lunedì 30 maggio 2016

Il funerale della Repubblica, la festa di Repubblica. Eugenio Scalfari votò per il re, come sempre avrebbe poi fatto










Faccia a faccia tra Scalfari e RenziIl fondatore di “Repubblica” si confronterà con il premier 
Repubblica 29.5.16
 Nell’anno delle elezioni amministrative e del referendum costituzionale, La Repubblica delle Idee dedica alla politica uno spazio di ampio rilievo. Che culminerà con un confronto tra Eugenio Scalfari e Matteo Renzi. Si comincia venerdì 3 giugno con il Vaticano: “Dove va la Chiesa di Francesco?”. La rivoluzione di Bergoglio sarà l’oggetto del confronto tra Alberto Melloni, Antonio Spadaro e Marco Ansaldo. Il giorno successivo, Lirio Abbate ragionerà con Carlo Bonini e Filippo Ceccarelli sul degrado della capitale in un incontro intitolato: “Roma, capitale in scacco”. Ancora il 4 il Priore di Bose Enzo Bianchi e Antonio Gnoli dialogheranno sullo “Scandalo della misericordia”. Lunedì 6, lo spazio è per l’attualità, il primo turno delle amministrative sarà l’oggetto del talk show condotto da Laura Pertici: “Quanto conta il voto delle città?” con Mario Calabresi, Lucia Annunziata, Stefano Folli, Claudio Tito, Stefano Cappellini, Giovanni Orsina, Giovanna Vitale e Luigi Vicinanza. La capitale e “il governo di Roma” tornano al centro del dibattito il 7 giugno, quando Stefano Cappellini e Filippo Ceccarelli intervisteranno Francesco Paolo Tronca, commissario prefettizio del Comune di Roma. “Corruzione, il male italiano” è uno dei temi della giornata successiva: il politologo Ilvo Diamanti e il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone dialogheranno con il vicedirettore di Repubblica Gianluca Di Feo. Lo stesso giorno il sindaco di Milano Giuliano Pisapia sarà intervistato dal vicedirettore di Repubblica Dario Cresto- Dina e da Roberto Rho sul “Modello Milano”. Il 9 Michele Prestipino, procuratore aggiunto di Roma, si confronterà con Attilio Bolzoni e Conchita Sannino sullo “Stato delle mafie”. Chiude la serie sabato 11 giugno il faccia a faccia tra il fondatore di Repubblica Scalfari e il premier Renzi con Claudio Tito.


Eugenio Scalfari, ventiduenne, scelse la monarchia
“Non mi fidavo della Democrazia cristiana Il mio amico Calvino si schierò invece per la repubblica. Non ci scrivemmo più”
E ancora. Da Andrea Camilleri a Dacia Maraini, Da Ermanno Rea a Lia Levi il ricordo dei ragazzi e delle ragazze del ’46 “In casa litigavo con mio padre. Per strada dovevano scortarci i carabinieri”
Perché votai per il re 
ROMA «PERCHÉ HO VOTATO per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano ». Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d’Italia ma anche la sua storia personale, l’ingresso nell’età adulta che l’avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s’abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.
Così il futuro fondatore di “Repubblica” scelse la monarchia.
«Croce era convinto che l’istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l’Italia era “il giardino del Vaticano».
Temevate l’egemonia scudocrociata?
«Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l’ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare».
Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
«No, più semplicemente si era esaurita l’intimità adolescenziale».
«ERAVAMO ORMAI DUE PERSONE adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi ».
È per questo che poi avresti trovato un’intesa
con papa Francesco?
«Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l’ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. “Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia”, mi ha detto sorridente. “Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri”. “Beh, il minimo che potesse capitare”».
Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
«Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi».
Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
«Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica».
Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
«In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C’era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare».
Hai mai creduto all’ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
«Mah, il sospetto fu smentito con prove».
Un “miracolo della ragione”, così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
«Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell’inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista».
Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
«Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti».
Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com’era l’Italia del dopoguerra?
«Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l’apertura di case da gioco. L’organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. “Sei matto?”. Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant».
Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant’anni?
«Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti».
Il simbolo più alto del riformismo italiano.
Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
«Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte — la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli — ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci».
Poi quella stagione riformista tramontò.
Qual è stata l’altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
«La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l’indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell’Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte ».
Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici — Segni e Leone — o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l’attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
«A Pertini mi legava un’amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l’abitudine di fare la prima colazione insieme. E l’amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi “sassolini dalla scarpa”. Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. “Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta”. E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile».
