giovedì 21 aprile 2016

La mistica metalmeccanica come retorica compensativa della sinistra è contraddetta dalle scelte concrete: Bellavita e Murgo ricevono un grosso #Ciaone dal Landini e dal Prc




l'antidiplomatico

Con lo sciopero i metalmeccanici ritrovano l’unità
Le sigle: adesione al 75%di Giorgio Pogliotti Il Sole 21.4.16
ROMA I sindacati dei metalmeccanici hanno ritrovato l’unità, dopo otto anni di divisioni, con lo sciopero di ieri accompagnato da manifestazioni e presidi nelle principali città a sostegno del rinnovo del contratto nazionale. Sulla partecipazione le cifre sono discordanti con Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm che parlano di «riuscita oltre le aspettative» con «un’adesione media nazionale superiore al 75% al primo turno», e Federmeccanica che ha rilevato il 24,6%.
Da Napoli Marco Bentivogli (Fim) ha sottolineato che «l’adesione smentisce le previsioni di Federmeccanica, serve un contratto di svolta», auspicando che «da stasera gli imprenditori metalmeccanici riaprano la trattativa per fare il contratto». Anche Maurizio Landini (Fiom), dal palco di Milano, ha chiamato in causa Federmeccanica: «Il contratto sulla base delle loro proposte non lo firmeremo mai, gli aumenti devono essere per tutti», ha detto, invitando la controparte a «sedersi nuovamente al tavolo, non credo voglia assumersi la responsabilità di uno scontro del quale il Paese non ha bisogno». E Rocco Palombella (Uilm), concludendo il comizio a Reggio Emilia ha chiesto a Federmeccanica di «cambiare la sua proposta contrattuale, a partire dal salario, e ci convochi al più presto al tavolo» giudicando «inammissibili gli aumenti differenziati e le paghe differenti».
Il riferimento è alla proposta di Federmeccanica di stabilire un salario minimo di garanzia: il Ccnl erogherà gli aumenti ex post ai soli lavoratori che sono al di sotto di questo livello. I sindacati sono contrari perchè il beneficio andrebbe al solo 5% dei lavoratori. «Non vogliamo giudicare l’esito dello sciopero - replica il direttore generale di Federmeccanica, Stefano Franchi - abbiamo riportato i dati medi forniti dalle nostre imprese. Ribadiamo quanto già dichiarato nei giorni scorsi, il dialogo e il confronto devono continuare per trovare soluzioni e giungere ad un’intesa. Il nostro obiettivo è il rinnovamento contrattuale ed arrivare alla firma del contratto». Federmeccanica propone di introdurre il diritto soggettivo alla formazione (24 ore nel triennio garantite a tutti), l’estensione della sanità integrativa a tutti i lavoratori e alle loro famiglie (azzerando il contributo dei lavoratori a Metasalute con contributi versati solo dalle imprese), l’incremento della contribuzione a carico delle imprese per la previdenza complementare (dall’1,6% al 2%) e 260 euro da distribuire con la retribuzione variabile. «Nella nostra proposta tutto si tiene - continua Franchi - vogliamo aumentare le retribuzioni in modo sano, redistribuendo la ricchezza solo dopo che è stata prodotta. Se non si produce ricchezza, garantiamo l’adeguamento dei minimi al costo della vita».


I metalmeccanici in piazza per una paga più giusta 

Lo sciopero. Sono 1,6 milioni e cercano il riscatto dopo che la crisi li ha decimati: «Il 50% del Pil lo facciamo noi, ma adesso tocca ai nostri salari». Secondi alla Germania, anche per gli stipendi
Antonio Sciotto Manifesto 21.4.2016, 23:59 
La battaglia sta tutta lì: nell’aumento del salario. Lo otterranno, a livello nazionale, da Roma, i tre sindacati Fim, Fiom e Uilm, o lo potrà dare in futuro solo il singolo imprenditore, in azienda, a patto però che i lavoratori firmino un accordo in loco e riescano a «produrre ricchezza», come dice il presidente di Federmeccanica Fabio Storchi? In questo braccio di ferro sta la partita che ieri ha visto le tute blu schierare le proprie forze in piazza, mentre dall’altro lato Confindustria – con il governo che offre una sponda detassando il salario e il welfare erogati a livello aziendale – cerca di portare a casa la «rivoluzione 4.0», che oltre che industriale sarà anche (forse) contrattuale. 
In tutto questo, in mezzo, ci stanno loro, gli 1,6 milioni di dipendenti metalmeccanici italiani, tute blu e impiegati: una categoria che rappresenta uno dei fiori all’occhiello della produzione manifatturiera del nostro Paese – ci confermiamo al secondo posto nell’Unione europea dopo la Germania – ma che è stata fortemente provata dalla crisi. 
Riprendersi dopo la bufera
Secondo i dati di Federmeccanica/Eurostat (giugno 2015) i metalmeccanici italiani sono 1.631.817. Ma erano molti di più, circa due milioni, prima dell’inizio della crisi: in otto anni si sono persi oltre 300 mila posti di lavoro, ha calcolato la Fiom. Intensissimo, di pari passo, il ricorso alla cassa integrazione: quella ordinaria ha avuto il suo picco nel 2009, quella straordinaria nel 2010, ma è tornata a salire esponenzialmente nel 2014, a dimostrazione che – come diceva Maurizio Landini parlando ieri dal palco di Milano – «la crisi per noi (per le tute blu, ndr) non è ancora finita». Scorrendo i tavoli aperti al ministero dello Sviluppo troviamo infatti molte imprese del comparto – dalla OmCarelli alla Solsonica, dalla Piaggio Aerospace alla Belleli. E dire – per continuare a citare Landini – che il settore «rappresenta quasi il 50% del Pil: quindi – conclude il sindacalista – adesso Federmeccanica ci deve riconoscere l’aumento del potere di acquisto». 
Il settore metalmeccanico, spiega Federmeccanica, è molto forte nell’export: esporta beni per 191 miliardi che rappresentano quasi la metà del fatturato settoriale. L’attivo del suo interscambio (65 miliardi di euro) contribuisce al totale riequilibrio della bilancia commerciale italiana, strutturalmente deficitaria nei settori energetico e agro-alimentare. Il 40% degli addetti lavora nella metallurgia e nella produzione di prodotti in metallo, il 25% nelle macchine e apparecchi meccanici, il 17% nei mezzi di trasporto, l’11% produce macchine e apparecchi elettrici, e infine il 7% nei computer e prodotti di elettronica e ottica. 
Quanto guadagna un metalmeccanico? Qui arrivano le note dolenti, e forse comprendiamo ancora di più la battaglia dei contratti, guardando ai numeri: un operaio di terzo livello guadagna 1700 euro lordi al mese (che salgono a 1850 incluse integrazioni e premi); al netto, dove si gioca il potere di acquisto, si riducono a circa 1200. Circa 1400/1500 netti per un quinto livello, ma se scendiamo agli apprendisti e ai livelli più bassi si arriva a circa 1000 euro netti. Per gli impiegati andiamo dai 1000 netti fino ai 2500-3500 medi per un impiegato e quadro più elevato. 
Colleghi tedeschi ben più ricchi
In Germania, dove i metalmeccanici sono oltre il doppio (3,6 milioni), il trattamento economico riservato ai lavoratori è molto migliore: in Italia, spiega la Fiom, per ogni ora lavorata vengono corrisposti circa 18 euro di retribuzione lorda più 7 oneri sociali; in Germania rispettivamente 31 euro e 6 euro all’ora. Il costo del lavoro per dipendente italiano viaggia attorno ai 40 mila euro, ed è in linea con quelli di Spagna e Regno unito, mentre è di circa 15-20 mila euro inferiore rispetto a quello che troviamo in Francia, Germania, Danimarca e Olanda. 
La presenza di lavoro immigrato non è altissima: siamo a circa il 4% sul totale degli addetti, ma in 15 anni la crescita è stata molto forte perché la percentuale nel 1990 era dello 0,25%. 
Il precariato e il lavoro sommerso, per la tipologia specifica del settore – svolto perlopiù in ben definiti siti industriali, con una tradizione contrattuale molto antica e consolidata – non incide ai livelli di altri comparti più giovani o a più alto tasso di irregolarità, come il commercio o la raccolta nei campi: il tempo indeterminato risulta al 96% contro un 4% di tempi determinati e apprendisti. Ma dilagano gli appalti (dove sotto l’apparenza di lavoro regolare e stabile si può annidare l’abuso), e ultimamente si diffondono anche le partite Iva e il lavoro accessorio. 
È iscritto al sindacato un lavoratore su 3 (33%), dato che è sceso parecchio rispetto a 20 anni fa: nel 1995 avevano una tessera 4 lavoratori su 10 (39%).


Un buon viatico contro il jobs act 
LAVORO. Contratti, pensioni e l'occupazione che non c’è

Alfonso Gianni Manifesto  21.4.2016, 23:58 
Malgrado il cono d’ombra della vigilia, ieri mattina sono tornati in scena i metalmeccanici. Hanno manifestato unitariamente con cortei e presidi un po’ ovunque in tutta Italia. Spesso con una presenza significativa di lavoratori precari. 
Dopo otto anni di separazione Fim, Fiom, Uilm, hanno proclamato assieme uno sciopero di quattro ore – andato bene, ma c’è la solita guerra dei numeri – per il rinnovo di un contratto che riguarda un milione e seicentomila lavoratori. Per smuovere una vertenza di fronte alla quale la Federmeccanica si è presentata fin dall’inizio con una propria contropiattaforma che mira ad esaltare il contratto aziendale e a deprimere, quando non cancellare, quello nazionale. E che conta sullo spalleggiamento da parte di un governo, che cita i lavoratori solo quando fa comodo, come nelle dichiarazioni di Renzi post-referendum di domenica scorsa, salvo destrutturare il diritto del lavoro e i diritti nel lavoro. 
La prova unitaria di oggi avrà il suo peso nell’atteggiamento padronale? E’ possibile, non solo auspicabile. Soprattutto perché i risultati ottenuti dalla Fiom nei mesi scorsi, nelle elezioni interne ai luoghi di lavoro, hanno dimostrato sia al padronato che a una parte della dirigenza sindacale nostalgica delle politiche concertative, che la strategia della divisione non paga e che contratti firmati da chi, alla prova dei fatti, è meno rappresentativo di quanto non si sperasse, sono più favorevoli sulla carta ma ingestibili nella pratica. 

Il contratto nazionale torna a svolgere, all’atto stesso della rivendicazione del suo rinnovo, una funzione unificante all’interno del mondo del lavoro. Un buon viatico anche per la campagna referendaria contro il jobs act. E una funzione di stimolo ad una economia che non può risollevarsi a colpi di liquidità iniettata – e lì finita – nel sistema bancario, se non riparte una domanda sostenuta da un minimo di capacità di spesa. 

Il pensiero mainstream fa acqua da tutte le parti. Al punto che a livello europeo si è affacciata la teoria dell’helicopter money, ovvero della distribuzione di denaro direttamente ai cittadini, che solo poco tempo fa sarebbe stata considerata una folle eresia. Fa bene la sinistra ad approfittare di queste crepe, per lanciare la sua proposta di un Quantitative Easing for the people. 
Ma tutto ciò ha un senso e una possibilità pratica solo se riparte la lotta per la ridistribuzione della ricchezza là dove essa si forma, cioè nei luoghi di lavoro e di produzione. E’ lì, dopo decenni di spostamento dei redditi dal lavoro ai profitti, che deve ripartire una migliore e più equa distribuzione. Dopo è troppo tardi. 
Solo così, con maggiore occupazione e retribuzione, si può difendere il futuro di questa generazione, che non vorremmo rassegnarci a vedere perduta. Per questo motivo appare stonata la polemica che si è aperta fra il presidente dell’Inps Tito Boeri e Susanna Camusso. La leader della Cgil lo accusa di fornire un quadro talmente deprimente da finire per scoraggiare tutti, i giovani in primis. Ma la realtà è quella che è. 
Quando Boeri dice che la generazione degli anni ’80 rischia di essere costretta a lavorare fino a 75 anni e ricevere un assegno inferiore di un quarto, non racconta fole. E’ semplicemente l’effetto delle norme introdotte a suo tempo dalla legge Fornero-Monti, per cui chi va in pensione con il sistema contributivo – avendo iniziato a lavorare dopo il 1996 – può ritirarsi dal lavoro solo se rispetta un certo limite di reddito. Più questo è basso, più discontinuo e precario è il lavoro, più tardi avrà la possibilità di lasciarlo. La giustificazione fu quella di evitare pensioni misere. Pura ipocrisia, che adesso esplode, venendo il tempo in cui c’è chi ha la prospettiva di andare in pensione con il solo contributivo. 
In realtà è proprio quest’ultimo che andrebbe messo sotto accusa. Sono i meccanismi perversi che esso ha instaurato a minacciare nel profondo il diritto a un’equa pensione e a spezzare la solidarietà generazionale, funzionale al mantra dei vecchi che rubano il futuro ai giovani tanto caro ai governi di centrodestra come di centrosinistra in tutti questi anni. E questo ovviamente Boeri non lo fa. Ma allora è sul versante della mancata coerenza che andrebbe criticato. Non certo per eccesso di allarmismo. 
Per quanto si possa comprendere che avendo le organizzazioni sindacali aperto una certa conflittualità, anche se per ora a troppo bassa intensità, sul tema delle pensioni – possano lecitamente temere che il governo si avvantaggi della presenza in campo di ulteriori posizioni e soggetti per sviare il confronto, la mossa più saggia è sempre quella di fare proprie le denunce altrui, purché fondate. Tanto più se, al fondo, ti danno ragione.

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