sabato 2 aprile 2016

Tradotta "La coscienza infelice" di Benjamin Fondane

immagine scheda libroBenjamin Fondane: La coscienza infelice, Aragno, pp. XVI-430, euro 28

Risvolto
La coscienza infelice è una delle opere capitali della filosofia esistenziale degli anni Trenta. Apparsa nel 1936, andrà presto esaurita. Il suo autore, Benjamin Fondane (1898-1944) – giovane poeta, filosofo e critico rumeno espatriato in Francia nel 1923 – rappresenta un’evoluzione e una continuazione della rivolta attraverso l’assurdo del metodo ironico e irrazionalista del filosofo russo Lev Šestov, maestro di Fondane. In uno sviluppo originale delle tesi del maestro, tuttavia, quest'opera di Fondane rappresenta la strenua difesa della possibilità del metafisico, ovvero dell’osmosi tra fisiologia, psicologia e il metafisico, della fertile alleanza tra biologia e gnosi nella lettura dei fenomeni del mondo e della vita umana.

Benjamin Fondane nato a Jasi (Romania), nel 1898, muore il 2 ottobre del 1944 ad Auschwitz, vittima del nazismo. Autore fondamentale per la cultura francese, fu poeta, filosofo esistenziale, sceneggiatore, drammaturgo, cineasta.
Luca Orlandini ha curato e tradotto per Aragno la prima edizione italiana dell’importante monografia baudelairiana di Benjamin Fondane, Baudelaire e l’esperienza dell’abisso (2013) e, sempre di Fondane, La coscienza infelice (2016). Per la stessa casa editrice ha pubblicato il saggio critico La vita involontaria. In margine al Baudelaire e l’esperienza dell’abisso di B. Fondane (2013) e Velleità della materia (2016). Del 2014 è invece il saggio Falso Trattato d’estetica. Saggio sulla crisi del reale. 

La lotta di Fondane contro il razionalismo a difesa dell’individuo 
MAURIZIO SCHOEPFLIN 2 apr 2016  Libero  
Il titolo potrebbe ingannare: mi riferisco a La coscienza infelice di Benjamin Fondane (Aragno, pp. XVI-430, euro 28), che riecheggia una celebre espressione usata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito per descrivere un momento particolare dell’evoluzione della coscienza, fatto coincidere con il cristianesimo medievale, quando essa soffre, sentendosi separata da Dio. In realtà, Fondane si collocò ben lontano da Hegel e, fedele alla lezione del grande pensatore russo Lev Sestov, avversò il razionalismo assoluto del pensatore tedesco che, ai suoi occhi, conduceva alla negazione dell’esistenza di Dio e alla cancellazione del valore insostituibile dell’individuo. 
Quando, nel 1936, La coscienza infelice venne pubblicata a Parigi, il suo autore aveva 38 anni. Emigrato dalla natia Moldavia romena alla fine del 1923, era riuscito a tessere una fitta trama di contatti e di collaborazioni che gli permisero di esprimere la sua poliedrica personalità di filosofo, poeta, drammaturgo e cineasta. Come in altri scritti, anche qui si erge a difensore dell’individuo vivente, sempre più minacciato dall’avvento di un razionalismo totalitario che tende ad annullarlo: non a caso, si dimostra attratto da autori come Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche e Bergson. La vita dell’ebreo Fondane ebbe fine il 2 o 3 ottobre 1944 ad Auschwitz-Birkenau.