E il rapporto con Giorgio Napolitano?
«Nel corso della sua presidenza l’ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c’è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d’accordo su tutto: sull’attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi».
Direttore, un’ultima domanda azzardata.
Ma non è che nella scelta del nome di “Repubblica” per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent’anni prima?
«Ma no, me l’ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo».
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Quando l’Italia diventò di tutti 
UMBERTO GENTILONI Restampa 
IL CERTIFICATO DI NASCITA DELLA REPUBBLICA ITALIANA porta un segno, un tratto costitutivo: la partecipazione collettiva ai processi decisionali e il conseguente allargamento delle basi dello Stato. È da questo tornante che i caratteri della nostra democrazia si definiscono e si affermano nell’itinerario difficile del dopoguerra. Ci appare oggi un dato acquisito e condiviso eppure non è stato così allora. Allargare le basi significava invertire una direzione di marcia, cambiare rotta, cercare forme e strategie per far poggiare l’architettura istituzionale su una base solida, ampia, diffusa. Sono le strategie di una nuova cittadinanza che si afferma progressivamente e che ha due cardini di riferimento: il riconoscimento del diritto di voto per tutti e tutte e la definizione di un orizzonte possibile, quello di una democrazia inclusiva rafforzata dal potenziale coinvolgimento di nuovi settori della società.
Si chiude così la lunga parabola di un percorso che aveva le sue premesse nei caratteri prevalenti del processo di nazionalizzazione e nei passaggi chiave della riunificazione geografica e politica della penisola: élite più o meno illuminate che guidano i processi storici espressione di una classe dirigente con un perimetro di appartenenze e compatibilità ben delineato. Si è discusso molto se il 2 giugno rappresentasse il punto di arrivo della crisi che porta il paese fuori dal fascismo e dalla guerra o il primo passo di un nuovo possibile cammino. Questa seconda chiave di lettura appare oggi più forte e vicina. I cittadini elettori sono i nuovi italiani, o comunque aspirano a poter entrare nell’agone di una democrazia partecipata, fondata su soggetti radicati e di massa (i partiti), segnata da un progressivo cammino di avvicinamento e coinvolgimento di chi è fuori dal recinto, escluso, ai margini di quel nuovo itinerario.
Una scelta coraggiosa, un segno indelebile nato nel cuore del secondo conflitto mondiale per proiettare una ritrovata comunità nazionale nelle sfide del nuovo mondo. Un paese intero chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica eleggendo contestualmente un’assemblea costituente con l’obiettivo ambizioso di una nuova carta costituzionale. Il mondo osserva, col fiato sospeso; i principali alleati che avevano condotto la guerra sul suolo della penisola socializzano ansie e segnali di allerta. Come sarà la prova degli italiani e delle italiane in fila ai seggi? Quali i rischi per l’ordine pubblico? Un vero inizio poteva avvenire solo se lo scettro della decisione si fosse davvero abbassato verso il popolo incontrando aspiranti cittadini pronti a lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e le terribili contraddizioni del ventennio. Non un passaggio scontato o neutrale, i fili di continuità nelle carriere e negli antichi vizi avranno in molti casi la meglio sulle spinte al cambiamento. Ma la svolta avviene in modo inequivocabile con l’esordio della democrazia di massa. La repubblica si afferma con oltre il 54 per cento dei voti (dodici milioni e settecentomila votanti), mentre la monarchia raccoglie il 45,72 per cento dei consensi (dieci milioni e settecentomila schede). Il paese è ancora diviso, al sud la continuità dinastica prevale. Ma si può voltare pagina. Ne scrive a caldo un lucido protagonista come Piero Calamandrei commentando quel giorno di settant’anni fa: «La Repubblica italiana: non più un sogno romantico di cospiratori, un’immagine epica di poeti; non più una bandiera di ribellione e d’insurrezione. La Repubblica italiana: una realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della costituzione».
( L’autore è docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma)
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Un miracolo della ragione
Una Repubblica destinata a durare nei secoli, secondo Calamandrei. Ma civismo, valori e ideali non si sono radicati di Emilio Gentile Il Sole Domenica 29.5.16
La repubblica italiana compie settanta anni il 2 giugno 2016. Il 9 giugno 1946, sette giorni dopo il referendum con il quale la maggioranza degli elettori italiani, uomini e donne, aveva deciso la fine della monarchia, Piero Calamandrei affermò: «Una Repubblica nata così è destinata a durare nei secoli». La nascita della repubblica in Italia appariva al grande giurista un «miracolo della ragione», il miracolo, cioè, di una «realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della Costituzione».
