sabato 28 maggio 2016
Bauman sulla fine neobonapartista della democrazia moderna. Ma sul Corriere
Il neoliberalismo occupa tutto lo spettro dell'ideologia e può avere più parti in commedia sfruttando anche le nostalgie socialdemocratiche e le vaghe speranze di cambiamento [SGA].
di Zygmunt Bauman Corriere 27.5.16
Uno spettro si aggira nella terra della democrazia: lo spettro di un
Uomo (o Donna) forte. Come suggerisce Robert Reich, nel suo «Donald
Trump e la rivolta della classe ansiosa», quello spettro (che nel caso
in questione indossa le vesti di Donald Trump, benché non disdegni di
indossare molti e variegati costumi, sia popolari che nazionali) nasce
(proprio come Afrodite emerse dalle onde spumeggianti del Mar Egeo)
dall’ansia che di questi tempi sta attanagliando «la grande classe media
americana», oggi impaurita dalle «elevatissime probabilità di finire in
miseria».
Due terzi dei cittadini americani oggi vivono con i soldi contati e la
stragrande maggioranza rischia di perdere il posto di lavoro da un
momento all’altro. Molti ingrossano le file della manodopera «a
chiamata» — lavorano cioè quando sono necessari, si accontentano dei
compensi che gli vengono offerti, a discrezione del datore di lavoro.
Eppure, queste stesse persone, nel momento in cui non riescono più a
pagare l’affitto o il mutuo della casa, rischiano di precipitare nel
baratro. Questi «due terzi degli americani» sono costretti a camminare
sull’acqua, squassati da venti di tempesta non meno impetuosi di quelli
che agitavano il Mar di Galilea, descritti nel Vangelo di Matteo. Nelle
parole dell’evangelista, camminare sulle acque era una questione di
fede: ma oggi la «classe ansiosa» di Reich non sa più in che cosa
riporre la sua fiducia. «Le reti di sicurezza sono piene di buchi. La
maggior parte di coloro che perdono il lavoro non ha nemmeno diritto
alla disoccupazione. Il governo non fa nulla per proteggere il lavoro,
impedendo che le aziende delocalizzino in Asia oppure che i posti di
lavoro vengano presi da immigrati clandestini disposti a lavorare per
meno».
«Trucchi da impostore»
Tuttavia, osserva Reich, affidarsi all’onnipotenza dell’uomo forte
rappresenta un «sogno impossibile», e se Trump è riuscito a guadagnarsi
la fiducia dell’elettorato, lo ha fatto ricorrendo a «trucchi da
impostore». Eppure, la chiamata a raccolta della «classe ansiosa» per
stringersi attorno al mago, che li inganna facendo balenare ai loro
occhi quel sogno impossibile, non rappresenta necessariamente una
reazione scontata e inevitabile. La risposta alla domanda posta di
recente da Joseph M. Schwartz, professore di Scienze politiche alla
Temple University — «La classe media e i lavoratori bianchi, oggi in
difficoltà economiche, sono pronti a seguire la politica razzista e
nazionalistica di Trump e del Tea Party (convinti che il gioco sia tutto
predisposto a favore delle fasce più povere della popolazione di
colore), oppure si uniranno per dare battaglia contro le élite
imprenditoriali, che hanno sancito l’annientamento della classe
operaia?» —, non è per nulla ovvia. Come suggerisce Schwartz, un
sondaggio effettuato da New York Times/Cbc News «appena prima del
discorso del senatore Bernie Sanders alla Georgetown University sul
socialismo democratico il 19 novembre 2015» rivela che il 56% degli
elettori storici del partito democratico erano favorevoli al socialismo,
contro il 29% dei contrari, e questo ci consente di ipotizzare che «la
maggior parte degli intervistati associ il capitalismo con la
disuguaglianza, l’eccessivo indebitamento per gli studi universitari e
un mercato del lavoro stagnante. Costoro vedono invece nel socialismo
una società più giusta e ugualitaria». Dalle attuali difficoltà in cui
si dibatte la «classe ansiosa» (oppure i ranghi sempre più affollati del
«precariato»), scaturiscono molteplici scelte politiche. Una di queste
fa appello a un uomo forte; l’altra, a un popolo forte.
