mercoledì 13 aprile 2016

Un nuovo stupidario televisivo americanizzante di Aldo Grasso


Aldo Grasso, Cecilia Penati: La nuova fabbrica dei sogni, il Saggiatore

Risvolto
Da quindici anni Aldo Grasso ci ricorda una verità semplice eppure rivoluzionaria: le serie televisive americane sono i prodotti artistici che più hanno plasmato l'immaginario collettivo contemporaneo. Che mostrino gli abissi morali in cui può sprofondare un frustrato professore malato di cancro o la dolorosa impossibilità di un pubblicitario newyorkese di sfuggire alle menzogne patinate che confeziona ogni giorno; che raccontino le turbolente vicende sentimentali di una giovane dottoressa alle prime armi, o l'epopea, deflagrata in infinite dimensioni parallele, dei sopravvissuti a un disastro aereo, le serie tv hanno saputo dare forma ai desideri e agli incubi che popolano il reale. E ci hanno reso dipendenti. Nella "Nuova fabbrica dei sogni", Aldo Grasso e Cecilia Penati accolgono la sfida a cartografare la galassia delle serie televisive - dai Soprano a The Wire, da House of Cards a The Walking Dead, dal Trono di spade a Breaking Bad - passando per i personaggi più iconici, i colpi di scena più plateali, e soprattutto per i nuovi demiurghi dell'immaginario, gli showrunner, che accentrano ogni aspetto della produzione artistica. La nuova fabbrica dei sogni-quella che, grazie a Don Draper e Tyrion Lannister, Dale Cooper e Rusty Cole, ha ormai soppiantato Hollywood - non è solo una guida per chiunque voglia affacciarsi al mondo delle serie tv, ma una ricognizione attenta, in cui anche gli appassionati di lungo corso scopriranno nuova linfa per le loro "ossessioni seriali". 


Serie tv, l’America senza moraleGli Usa invadono il nostro immaginario descrivendo la crisi dei valori tradizionali e della famiglia13 Apr 2016 Corsera Di Serena Danna