Nonostante un ventennio di regime totalitario legittimato dalla monarchia, seguito da cinque anni di disastroso coinvolgimento dell’Italia in una guerra mondiale, con gli ultimi due anni insanguinati da una spietata guerra civile fra italiani politicamente divisi in due Stati nemici, alleati, su fronti opposti, con eserciti invasori che si combattevano ferocemente nella penisola coprendola di cadaveri e di rovine – il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale il popolo italiano attuò pacificamente una rivoluzione democratica. «Mai nella storia è avvenuto né mai ancora avverrà, che una Repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re», affermò Calamandrei.
La campagna elettorale fra i partiti fautori della repubblica o della monarchia suscitò una appassionata partecipazione popolare, ed ebbe toni accesi e minacciosi: con la scelta della repubblica ci sarebbero stati salti nel buio o dispotismo comunista; con la scelta della monarchia ci sarebbero stati colpi di Stato reazionari o insurrezioni armate. A fomentare la polemica sopravvenne il 9 maggio l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, con l’intento di favorire così la causa monarchica dissociandola dalle colpe del sovrano compromesso col fascismo. Tuttavia, la rottura della “tregua istituzionale” non fu drammatizzata dal governo dei partiti antifascisti presieduto da Alcide De Gasperi, e non mise in pericolo il pacifico svolgimento delle elezioni. Dalle province i prefetti comunicarono che le votazioni si erano svolte «nella massima calma e serenità». I commenti della stampa, sia repubblicana sia monarchica, lo confermarono: «Le votazioni si sono svolte nel più perfetto ordine e nella più perfetta legalità», scrisse il 4 giugno il giornale monarchico «Italia nuova».
Il referendum fu la più ampia votazione democratica fino allora attuata nella storia dell’Italia unita. 28.005.409 di elettori e di elettrici, pari al 67,1% della popolazione complessiva, si recarono alla urne per scegliere la forma di Stato e per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente. Nelle ultime elezioni libere, che si erano svolte in Italia nel 1921, gli elettori, allora solo maschi, erano stati 11.477.210 (il 28,7% della popolazione). Inoltre, nel referendum del 2 giugno la percentuale dei votanti fu dell’89,1%, rispetto al 58,4 del 1921.
Le partecipazione elettorale, per le sue dimensioni, fu l’evento decisivo della pacifica rivoluzione democratica che diede vita allo Stato repubblicano. L’altro evento radicalmente innovativo fu la partecipazione al voto delle donne, alle quali per la prima volta nella storia italiana era riconosciuto il diritto elettorale attivo e passivo. Le donne votanti furono 1.216.241 in più degli uomini, smentendo così quanti avevano previsto, sperato o paventato, un ampio astensionismo delle elettrici. Furono 21 le donne elette all’Assemblea costituente, su un totale di 556 eletti. Prima del 2 giugno, le donne avevano già partecipato, fra marzo e aprile, alle elezioni amministrative in 5.722 comuni, dove il numero delle votanti (8.441.537) era stato già superiore al numero degli uomini (7.862.743). Più di 2000 donne furono elette nei consigli comunali.
La repubblica fu generata in Italia da uomini e donne in parità di cittadinanza. Dalle urne, uscirono 12.718.000 voti per la repubblica e 10.719mila per la monarchia. Il tentativo dei monarchici e dello stesso re Umberto di invalidare il risultato elettorale provocò dimostrazioni e scontri violenti – ci furono cinque morti a Napoli – ma il 13 giugno il re, dichiarando di voler evitare una guerra civile, partì per l’esilio. L’elezione del monarchico Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano, votato dall’Assemblea costituente il 28 giugno 1946, valse a disinnescare il pericolo di nuovi scontri fra monarchici e repubblicani. I partiti monarchici che nacquero dopo la fine della monarchia operarono nel parlamento repubblicano per alcuni decenni, prima di estinguersi definitivamente.
