martedì 31 maggio 2016

Gorlier racconta dei suoi amici scrittori

“Così sono diventato l’americanista Bonetto” 

I 90 anni dell’intellettuale, protagonista tra i grandi della letteratura 

Bruno Quaranta Busiarda 31 5 2016
Sa che cos’è il miele ibleo?». Claudio Gorlier, allo scoccare dei novant’anni, è sempre in cattedra, mai smettendo, va da sé, la scarruffata indole dell’allievo. Scolaro e maestro, nel solco di una tradizione, da Gobetti a Ginzburg, così propria della sua Torino. 
Sono infinite le vie che conducono a Shakespeare, per il discepolo dell’anglista princeps Giorgio Melchiori, un Puck che si diverte a insidiare i luoghi comuni: «Regnava il silenzio quando ponevo la domanda ai miei studenti, leggendo l’ Enrico IV. Ibleo, ovvero dell’antica città di Ibla, in Sicilia...A proposito dell’Enrico IV, sa perché non mi sono arricchito? Edmo Fenoglio mi commissionò una traduzione per Buazzelli, che non andò però mai in scena, addio dunque ai copiosi diritti d’autore».
C’è una battuta dell’«attore» Claudio Gorlier, acrobata qual è del gesto e della parola, che avvicina la fama di un rigo shakespeariano, «This is the Baloon», La donna della domenica, capitolo ottavo, «This, disse l’americanista...».
La Torino di Fruttero e Lucentini...
«Sì, sono io l’americanista Bonetto. Carlo Fruttero, non Lucentini, lo ha modellato, ispirato dalla nostra amicizia: compagni di banco al Gioberti, correvano gli anni Trenta; ladruncoli nella fu libreria Casanova; girovaghi a Parigi...».
Come diventa americanista?
«Sono stato il primo a vincere una cattedra di letteratura americana in Italia. Con due anni di ritardo. Ero a Berkeley quando Melchiori, super maestro e super amico, mi invitò a partecipare a un concorso organizzato ad hoc per me. Rinunciai affermando: “Non sono ancora pronto”».
La letteratura americana. Ma il suo cognome non l’indirizzava alla letteratura francese?
«Mi sarei dovuto laureare con Ferdinando Neri. Gli chiesi la tesi sull’ugonotto Agrippa D’Aubigné, età barocca. Ma il poeta non era nelle sue corde, tergiversava, insomma: non mi incoraggiò. E così mi rivolsi a Federico Olivero, il professore che aveva rifiutato a Pavese la tesi su Whitman, laureandomi su Eliot. Controrelatore Francesco Pastonchi, che osservò, a proposito di Eliot: “Com’è possibile che un americano-inglese capisca Dante?”. La sua obiezione mi valse cinque punti in meno: laurea con 105».
Il tronfio Pastonchi...
«Accadde che, finita la guerra, ricoprii all’Università la carica di rappresentante degli studenti, due per anno, a dividersi i posti azionisti e comunisti. Nella prima riunione sollecitammo la rimozione di Pastonchi, compromesso con il fascismo. Avvenne quindi la resa dei conti, allorché sostenni il biennale con il poeta di Belfonte. “Mi parli - già assaporava la vendetta - di Giusto de’ Conti di Valmontone...”. Non esitai: “E’ un petrarchista del Quattrocento. Cantò le lodi di una donna in La bella mano”. Cavallerescamente mi diede 30».
Aderiva al Partito d’azione o al Pci?
«Il mio partito è il Partito d’azione. Ne sono ancora idealmente iscritto. Non tragga in inganno la mia iscrizione al Pci, sciolto il Pda. Una breve parentesi, sulla scia del mito resistenziale. Lavorai come giornalista all’edizione torinese de L’Unità. Quando lasciai i comunisti con Raimondo Luraghi, storico della guerra civile americana, e Franco Ferrarotti, il direttore Montagnana mi lanciò l’anatema: “Diventerai un nemico della classe operaia!”».
Dopo il pci che cosa l’aspettava?
«L’America. Vi giunsi grazie a Barbara White. Dirigeva un centro culturale americano con sede nella torinese piazza San Carlo, sarà la prima donna presidente di Università negli Usa». 
Tra le sue frequentazioni d’oltreoceano?
«Henry Kissinger, secondo i nemici. Mentre la corretta pronuncia è Kissinger. Mi segnalò tra l’altro una giovane cantante, ventunenne, che a suo dire ne avrebbe fatta di strada: Joan Baez».
Gli amici scrittori: un’istantanea di Pavese?
«Il suo complesso: non aver fatto la Resistenza. Mila mi diceva. “Talvolta, incontrandomi per strada, fingeva di non vedermi”. Si era iscritto al pci, ma non lo frequentava. “Perchè?”, gli domandai. Estetica la risposta: “Perché mi chiederebbero di affiggere manifesti”».
L’estremo incontro con Fenoglio?
«Autunno 1962. Alla vigilia di un viaggio negli Stati Uniti. Ad Alba. Si conversa sino alle due di notte, mi annuncia: “Sto scrivendo un romanzo, parte in inglese. Sarai il primo a leggerlo”».
Calvino: a quando risale il vostro sodalizio?
«Ci conoscemmo studenti. Viveva in una stanzetta di via XX Settembre. La domenica era ospite a pranzo dei miei genitori. Un giorno gli dissi: “Pavese aveva capito di essere un bravo scrittore, in te riconoscendo un grande scrittore”. Tossì: “Forse ha ragione...”».
Primo Levi: era così riservato?
«Non con me. Una volta mi raccontò che in Germania, dove si era recato per lavoro, ricevette calorose congratulazioni, tale la sua padronanza della lingua tedesca. La sua spiegazione raggelò gli astanti: “L’ho imparata nei lager”».
E Giovanni Arpino?
«Fedelissimo alle inimicizie e alle amicizie. Tra la spada e l’abbraccio. Mai nutrendo rancore».
Gorlier saggista. A quale libro vorrebbe legare il suo nome?
«La fine dell’innocenza, un viaggio nel profondo Sud, dagli albori a Faulkner. Là dove è la guerra civile a significare “la fine”. Ma, scaramanticamente, lo tengo a bada. Terminandolo suonerebbe la campana per me». 
Il verso per eccellenza in lingua inglese?
«To be or not to be...».
Il professor Gorlier, beninteso, non ha dubbi: essere, essere...
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