venerdì 15 aprile 2016

Paolo Prodi sulla scuola di Dossetti

Paolo Prodi: Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi, Il Mulino


Dossetti organizzatore di cultura lungo la frontiera tra Dio e Cesare
Corriere della Sera 14 Apr 2016 Di Francesco Margiotta Broglio
Quando, nell’autunno del 1950, un giovane Paolo Prodi raggiunge a Milano l’ateneo di padre Agostino Gemelli, Giuseppe Dossetti, che all’Università Cattolica si era formato come assistente di Vincenzo Del Giudice (tra i fondatori con Luigi Sturzo del Partito popolare), insegnava Diritto ecclesiastico e canonico a Modena dal 1942. Ed è proprio Dossetti a segnalarne l’«eccezionale valore» a Gemelli perché ottenga «un posto gratuito» nel Collegio Augustinianum, nonostante il conterraneo non avesse seguito i suoi consigli «giuridici» e si fosse iscritto a Scienze politiche.
Nel volume Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi (Il Mulino) — centrato sul suo legame con Dossetti e basato sulle «testimonianze personali» di un «rapporto che ha inciso profondamente» sul suo itinerario di storico, ma anche «come punto di riferimento e tensione dialettica sulla sua vita complessiva» — Paolo Prodi menziona tra i docenti Amorth (che sarà la «spalla» costituzionalistica del Dossetti costituente), Boldrini (che sarà la «spalla» di Mattei all’Eni), Mengoni e Mario Viora, con il quale si laurea in storia nel 1954, studiando i rapporti tra Milano e Roma nel 1512-1515.
A Dossetti, «capo carismatico», Prodi deve la «saldatura», fin dagli anni del liceo, tra la situazione del Paese e la sua vocazione «allo studio della storia… anche come chiave interpretativa del presente», imperniata sull’esperienza nella lotta politica del 1948 e sulle prime letture di Maritain e Mounier, di Tasca e Omodeo, di Sombart ed Einaudi. Assistente di Viora in Cattolica, maturerà la scelta dei suoi principali indirizzi di ricerca (Riforma e Controriforma, papato moderno, «sacramenti» del potere) nel biennio 195758 a Bonn con Hubert Jedin, «pontefice» degli studi sul Concilio di Trento e la cosiddetta Riforma cattolica, senza trascurare alcune vibrazioni cantimoriane.
Al centro del volume, anzitutto, gli anni 1952- 54, che hanno come «perno» la fondazione a Bologna del Centro di documentazione, poi trasformato da Dossetti da «comunità di ricerca e di studio» in una «comunità religiosa legata da voti», in coincidenza con le sue dimissioni dall’Università (1957), precedute da quelle dalla politica (1951). Una strada che Paolo Prodi non volle imboccare, fermo alla primigenia impostazione della «comunità» bolognese, ben diversa, come aveva detto il fondatore nel 1953, dall’«individualismo» di La Pira e dall’«azienda» di Felice Balbo, e senza continuità con «Civitas humana» e con il pensiero di Maritain.
Il passaggio dal Centro di documentazione all’Istituto per le scienze religiose, nonostante la continuità giuridica, sarà per Prodi il passaggio a un’istituzione ben diversa dalla «comunità di destino storico rigorosamente laica delle origini», che si rivelerà, a suo avviso, un «non luogo», provvisto, però, di un assistente spirituale che avrebbe garantito che tutti i collaboratori prestassero l’antico giuramento antimodernista. Un passaggio a cui Prodi dedica, anche sulla base di lettere e documenti personali che vengono pubblicati, il secondo capitolo del volume, e che vede il suo distacco, ma anche quello di Angelina Nicora, consorte di «Pino» Alberigo, e sorella della futura signora Prodi, Adelaide.
Seguono pagine efficaci sul Vaticano II, sul « bivio » del post-Concilio (con riferimento all’allontanamento da Bologna nel 1968 del cardinale Lercaro, forse su pressioni Usa), sull’ipotesi respinta di «laicizzare» il Centro, sulla sospensione del rapporto di Prodi con esso e sulla sua successiva «avventura tridentina » , con la fondazione dell’Istituto italogermanico, sul suo legame con Ivan Illich, sulle vicende dell’associazione bolognese, definite una historia dolorum, sul Dossetti dell’ultimo decennio (1986-96). Una testimonianza alta e diretta, con notazioni di originale spessore, in gran parte inedite, sulla politica e la cultura italiane del secondo cinquantennio del « secolo breve», più freddo, ma non meno cruciale del primo.