A settanta anni dalla fine della monarchia, nessun pretendente al trono che fu dei Savoia insidia la repubblica italiana; tuttavia, nessuno può sapere se durerà nei secoli. La repubblica nata il 2 giugno non ha creato una propria tradizione di valori e di ideali, con salde radici nella coscienza del popolo italiano. Neppure la giornata della sua nascita è divenuta una festa nazionale collettivamente sentita e partecipata, come è il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Addirittura nel 1977 la festa nazionale del 2 giugno fu abolita di fatto, per essere ripristinata soltanto nel 2000, senza però iniettare nel popolo italiano la vitalità del civismo repubblicano.
A settanta anni la repubblica nata il 2 giugno 1946 non gode in effetti una buona salute. Anzi, secondo talune formule coniate negli ultimi tre decenni dalla pubblicistica politica, e assurte forse frettolosamente a categorie storiografiche, la repubblica istituita settanta anni fa è deceduta nel 1992, trapassando alla storia come la Prima repubblica. Nel ventennio successivo, c’è stata una Seconda repubblica, che a sua volta è ora in agonia o prossima al decesso, mentre sembra che proprio nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita della Prima repubblica, stia per nascere una Terza repubblica. Questa sequela di repubbliche rivela l’esistenza di un male costante che da mezzo secolo almeno affligge lo Stato repubblicano italiano, esplodendo periodicamente in forme gravi. Per guarire la repubblica italiana dal suo male attuale, è forse necessario un altro «miracolo della ragione». Ma nessun miracolo potrà mai avvenire, senza l’intervento del popolo sovrano, che sappia però comportarsi da sovrano repubblicano.

2 giugno 1946 - 2 giugno 2016 / 3 La zona grigia nel nuovo Stato
di Raffaele Liucci Il Sole 29.5.16
Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta.
Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste. Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine. Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.
Carlo Greppi, Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile , Feltrinelli, Milano, pagg. 380, € 20

2 giugno 1946 - 2 giugno 2016 / 2 Le due facce di un referendum
di Gennaro Sangiuliano Il Sole Domenica 29.
I francesi parlano di «République», sintesi estrema del loro spirito nazionale, i tedeschi dal dopoguerra in poi hanno sostituito la parola «Reich» (Stato) con quella di «bundesrepublik», indicativa del nuovo corso democratico e federale, i britannici, fedeli alla monarchia, si sentono ancora «United Kingdom», il Regno Unito. In Italia solo in anni molto recenti il lessico politico ha cominciato ad adoperare la parola «Repubblica», come capace di racchiudere i sentimenti culturali e costituzionali della nazione. Per molto tempo si è preferito adoperare la definizione debole di “Paese” se non addirittura quella di “società”.
Si è cominciato a parlare di spirito repubblicano grazie soprattutto all’impegno dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che ne indicò il valore dei simboli. Per molti decenni, nel lungo dopoguerra, in un’Italia che pure cresceva economicamente, la Repubblica è rimasta sospesa, espressa nei decreti ufficiali ma venerata solo dai piccoli partiti laici (Pri e liberali) e da alcune grandi individualità, a cominciare da Einaudi e De Gasperi. Per il resto, i due grandi partiti chiesa in cui l’Italia si divideva, Dc e Pci, apparivano orientati a esaltare visioni non unificanti, da una parte una concezione clerico-confessionale della politica, dall’altra addirittura una visione che indicava nell’Urss la patria globale di tutti i comunisti a cui tendere. Bisognerà attendere gli anni Settanta quando Enrico Berlinguer comincerà a lavorare ad un’elaborazione nazionale del comunismo.
Del resto la Repubblica nasce in una fase delicata, alla fine di una rovinosa guerra in cui il fascismo aveva trascinato l’Italia, e mostra subito il connotato dell’incertezza. «La Repubblica non entra nella storia d’Italia», scrive Gianni Oliva, «con le piazze in festa e i nuovi tricolori esposti ai balconi: entra defilata, con un comunicato sobrio del Governo e con la polizia a presidio delle città del Sud; entra senza enfasi, dopo dieci giorni di tentennamenti, di bizantinismi giuridici, di ricorsi e di schermaglie politiche; entra esitante, con il peso delle vie di Napoli insanguinate da una dozzina di giovani morti». Lo storico Gianni Oliva ricostruisce con un saggio, ricco di particolari, le giornate di quel giugno di settant’anni fa che portarono alla nascita della Repubblica Italiana, i momenti in cui termina la monarchia sabauda ed ha inizio la vicenda repubblicana. Lo fa mettendo in sequenza i fatti rispetto ai quali l’esito finale fu a lungo in dubbio.