La paura cosmica
Nelle parole del grande filosofo russo, Mikhail Bakhtin, tutte le
potenze terrestri si alimentano e prosperano sulla diffusione di «timori
cosmici», i quali possono essere innati o endemici per gli esseri
umani: ciò vuol dire il timore davanti a tutto ciò che è sconfinato e
potente; davanti al cielo stellato, la mole materiale delle montagne, il
mare, la paura degli sconvolgimenti cosmici e delle catastrofi naturali
istillata da antiche mitologie, credenze, immaginazioni, persino la
paura delle lingue e dei modi di pensare a loro connaturati... questo
terrore cosmico, in senso stretto anziché mistico (trattandosi di timore
di tutto ciò che è materialmente grande e rappresenta una potenza
difficile da definire) viene sfruttato da tutte le grandi religioni per
reprimere la persona e la sua coscienza, trasformandola in una variante
artificiale e volutamente «ufficiale».
Nel suo studio delle complesse relazioni tra i gestori terrestri della
«paura ufficiale» e i soggetti nei quali si inducono questi timori,
ricorrendo all’aiuto de «Il processo» e de «Il castello», i due celebri
romanzi di Franz Kafka, Roberto Calasso dimostra che l’azione della
«paura ufficiale» è tutt’altro che semplice e immediata. «Se i cittadini
avessero sentito gli esegeti de “Il castello” dilungarsi su Dio e
divinità e su come questi interferiscono nella loro vita, avrebbero
reagito con sdegno», suggerisce Calasso. Si sarebbero risentiti dei
tentativi colti di paragonare gli occupanti del Castello a Dio o ad
altre divinità a loro ben note per gli insegnamenti religiosi ricevuti.
«Come sarebbe facile trattare con gli abitanti del Castello se, come nel
caso di Dio, bastasse studiare un po’ di teologia e affidarsi alla
devozione — potrebbero pensare. Ma i funzionari del Castello sono assai
più complessi. Non esiste scienza né disciplina che possa aiutarci a
trattare con loro».
Difatti i sistemi religiosi — che secondo Bakhtin rappresentano i primi
tentativi per riciclare il timore «cosmico» in un timore «ufficiale» (in
altre parole, fabbricare la «paura ufficiale» sullo stampo di quella
«cosmica», e capitalizzando allo stesso tempo sulle fondamenta già
predisposte dalle fonti primordiali e originali della paura) — tendevano
ad assicurare la sottomissione e l’obbedienza dei soggetti con la
promessa (spesso disattesa per quantità e qualità in confronto a quanto
stipulato) di ricette infallibili per attirare la grazia e i favori
divini, o per placare la Sua collera qualora ogni sforzo per rispettare i
Suoi dettami alla lettera si fosse dimostrato, all’atto pratico, troppo
difficile e oneroso. Senza perdere nulla della sua temibilità, a Dio si
poteva parlare — a differenza delle fonti mute e ottuse della paura
cosmica. Dio poteva essere pregato, implorato, scongiurato, tramite
parole e azioni, per impetrare il perdono dei peccati e la ricompensa
delle virtù. E a differenza della Natura sorda e cieca, Dio magari
poteva ascoltare, ed esaudire i voti dei peccatori contriti. Le chiese,
plenipotenziari terreni dell’autorità divina, spiegavano
meticolosamente, fin nel minimo dettaglio, il codice di condotta
indispensabile per indurre Dio, con un gioco simultaneo di benedizioni e
tribolazioni, ad esaudire il credente. Doloranti sotto i colpi del
destino, le vittime dell’ira divina sapevano esattamente che cosa fare
per meritarsi la redenzione. Quando la redenzione tardava ad arrivare,
si convincevano di aver mancato di zelo, e pertanto si ritenevano
colpevoli di una manchevolezza facile da correggere.
