sabato 21 maggio 2016

Il faticoso mestiere del dissidente oggi: Huang Yong Ping, l'Ai Weiwei che legge Deleuze e Toni Negri



“Racconto il potere degli Imperi all’epoca della globalizzazione” 

A Parigi per la rassegna Monumenta l’artista cinese ha trasformato il Grand Palais nella banchina di un porto tra gru, container e scheletri di draghi 

Rocco Moliterni Busiarda 21 5 2016
Si entra nel Grand Palais, l’edificio dalla grande cupola tutta vetri e metallo e ci si ritrova quasi in un incubo ambientato su una banchina di un porto: sulla testa volteggia un gigantesco scheletro di qualcosa che potrebbe essere un serpente o forse un drago cinese. Una grande gru è sospesa su centinaia di container dai vari colori che riempiono lo spazio dove in genere si svolgono fiere eleganti come Paris Photo. Tra due pile di container è anche sospeso un grande bicorno con la coccarda francese, che poi scopri essere la gigantografia del cappello che Napoleone imperatore indossava a Eylau in una delle sue battaglie più cruente (quello vero fu messo all’asta due anni fa dai Grimaldi di Monaco e acquistato da un collezionista sudcoreano per 2 milioni di dollari). 
Autore di questo spiazzamento è Huang Yong Ping, il 62 enne artista cinese protagonista dell’edizione 2016 di Monumenta, la kermesse biennale che ha visto in passato cimentarsi con i 13.500 metri quadri della Nef du Grand Palais artisti come Boltanski, Anish Kapoor, Daniel Buren e Ilya ed Emilia Kabakov. «La prima idea - racconta Huang Yong Ping, minuto e con gli occhiali - di questa installazione mi è venuta nel 2003, prima ancora che nascesse Monumenta. E conservo ancora lo schizzo che feci di una gru che solleva un container. I container sono il simbolo dei commerci e della globalizzazione che è il vero potere che oggi ci governa». E il Grand Palais gli è sembrato il luogo più adatto per una rappresentazione del potere. «Questo edificio è al centro di un’area dove ci sono i simboli di quello che fu l’impero francese», dice mentre disegna una piccola mappa su un quadernetto in cui indica l’Arco di Trionfo, Les Invalides, l’Eliseo, il Louvre e la Tour Eiffel. Simbolo dell’Impero e del potere è anche il cappello di Napoleone: «Sì e poi ho scoperto che a comprarlo all’asta è stato un collezionista sud coreano che in Cina chiamiamo il “re dei polli”: ha un piccolo impero nella commercializzazione del pollame». Perché il tema dell’Impero lo affascina? «Sono stato molto colpito dal saggio di Michael Hardt e Antonio Negri che analizza le varie facce della globalizzazione e come questa sia arrivata a creare un potere sovrannazionale che supera quello dei singoli Paesi. Ci ho ritrovato degli spunti di interpretazione marxista dell’esistente che oggi sembrano abbandonati». Il serpente rimanda alla mitologia cinese? «In parte sì, ma anche a una metafora di Deleuze, che mi aveva intrigato. Senza dimenticare un passo della Bibbia che dice: “Aronne gettò il bastone davanti al faraone e davanti ai suoi servi ed esso divenne un serpente”».
Huang Yong Ping nasce a Xiamen, nella regione del Fujian al Sud-Est della Cina. Dopo la rivoluzione culturale studia all’Accademia di Belle Arti ad Hangzhou. Diventa già allora famoso come leader di un movimento che si chiamava Xiamen Dada e la cui parola d’ordine era «Lo zen è Dada, Dada è Zen». Cosa significava? «Era un modo - spiega - per mettere in comunicazione la cultura orientale e quella occidentale, con un movimento che andasse dall’una all’altra e viceversa. Senza dimenticare però la dimensione politica dell’arte». Durante i fatti di piazza Tien An Men, nel 1989, Huang Yong Ping era a Parigi invitato a Les Macigiens de la Terre, la mitica kermesse che ha segnato l’arte contemporanea dell’ultimo trentennio. Rimase a Parigi, prendendo la cittadinanza francese. Tanto da rappresentare la Francia alla Biennale di Venezia del 1999, dove sollevò il tetto del padiglione d’Oltralpe con sette colonne che rappresentavano animali fantastici, sempre per «mescolare l’Oriente con l’Occidente e l’Occidente con l’Oriente». Tornò in Cina nel 2001 e alla Biennale di Shangai ricostruì un aereo in scala 1 a 1, mostrando il suo amore per le dimensioni che stravolgono il nostro rapporto con il reale. Hanno avuto modo di scoprirlo l’anno scorso i visitatori del Maxxi di Roma dove in Baton Serpent già era apparso lo scheletro di un serpente volteggiare nell’aria. «Mi piace - dice - creare con queste grandi dimensioni un certo tipo di rapporto diretto con il pubblico. Non mi piace però che il significato o la spiegazione delle opere siano univoci. Preferisco l’ambiguità e la molteplicità, anche se c’è il rischio di essere mal compresi o mal interpretati».
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