Il referendum si svolge senza incidenti, con i cittadini disciplinatamente in coda davanti ai seggi: «Quasi venticinque milioni di votanti, il 90% degli aventi diritto, dopo un mese di campagna elettorale che ha animato la Nazione villaggio per villaggio, arrivando con i manifesti e con i comizi anche nelle aree più remote: e tra gli elettori tredici milioni di donne, alle quali per la prima volta viene riconosciuto il diritto di voto».
L’entusiasmo della vasta partecipazione cede, però, presto il passo all’angoscia degli scrutini. Lo spoglio è lentissimo e fa registrare risultati sensibilmente diversi da quelli attesi. Si era pronosticata una travolgente vittoria repubblicana, perché quasi tutti i partiti antifascisti si erano attestati su quella indicazione, ma nei fatti la scelta della Repubblica fa fatica e il Paese è nettamente spaccato in due. La monarchia ottiene un voto trasversale, molti democristiani e addirittura comunisti. Anche le potenze vincitrici sono divise: gli inglesi per la monarchia, gli americani per la repubblica. Ad aumentare la tensione c’è l’afflusso difficile dei dati, la guerra al Nord ha distrutto linee telegrafiche e telefoniche, per cui arrivano prima i risultati del Meridione, dove la vittoria monarchica è schiacciante. Alcuni quotidiani del Mezzogiorno si sbilanciano e il giorno 4 annunciano la vittoria sabauda, lo stesso presidente del Consiglio De Gasperi ritiene che il Re ce l’abbia fatta. L’esito, però, si definisce nel corso della notte tra il 4 e il 5, quando affluiscono tutti i dati del Nord: alla fine, 54 per cento alla repubblica e 46 per cento alla monarchia, 12 milioni e 700mila voti contro poco meno di 11 milioni, come annuncia alla stampa il ministro dell’Interno Giuseppe Romita la sera del 5 giugno. «La comunicazione non è definitiva, perché la proclamazione del risultato spetta alla Suprema Corte di Cassazione, ma sufficiente a creare turbamenti: il “ribaltone” è un calice amaro, serpeggiano le prime voci di brogli, si accusa il Governo di aver manipolato i dati, nasce la leggenda metropolitana di Romita che avrebbe nascosto nei cassetti del Viminale un milione di schede prevotate per la repubblica», scrive Oliva.
Nello scontro si inserisce l’ambiguità del decreto luogotenenziale istitutivo del referendum, nel quale si parla di vittoria per chi ottiene «la maggioranza degli elettori votanti». Ma cosa si deve intendere per «elettori votanti»? Dal momento che il Governo non ha fornito dati su schede bianche o nulle, il 54 per cento della Repubblica deve intendersi calcolato sul totale dei voti validi o sul totale dei votanti? La nebulosità della norma crea una questione giuridica che si presta a diventare un “caso” imbarazzante. La Repubblica ha vinto, questo è evidente, ma non ha stravinto. La politica è troppo debole per assumere una decisione e delega la risposta alla magistratura; ma la Corte di Cassazione è altrettanto debole e si rifugia nel rinvio. Scrive in quelle ore Vittorio Gorresio, allora capocronista del “Risorgimento liberale” di Mario Pannunzio: «La folla in piazza Montecitorio chiedeva la bandiera, ma non ne fu esposta nessuna perché non si sapeva quale».
Nella città più monarchica d’Italia, Napoli, dove per il Re ha votato l’80% della popolazione, si formano assembramenti, si contesta il Governo, si grida alla truffa. Altri episodi di contestazione scattano in altre città del Meridione. Ci saranno vittime. Una parte dei militari fa pressioni sul Re e si dichiara pronta al golpe. Ma Umberto ribadisce la sua fedeltà istituzionale e toglie d’impaccio la politica decidendosi per l’esilio. Tutti gli renderanno merito del comportamento responsabile, anche avversari forti come Ferruccio Parri e Palmiro Togliatti. Quello del giugno ’46 fu un passaggio arduo. Per Oliva il «rischio della guerra civile e della spaccatura tra un Centro-Nord repubblicano e un Sud monarchico» fu reale, perché «i morti di Napoli avrebbero potuto innescare una spirale di violenza fuori controllo e trascinare il Paese nel caos».
Anche per questo l’Italia dovrebbe esaltare con maggiore coesione lo spirito repubblicano, cornice unificante, idem sentire, che vada olt re le legittime divisioni della politica.

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