Potere e «delega» alla società
Ma questo è esattamente il dispositivo che la paura ufficiale, nella sua
veste moderna, arruolata e dispiegata nuovamente in campo dai poteri
politici laici, respinge nella pratica — anche se ben di rado si sottrae
alla tentazione ipocrita di esaltare a parole i suoi precetti. In
un’aperta violazione dell’intenzione e promessa moderna di sostituire i
ciechi giochi del fato (cioè quel divario irritante e confuso tra le
azioni umane e le loro conseguenze sia per coloro che le compiono che
per coloro che le subiscono) tramite un ordine di cose coerente e
relativamente inequivocabile, guidato dai principi morali di giustizia e
responsabilità — pertanto assicurando una stretta corrispondenza tra la
situazione in cui vengono a trovarsi gli esseri umani e le loro scelte
di comportamento — gli uomini di oggi si ritrovano esposti a una società
traboccante di rischi e al contempo vuota di certezze e di garanzie.
Due nuove circostanze ci invitano a ripensare e, se non a correggere,
perlomeno a integrare il modello di Bakhtin. La prima è
l’«individualizzazione» su vasta scala — un nome in codice che vede nel
potere costituito un’immagine complessiva della «società» che mira a
«delegare» il compito di affrontare i problemi innescati dall’incertezza
esistenziale sui singoli individui e sulle loro risorse del tutto
inadeguate. Nelle parole dello scomparso Ulrich Beck, oggi si addossa
agli individui la responsabilità irrealizzabile di trovare, da soli, le
soluzioni ai problemi generati dalla società.
Lo spettro che si aggira in una società di attori-per-decreto incarna
l’orrore che si prova nel trovarsi inetti e inefficaci; come pure il
terrore dei suoi effetti immediati, la perdita di autostima e le sue
probabili conseguenze: l’emarginazione e l’esclusione. Come generatori
di paura ufficiale, i detentori del potere si affannano a ingigantire le
incertezze esistenziali che hanno dato forma allo spettro e
perennemente lo ricreano; i detentori del potere puntano a fare
qualsiasi cosa per rendere quello spettro il più tangibile e credibile —
il più «realistico» — possibile. Dopo tutto, la paura ufficiale dei
loro soggetti è ciò che, in ultima analisi, li mantiene al potere.
Tuttavia, in una società disgregata e ridotta a un ammasso di attori
individuali (costretti a fingere la loro autosufficienza), i detentori
del potere potrebbero anche essere tentati di appoggiarsi sempre di più
su di noi, i loro stagisti insicuri, precari, non retribuiti e non
tutelati, che vivono la loro vita frammentata in una società la cui
frammentazione è da loro voluta, alimentata e giornalmente riprodotta.
Avendo attraversato le incarnazioni religiose e politiche della «paura
ufficiale» della «società disciplinata», la paura cosmica che emana
dalla dolorosa fragilità e finitudine delle capacità cognitive e
pragmatiche si è calata nella «società di attori» nell’arena della
«politica della vita» (definizione di Anthony Giddens) ed è atterrata
sulle spalle dei praticanti individuali di quella vita. Stretti tra
l’infinità di opzioni e tentazioni presumibilmente accessibili, come
pure le sconfinate richieste rivolte all’individuo che si presuppone
«autonomo, capace e risoluto» , stimolati a «sforzarsi incessantemente a
migliorarsi» da un lato — e dall’altro la scarsità di risorse a
disposizione, messa tristemente a nudo dalla grandiosità pura e semplice
di quella sfida — agli attori-per-decreto, tormentati dalla
consapevolezza della propria inadeguatezza, non resta altra scelta che
quella di invocare la salvezza dall’imminente depressione rivolgendosi
«alle loro divinità». Nelle parole memorabili di Ulrich Beck, «alle
divinità da loro scelte». Ma questo scambio di appartenenza ha fatto ben
poco per mitigare sia l’assillante ansietà generata dalla precarietà
ovvia del loro stato esistenziale, sia il dolore dell’autocensura e
dell’autocondanna per non essere riusciti nemmeno a fermare —
figuriamoci invertire — il suo progressivo aggravarsi.
Immigrazione e razzismo
La seconda circostanza nuova è l’erosione della sovranità territoriale
delle attuali unità politiche, provocata dal processo oggi in corso
della globalizzazione del potere (ovvero la capacità di realizzare certe
cose) cui non è seguita la globalizzazione della politica (ovvero la
capacità di decidere quali cose debbano essere realizzate), ottenendo
come risultato una discrepanza irritante tra gli obiettivi e i mezzi a
disposizione per un’azione efficace. Il risultato è la scomparsa delle
cause della «paura ufficiale» dal modello tratteggiato da Bakhtin:
invisibili e irraggiungibili a tutti gli effetti, esse sono — proprio
come le fonti della «paura cosmica» — mute e ottuse. A grande distanza
dai richiedenti, esse restano sorde alle loro istanze generiche, per non
parlare delle loro specifiche richieste. La maggior parte dei loro
soggetti sono tagliati fuori dalle comunicazioni — e sempre in maggior
numero hanno perso, o stanno perdendo rapidamente, ogni speranza di
dialogo sensato con le istituzioni.
