, che la stessa proposta, avanzata da lui con solide basi scientifiche, era stata la provocazione tredici anni prima, nel 2004, di un ex ministro del Bilancio del secondo governo Berlusconi, Giancarlo Pagliarini della Lega Nord. 
«Piuttosto che introdurre pedaggi sulle strade statali per pagare i servizi pubblici», aveva dichiarato in un’intervista alla Padania, «meglio vendere il Colosseo». Pagliarini era stato sommerso di insulti da tutti i partiti, tranne il suo. Ed era stato pure preso per pazzo. [...]
La vendita vera e propria fu conclusa in un’ora. Ibn Al Taib si era presentato con un’offerta di quelle che non si potevano rifiutare, mille miliardi di euro tondi tondi; e non si era discostato di lì per nessuna ragione. Il Successore, non avvezzo a trattative commerciali, aveva provato a rilanciare duemila, poi millecinquecento, infine aveva proposto di affidare la questione a una banca di affari, ma lo sceicco era stato irremovibile. 
«Quando si parla di un oggetto come il Colosseo, ogni valutazione è possibile, anche la sua migliore», aveva replicato, con voce pacata e il suo inconfondibile sorriso di cortesia.
«Ma qui, le ricordo, parliamo di metà del monumento, dato che l’altra metà nel tempo si è perduta. E nel giro di qualche decennio Roma, del Colosseo, potrebbe ritrovarsi ad avere soltanto qualche pietra e le immagini ricordo delle cartoline». 
Un’affermazione così categorica avrebbe potuto risultare offensiva per qualsiasi capo di governo. Chi era quello sceicco per prendersi gioco dello stato di mantenimento del patrimonio artistico e di quel che aveva sopportato l’Italia in guerra e nel dopoguerra? Ma il Successore era un protagonista dell’oggi, col passato non aveva legami né si sentiva coinvolto nelle responsabilità di chi lo aveva preceduto. Per lui continuava a valere la regola del prima e del dopo che così chiaramente aveva enunciato in Parlamento. Il suo essenziale pragmatismo lo faceva galoppare lontano, senza le redini del pregiudizio e i vincoli con la storia. Perciò alla spigolosa provocazione di Ibn Al Taib rispose con una stretta di mano.
Era stato l’istinto di sopravvivenza di Müller a metterli in contatto. Muovendosi di sua iniziativa, aveva approfittato della conoscenza con il Successore avvenuta quando il giovane parlamentare era arrivato nella Capitale, in cerca di un alloggio provvisorio per i due giorni alla settimana che riteneva di dover trascorrere lì. [...] La camera numero 1, dove alloggiava, era di quelle di servizio, piccola e decorosa, fin troppo per il ruspante ragazzo del Nord. Al terzo giorno il giovane deputato aveva deciso di andarsene, preoccupato dei fotografi che sostavano in permanenza nella piazza, anche per la vicinanza con la villa dell’anziana principessa Fiorillo, che dava spesso sontuosi ricevimenti e a cui le pagine mondane dei giornali locali avevano affibbiato il soprannome di «Regina dei salotti». Approfittando dell’occasione di prendere in affitto un appartamento semivuoto al Nuovo Salario, quartiere infestato dalle zanzare non distante dalla «marana», la zona acquitrinosa descritta da Elsa Morante in La storia, si era congedato dallo svizzero ed era andato ad abitare in periferia con un suo collega. Come neodeputato di un partito di opposizione, l’ultima cosa che doveva capitargli era di essere scoperto a vivere in un hotel extralusso. 
L’amicizia con Müller però era rimasta. Insieme andavano a cena in una sordida bettola del Testaccio, dove l’azzimato albergatore diventava un uomo curioso dell’autentica cucina romana, non rivisitata come quella del Trinità, e gustava i rigatoni alla pajata e il vino dei Castelli. La consuetudine si era diradata, ma non del tutto, da quando il Successore era stato chiamato, come si suol dire, «a più alto incarico». Per questo, tornando dal Quirinale quel mercoledì, il premier non si era stupito di trovare nella lista delle chiamate quella di Müller. 
«Ho la persona giusta per te, uno sceicco», gli aveva poi scritto in un sms che trasudava entusiasmo. Alla telefonata del premier seguì rapidamente l’incontro con Ibn Al Taib. Di rado Müller era stato tanto allegro. 