Che le serie tv siano il vero « grande romanzo americano» auspicato dai pigri recensori dei nostri giorni, Aldo Grasso lo dice da almeno un decennio. Solo che tra il 2007 — quando usciva il primo saggio del critico televisivo intitolato Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri — e il 2016, anno di pubblicazione del libro La nuova fabbrica dei sogni, scritto con Cecilia Penati, in uscita per il Saggiatore, c’è una differenza sostanziale: la rivoluzione è compiuta. Alle serie tv è stata riconosciuta pienamente non solo la dignità culturale di un’opera letteraria ( sono davvero pochi ormai quelli che alla domanda «Hai mai visto Breaking Bad? » rispondono alzando il sopracciglio: «Non guardo la televisione»), ma anche la doppia funzione che le caratterizza: quella «civile», specchio patinato e intelligente del nuovo soft power americano; e quella «terapeutica»: strumento collettivo di auto-analisi. Non è un caso se tra i soggetti-bersagli preferiti dalla serialità degli ultimi anni ci siano il sogno americano e l’istituzione del matrimonio. Prodotti come The Americans, House of Cards, The Newsroom raccontano meglio di qualsiasi editoriale o saggio geopolitico la fragilità di una potenza — e delle élite che la rappresentano — che è arrivata nel XXI secolo con le ossa quasi rotte.
«Quel che mi affascina — scrive il politologo Dominique Moïsi citato da Grasso — è notare come l’America usi la denuncia delle sue debolezze per invadere l’immaginario del pubblico, proprio nel momento in cui non ha più la volontà o i mezzi per essere il gendarme del mondo». Un Paese che non riesce più a vendere il sogno del Bene (contro il Male, che è sempre altrove) trasforma l’anti-eroe in guru: Dexter e Walter White diventano i beniamini di un pubblico che non crede più alle ideologie. «Per gli americani è sempre tutto bianco o nero, tutto giusto o sbagliato, mentre la cultura e la sensibilità russe si alimentano d’innumerevoli sfumature di grigio», dice una protagonista di The Americans, lo strepitoso telefilm ambientato durante la guerra fredda.
Succede anche grazie al successo della tv via cavo, a canali come Hbo e Showtime: « Gli spettatori che sottoscrivono un abbonamento — scrivono Grasso e Penati — si aspettano programmi anticonvenzionali, racconti che spostino un po’ più in là la barriera del visibile, di ciò che si può rappresentare e mostrare sullo schermo televisivo: nei temi, nel linguaggio, nella psicologia dei personaggi».
L’istituzione del matrimonio, pilastro della cultura wasp americana — stare insieme per salvare le apparenze e il portafoglio — diventa l’altro elemento cult vivisezionato dagli autori. Lo sceneggiatore principale di House of Cards, la popolare serie sugli intrighi del potere (come recita il sottotitolo dell’edizione italiana) ambientata a Washington, ha raccontato a «Variety» che, al primo incontro con il produttore e regista David Fincher, gli ha detto: «Voglio che sia una storia sul matrimonio tanto quanto è una storia sul potere a Washington». Così i coniugi Underwood diventano simboli di un’unione che, pur facendo inorridire i moralisti, non è poi (omicidi a parte) così rara nella upper class americana: «Frank e Claire danno vita a un matrimonio ferreo e molto riuscito — si legge in La nuova fabbrica dei sogni —, una sorta di patto con il Male. Esistono come individui ma molto più come parti inseparabili di una strategia di coppia». Anche in The Americans, il tema del conflitto tra capitalismo e comunismo nasconde il complicatissimo racconto della costruzione di un’amore: quello tra le spie sovietiche Philip ed Elizabeth, che cambiano identità e look più volte per salvare la grande madre Russia. Ma, in fondo, i continui travestimenti messi in scena dai due — si chiedono Grasso e Penati — non sono altro che «un’allusione alla recita che ogni coppia implica?».
Se è vero — come ha scritto Ester Viola sul sito di «IL Magazine» — che il modo migliore per testare la resistenza di una coppia contemporanea è confrontare i gusti in fatto di serie tv (scoprendo, ad esempio, che un’appassionata dell’introspettivo The Affair ha poche chance di avere un’unione felice con un pragmatico fan di The Good Wife), la grande verità enunciata da La nuova fabbrica dei sogni è che le serie tv degli anni Duemila ci hanno trasformati in esperti della psiche umana. Autori come Aaron Sorkin, J.J. Abrams, David Simon, Lena Dunham (ma sarebbe corretto chiamarli, come fanno Grasso e Penati, showrunner: «perfetto compromesso tra il concetto letterario di autore e quello industriale di produttore») trascinano gli spettatori nei meccanismi psicologici dei loro protagonisti. L’auto-fiction di Hannah Horvath in Girls, più che raccontare la crisi di una generazione (o quanto meno di una parte di essa) segnata da grande intelligenza, buoni studi, amori e lavori decisamente precari, descrive la testa molto complicata di una giovane donna segnata da «estremo narcisismo e solipsismo».
Lo stile confessionale usato da Dunham finisce con l’escludere chi non «vive» quelle sensazioni (e infatti Girls non ha avuto molti spettatori), creando però con gli spettatori un legame empatico più forte di qualsiasi operazione di marketing.
Il personaggio di Hannah non nasce all’improvviso. Arriva dopo tante donne che, prima di lei, hanno cambiato radicalmente i personaggi femminili della televisione. Grasso e Penati individuano nella chirurga di Grey’s Anatomy Meredith Grey l’apripista di una nuova corrente di donne: non più solo eroine, vittime o brave ragazze sorridenti ma, come ha scritto Helen Eisenbach su «Salon», «personaggi ambiziosi, severi, rudi, felicemente promiscui e anche imperfetti». Come imperfetta e meravigliosa è la famiglia di Transparent, guidata da un papà che in età avanzata confessa ai suoi tre figli di essersi sempre sentito una donna e che da quel giorno diventerà per tutti «Mapa», incrocio di mamma e papà. A dimostrazione del fatto che spesso le serie tv si muovono già con grande disinvoltura in contesti dove la società sta faticosamente arrivando.
I telefilm raccontano meglio di saggi geopolitici la fragilità di una superpotenza alle corde.

L’autore non conta: arriva il «custode del progetto»La serieBobby Cannavale, protagonista di «Vinyl» (interpreta Richie Finestra)Corriere della Sera 13 Apr 2016
Si potrebbe pensare ( in tanti l’hanno scritto) che la debolezza di Vinyl, serie tv sulla scena musicale della New York anni Settanta, creata, tra gli altri, da Martin Scorsese e Mick Jagger, dipenda dal fatto che solo la prima puntata vede la regia del maestro Scorsese. Tuttavia, come scrive Aldo Grasso in La nuova fabbrica dei sogni, «la verifica della presenza dell’Autore nel grande serial americano è l’esercizio critico meno soddisfacente che si possa compiere».
Mentre è importante continuare a farlo al cinema o in letteratura, quando si parla di serie tv il concetto di autorialità non si misura in regia. «Una serie è grande quando è, prima di ogni altra cosa, serie: cioè macchina, intreccio, perfetta calibratura di tipi, temi e motivi», scrive Grasso.
Uno dei primi grandi telefilm della storia, Twin Peaks, conosciuto universalmente come «la serie di David Lynch», vede il regista alla macchina da presa in rare occasioni. Eppure proprio grazie alla cooperazione di tutta la squadra di sceneggiatori, registi e produttori, il prodotto riesce ad avere «il marchio Lynch» per tutte le stagioni. Lo stesso vale per J.J. Abrams con Lost come per Lena Dunham in Girls. L’unica vera figura essenziale che emerge nel contesto della serialità, la più vicina a quella dell’autore, è lo showrunner, il responsabile dell’intero processo di produzione, una sorta di custode del progetto. E tra queste professionalità che si annida — secondo Aldo Grasso e Cecilia Penati— una nouvelle vague televisiva.

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