Eric Hobsbawm, uno degli storici più acuti dell’era moderna, intuiva
già, un quarto di secolo addietro (ben prima dell’attuale «crisi
dell’immigrazione», e ancor prima che si diffondesse l’odierna
consapevolezza della nuova «globalità» della condizione umana) che
«l’urbanizzazione e l’industrializzazione, poiché si fondano su
movimenti massicci e variegati, migrazioni e spostamenti di popolazioni,
erodono il concetto nazionalistico di base per cui un territorio è
abitato essenzialmente da una popolazione omogenea per etnicità, lingua e
cultura. Xenofobia e razzismo rappresentano il sintomo, non la cura. Le
comunità e i gruppi etnici nelle società moderne sono destinati a
coesistere, qualunque sia la retorica che fa balenare il sogno del
ritorno a una nazione pura». «Ogni volta — prosegue Hobsbawm — i
movimenti di identità etnica sembrano scaturire da reazioni di debolezza
e di paura, tentativi per innalzare barricate atte a tenere a bada le
forze del mondo moderno... Ciò che alimenta queste reazioni di difesa,
contro minacce reali o immaginarie, sono gli spostamenti di popolazioni
internazionali che si accompagnano a drammatiche trasformazioni
socio-economiche, senza precedenti e ultraveloci», trasformazioni che
sono sotto gli occhi di tutti ai nostri giorni. «Dovunque viviamo, in
una società urbanizzata, incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati
dai loro Paesi, che ci richiamano alla mente la fragilità e il
decadimento delle nostre stesse radici familiari». «Loro, gli stranieri —
ci ricorda Hobsbawm dall’aldilà —, saranno accusati di tutte le
nefandezze, incertezze, disorientamento e confusione che molti di noi
provano, dopo quarant’anni di sconvolgimenti così rapidi e profondi da
risultare senza precedenti nella storia umana». Come dicevano i nostri
antenati, «la storia è maestra di vita», un insegnamento, questo, che
stiamo dimenticando a nostro rischio e pericolo. Per assicurare la
nostra sopravvivenza, ascoltiamo quella maestra; leggiamo e rileggiamo
l’opera cardine di Hobsbawm, «Nazioni e nazionalismi dal 1780», in cui
ci insegna che le società in declino puntano tutte le loro speranze su
un salvatore, su un uomo (o una donna) della provvidenza, e sono alla
ricerca di un nazionalista risoluto, militante e battagliero: qualcuno
che promette di spegnere l’interruttore del pianeta globalizzato, di
sbarrare quelle porte che già da tanto tempo hanno perso — o a cui sono
stati rotti — i cardini, rendendole inutilizzabili.
La verità è che le scorciatoie suggerite dagli uomini e dalle donne
forti che aspirano al governo restano assai seducenti, per quanto
fuorvianti. Tratteggiano una visione di ripristino e riappropriazione di
tutto ciò di cui un numero crescente dei nostri contemporanei avverte
la mancanza nella politica odierna, contraddistinta da una carenza
progressiva di potere, incapace pertanto di impedire i danni arrecati da
elementi che si sottraggono al suo controllo, pronta a ignorare, o a
distruggere sul nascere, ogni tentativo messo in atto dai politici
liberal-democratici per riconquistare la loro sempre più debole
autorità. Il peccato imperdonabile della democrazia, agli occhi di un
numero sempre crescente di quanti dovrebbero beneficiarne, è la sua
incapacità ad attuare quanto promette. Il ruolo di uomo o donna forte,
che tanto seduce i candidati elettorali, sta proprio nella promessa di
agire. In ultima analisi, l’attrattiva dell’uomo o della donna forte si
basa su una serie di pretese e promesse che restano ancora tutte da
dimostrare.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
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