Definito il prezzo che, versato nelle casse dello stato, avrebbe contribuito a un taglio del debito pubblico di dimensioni mai viste nella storia della Repubblica, la trattativa si era incagliata di fronte al desiderio dello sceicco di smontare il Colosseo e trasferirlo a casa sua, dove, sottolineava, lo avrebbe ricostruito tale e quale, garantendone la fruibilità per i visitatori, gratuita in alcune ore del giorno. 
Il Successore rimase spiazzato. Riteneva che l’acquirente si sarebbe accontentato di comperarlo, mettendo all’ingresso una targa che lo avrebbe reso famoso nel mondo come il più straordinario mecenate di tutti i tempi. 
«Ma lei ha proprio intenzione di portarselo via? È sicuro? Non le basta essere l’unico padrone?» provò a farlo ragionare il Successore.
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Se lo sceicco compra il Colosseo
Di Consoli DOmenicale 19 6 2016
Colosseo vendesi. Una storia incredibile ma non troppo di Marcello Sorgi è un libro “ibrido”, tra pamphlet romanzesco, fiction giornalistica e apologo profetico. Un economista, Ermanno Buio, scrive sulla prima pagina del quotidiano «Il Vento» – che un po’ sembra alludere a «Il Tempo» di Roma, soprattutto per certi riferimenti al suo principale concorrente – un editoriale provocatorio, nel quale sostiene che, per risanare il debito pubblico dell’Italia (ormai ampiamente al di sopra dei duemila miliardi di euro), non rimane altro che vendere il Colosseo. 
A leggere l’articolo, il ministro della Cultura, sarcasticamente soprannominato Ino, protesta al telefono con il direttore del giornale Dino Bricco e, successivamente, si vendica con l’editore, che ha interessi nel campo dell’edilizia. 
La proposta di Buio sembra uno scherzo di cattivo gusto, ma giorno dopo giorno, inaspettatamente, fa il giro del mondo, tanto da essere rilanciata dai principali quotidiani finanziari internazionali, molto interessati alla stabilità dei conti pubblici del nostro Paese. Nel frattempo, in Italia, il quadro politico è cambiato (siamo nel 2017) e, al Governo dei Ragazzini (Governo Renzi, evidentemente) si è sostituito il Governo del Successore (un esplicito Governo Salvini), che prende molto sul serio l’ondata mediatica favorevole alla vendita del Colosseo. 
Si fa avanti uno sceicco, che offre mille miliardi di euro. Ad accordo concluso, le Borse vanno in fibrillazione, e alcune grandi banche d’investimento studiano immediatamente nuovi piani vendita di altri beni culturali, come per esempio la torre di Pisa. 
Lo sceicco pone una sola condizione: di poter smontare e rimontare il Colosseo a casa sua, perché chi acquista un bene e ne è il proprietario deve essere libero di farne ciò che vuole – e la grave condizione, purtroppo, viene accettata. 
Il finale, ovviamente, non lo diremo.
I temi che Sorgi pone con ilare ferocia sono almeno tre. Il primo è l’indebitamento dell’Italia, che nessuno sembra voler affrontare seriamente, benché sia il vero problema dell’economia nazionale. Il secondo è l’identità italiana, il tema cruciale dell’appartenenza, del riconoscersi nei simboli collettivi, il sospetto di uno scollamento definitivo tra storia e presente. Il terzo, più frivolo benché reso con gustosa acidità sorniona, è il basso livello del dibattito pubblico, non soltanto politico. Sorgi dunque, firmando uno dei libri più “indefinibili” e corrosivi in circolazione, ha inteso affrontare radicalmente – quasi congegnando un lungo fiction-editoriale profondamente pessimistico – l’inizio di un marasma finanziario e identitario dell’Italia, un Paese che discute ossessivamente dei propri piccoli problemi ma rimuove sistematicamente le ragioni di un collasso (che molto richiama la parola “colosseo”) che sembra imminente. 
Si sorride molto, leggendo Colosseo vendesi, ma c’è poco da ridere, soprattutto pensando alla peggiore delle mutazioni antropologiche in atto: l’affievolirsi della serietà, non solo dei politici, ma di tutti noi, pochissimi esclusi.

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