Storia della filosofia, trappola micidiale: Benjamin Fondane 
Benjamin Fondane, «La coscienza infelice» (1936), da Aragno. Il filosofo rumeno allievo di Šestov addita il nulla che si annida in ogni astrazione, anche nella verità, confrontandosi con l’hegelismo a Parigi negli anni trenta
Sergio Givone Manifesto 3.4.2016, 0:10 
Che cos’è che non andava in Hegel secondo questi neo-hegeliani? Una cosa sola: l’Autocoscienza. E cioè la conciliazione assoluta dell’essere e del pensiero. Agli occhi di costoro l’immane sforzo del pensiero, interamente volto a far emergere dal cuore del reale i suoi tratti irriducibilmente conflittuali, le sue fratture, le sue contraddizioni, rischiava alla fine d’essere completamente vanificato. Che frattura è quella già da sempre ricomposta? Che contraddizione può mai essere quella già da sempre risolta? Di qui la ricerca, all’interno del pensiero hegeliano, degli antidoti in grado di salvaguardare la potenza della sua dialettica: che doveva essere mantenuta aperta e non fatta servire alla chiusura del cerchio. Perciò Jean Wahl rivendicava alla coscienza infelice una sua irriducibilità: l’Autocoscienza non doveva né poteva spegnerne la voce dolente e malinconica. A sua volta Kojève si spingeva anche più in là e insisteva sul fondo irriducibilmente irrazionale della stessa ragione. E Hyppolite poneva, contro Hegel ma in nome di Hegel, storicità e finitezza della condizione umana a fondamento di un’antropologia post-metafisica. Tutti temi, questi, che sembravano preludere all’esistenzialismo e alle filosofie della vita che di lì a poco avrebbero fatto irruzione sulla scena europea. Ma anche temi che porteranno alla cosiddetta decostruzione del logocentrismo, proposta da Derrida a partire dagli anni sessanta, e che avranno il loro obiettivo polemico nella ragione intesa come una divinità onnipotente ma cieca per non dire un moloch che tutto divora.
Impavido decostruttore del logocentrismo, ante litteram, fu Benjamin Fondane, rumeno di nascita (1898), naturalizzato francese, ma in quanto ebreo deportato e ucciso ad Auschwitz nel 1944. Fondane a Parigi aveva incontrato Lev Šestov, il filosofo russo che contro il totalitarismo della ragione (logocentrismo, appunto) aveva fatto esplicita professione di irrazionalismo, rivendicando con Pascal il diritto della ragione di farsi beffe della ragione e di appellarsi a un principio di segno contrario, la fede. Secondo Šestov anche la verità dev’essere superata. Che cos’è infatti la verità? È un’evidenza prima, un’evidenza che non può essere negata. Ma che cos’è a sua volta questa evidenza prima che non può essere negata? Un principio di ragione, qual è ad esempio il principio di non contraddizione, e quindi un’astrazione, un teorema che pretende di spiegare la vita, ma che non spiega un bel niente, perché esso stesso non è niente, rispetto alla singolarità e all’unicità di ogni essere vivente. O si sta dalla parte della realtà vivente, o si sta dalla parte della verità e della ragione. Ma non si può stare dalla parte della verità e della ragione senza sacrificare il vivente in quanto tale. Giunto a Parigi, Fondane si mette alla scuola di Šestov e non esita a professarsi suo allievo. Ma al tempo stesso partecipa con la massima attenzione al movimento di idee che ha per epicentro Hegel. Decide così di dedicarsi allo studio di una figura fondamentale della Fenomenologia dello Spirito, per l’appunto la coscienza infelice. Ad essa dedica la sua opera maggiore, che esce nel 1936, avendo un buon riscontro, e viene ora pubblicata da Aragno: La coscienza infelice (traduzione di Luca Orlandini, pp. 430, euro 28,00).
Per Fondane la coscienza infelice sosta nei pressi di quella che Hegel chiama «la più terribile cosa», la cosa inerte, la cosa priva di vita e di futuro; ma se è capace di fissare il volto di questa medusa, non è per ritrovare tutto, anche la morte, nella superiore vita dello spirito, ma per denunciare questo tutto come falsità, come illusione, come nulla. La coscienza infelice considera la sua infelicità una specie di destino (tale in effetti è il malheur, come aveva tradotto Jean Wahl). Predendere di oltrepassarla nel mondo ideale ed eterno, il mondo delle idee, è illusorio. Significa infatti oltrepassarla nella direzione del nulla, poiché per lo sventurato le astrazioni razionali sono un nulla e soltanto un nulla. Scrive Fondane: «Ciò che l’uomo percepisce sopra ogni cosa della natura è la possibilità imminente della Sventura. Non cercate di ‘frenare’ il vostro primo impulso, che è quello di toccare legno – sperate, opponetevi alla sorte! Le essenze ideali, immortali, eterne, non sostituiranno mai questi atti fondamentali. Avete provato vergogna nella speranza – e avete accettato che ponessero al di sopra di voi le cose eterne, il Triangolo di Spinoza, l’idea di Socrate, la Volontà di Schopenhauer, l’Evidenza di Husserl, l’Intuizione di Bergson e l’Esistenza di Heidegger! Perfino l’Esistenza al posto dell’esistenza o il Soffio vitale al posto della Vita!».
L’intera storia della filosofia è una trappola micidiale. La concretezza e la realtà della vita è sacrificata all’universalità del concetto. La singolarità è sacrificata alla totalità. Il divaricamento fra l’essere e il dover essere è tolto con un colpo di bacchetta magica. Ed ecco, la vita è fatta coincidere con la Vita: non più la mia vita, la tua vita, con quanto essa comporta di speranza, desiderio, amore, ma la vita sempre identica a sé, la vita che è quella che è e nient’altro. Certo, prosegue Fondane, è ben difficile obiettare alcunché all’essere dei filosofi. Questo essere non ha difetti. È perfetto. È quello che è e soprattutto è quello che non può non essere, né tantomeno essere altrimenti da com’è. L’identità è il suo scudo, il suo fondamento, la sua ragione. Peccato però… Peccato che questo essere sia soltanto ideale e nient’affatto reale. Che cos’ha esso a che fare con la vita di chi spera e dispera, magari irragionevolmente, ma potendo accampare delle ragioni che la ragione non conosce? Nulla. Non ha a che fare nulla perché a ben vedere questo essere è nulla.
A restare intrappolati secondo Fondane sono anche i filosofi che, al culmine di questa storia, hanno preteso di rovesciarne il corso: Nietzsche e Marx in particolare. Tutto lo sforzo di Nietzsche è volto a liberare l’uomo dalla catena della necessità. Salvo ributtarcelo: come dimostra l’idea dell’«amor fati», che alla maniera degli stoici risolve la libertà nell’accettazione nuda e cruda dello stato di fatto. Quanto a Marx, nessuno come lui ha saputo rivendicare il primato della realtà rispetto all’idea. Ma l’idea che l’individuo non sia altro che «l’insieme dei rapporti sociali» è a sua volta un’idea nella quale l’individualità va inesorabilmente perduta. E allora? Dovremo guardare a una filosofia «altra» o a un’«altra» filosofia? Niente di tutto ciò, per Fondane. Alla filosofia non resta che volgersi contro se stessa e mettere in questione il suo stesso presupposto, la sua verità, il logos. Così come all’uomo non resta che volgersi all’impossibile.

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