La leadership di DossettiDomenicale 15 5 2016
È un tema complesso quello che Paolo Prodi affronta in questo volume che è al tempo stesso un lavoro di memorie personali e di inquadramento di un percorso molto particolare della storiografia e, più in generale, di un settore della cultura italiana. Si tratta di una storia oggetto di una lunga diatriba di ricordi negli ambienti che ha interessato, ma certo non semplice da capire per chi non ha vissuto in quegli ambiti e, temiamo, difficilmente comprensibile da generazioni più giovani.
Eppure si tratta di un libro importante perché ricostruisce il percorso di una generazione di uomini e donne che hanno avuto un ruolo fondamentale: sono coloro che si sono riuniti a vario titolo e con vari tipi di legame alla leadership di una figura difficile e, se il termine non viene inteso male, contorta come è stata quella di Giuseppe Dossetti.
Paolo Prodi lo conosce alla fine degli anni Quaranta nella Reggio Emilia che è la “patria” di entrambi, lui studente di liceo, l’altro già leader politico affermato. Mi verrebbe da scrivere che Dossetti lo attrae nel suo vortice, ma senza riuscire a plasmarlo del tutto. Gli trasmette il senso della responsabilità interpretativa dello studioso in rapporto alle crisi in cui vive, responsabilità a cui deve rispondere da cristiano. Non riesce però a metterlo completamente al servizio della compenetrazione tra riflessione sulla storia e ascesi personale nel servizio alla teologia.
Prodi si forma da storico, soprattutto con Hubert Jedin a Bonn, ed entra nel Centro di documentazione di Bologna che è la prima “officina” che Dossetti ha fondato dopo il suo ritiro dalla politica. E qui si scontra, come è documentato dettagliatamente nel libro, con l’ambiguità del luogo, che è al tempo stesso sede di studi «per capire» e di scelte di vita «per testimoniare». È una convivenza difficile che si dialettizza non solo nel rapporto con il fondatore, che in fondo segue la sua strada personale sostanzialmente indifferente, allora come sempre, ai travagli dei suoi seguaci (una dimensione su cui qualche riflessione andrebbe fatta), ma nella dialettica con l’altro discepolo forte, cioè Giuseppe Alberigo, lo storico che non viene da una tradizione culturale, ma da una tradizione militante e che inevitabilmente punta ad assumere la posizione del «ferro di lancia» del dossettismo come ideologia.
Nella vicenda del coinvolgimento di tutti nell’avventura della riforma del Vaticano II le tensioni fra le due posizioni passano momentaneamente in secondo piano, ma rinascono inevitabilmente a Concilio concluso. La cultura cattolica non potrà più essere quella degli uomini della fase ultima di Pio XII e della grande assise della chiesa, perché si porrà il tema se monumentalizzare il concilio rivendicando a sé un ruolo di custodi del suo lascito o se proseguire nel tormento di una ricerca del senso della crisi della modernità.
È qui che, come viene ricostruito con ricchezza di documenti che provengono dall’archivio privato dell’autore, il contributo del tormentato grande monaco emiliano dà vita ad una scissione di prospettive. Da un lato l’istituzionalizzazione del mitico “Centro” in un “Istituto per le Scienze Religiose” che continua a produrre, sotto la guida di Alberigo, un vivaio di intelligenze fra cui si ripeteranno, almeno per una certa fase, le tensioni dissolutive dei tardi anni Sessanta. Dal lato opposto la creazione da parte di Prodi a Trento dell’Istituto Storico Italo Germanico, dove, in un contesto che esclude la “militanza” culturale, si riprende in forme laiche la grande riflessione sul significato complessivo della modernità nel suo trionfo e nella sua crisi.
Dossetti lascia fare e, nonostante le chiamate in causa da parte di Prodi, non si schiera, dando l’impressione ad ogni interlocutore che lo interpella di condividere le critiche che ciascuno fa all’altro. Certo, come l’autore mostra in un denso capitolo finale, l’ultima fase del grande monaco torna in maniera nuova su quel mistero della svolta storica in cui si vive a fine millennio senza pensare che sia risolvibile con una qualche, pur coraggiosa, “nuova riforma”. Ma qui comincia, sembra di capire, un’altra storia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: