lunedì 23 maggio 2016

Il revisionismo storico sobilla l'islamofobia e ripulisce la coscienza dell'Occidente

Islam e schiavitù intrecciati da 1400 anni

Solo il 2% degli schiavi è stato razziato da negrieri occidentali. La tratta iniziò già nel VII secolo per toccare l’apogeo con gli Ottomani. Ma anche oggi in Mauritania i neri sono asserviti agli arabi

Libero 22 May 2016 SIMONEPALIAGA GORIZIA RIPRODUZIONE RISERVATA
«Sono i bidanes, i bianchi, a controllare la vita sociale e commerciale in Mauritania e a imporre la loro scelte sugli haratin che vivono, pur essendo la maggioranza nel Paese, in una condizione di pesante asservimento», sostiene Yacoub Diarra, militante per i diritti civili e presidente dell’IRA MauritaniaItalia, vale a dire l’«Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista», ospite al Festival èStoria di Gorizia intitolato quest’anno «Schiavi». Fin qui nessuno aggrotterebbe le sopracciglia. Eppure la sorpresa arriva quando Diarra spiega, nel suo intervento, che i bidanes sono i discendenti degli arabi e delle tribù berbere che hanno preso il controllo della Mauritania a partire dalla fine del X secolo, mentre gli haratin sono gli eredi dei wolof, soninke, bambara, pular, le popolazioni indigene finite sotto il giogo degli arabi.
Peccato che col passare dei secoli la situazione non sia cambiata, visto che solo nel 2007 è stata promulgata l’ennesima legge intenzionata a abolire la schiavitù. Fino a nove anni fa, dagli inizi del Novecento, si era già provato più volte a farlo, ma invano. Ora comunque, malgrado la nuova legge, a parere di Diarra la situazione non sembra migliorata. «I mori bianchi fanno profitto, i mori neri sono manodopera», assicura. Si calcola che, su «tre milioni e mezzo di abitanti, siano almeno 700 mila le persone costrette a vivere, del tutto o in parte, alle dipendenze di un padrone. Sono chiamati gli schiavi neri e nell’insieme costituiscono la metà della popolazione mauritana».
Nello Stato africano esistono almeno tre forme di schiavitù: «Una schiavitù domestica», spiega Diarra, «legata al lavoro non retribuito presso le case e le dipendenze dei padroni; una schiavitù minorile, esercitata attraverso lo sfruttamento di minori figli di schiavi, costretti a separarsi dalla famiglia e impiegati come schiavi per discendenza; e una schiavitù rurale, legata all’esercizio del lavoro agricolo e pastorale in regime di evidente e grave discriminazione e sottomissione».
Dura sicuramente da scardinare questa situazione perché il potere dei bidanes si sostiene su un sistema clientelare che favorisce gli arabo-berberi in tutti i settori dell’economia nazionale: dall’estrazione mineraria, alla pesca, ai servizi. Più del 90% dei portuali e dei domestici è haratin, come l’80% della popolazione analfabeta. Eppure, ancora nel 2013, solo 5 su 95 seggi dell’Assemblea Nazionale erano occupati da questo gruppo nazionale.
Non è una novità, comunque, lo schiavismo nel mondo arabo e islamico, se si pensa che, secondo una stima degli storici, tra il VII e il XX secolo
sono stati tra i 10 e i 18 milioni gli schiavi commerciati nel mondo arabo. Sempre a èStoria, ieri è intervenuto Olivier Pétré-Grenouilleau, storico francese autore de La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (il Mulino, pp. 472, euro 14). Il suo lavoro, da noi passato sotto silenzio, alla sua apparizione in Francia ha invece costretto lo storico a difendersi in tribunale. A scandalizzare i benpensanti e i corifei del politicamente corretto erano delle verità storiche spesso minimizzate dai media. Difficile accettare, negli anni del buonismo, che le tracce iniziali della tratta degli schiavi «risalgono alla prima espansione dell’islam, nel secolo VII, anche se il problema delle origini più lontane della tratta, in Africa nera, resta misterioso». Per lo storico francese dei milioni di schiavi commerciati «soltanto il 2% circa fu direttamente razziato dai negrieri occidentali, mentre il 98% dei prigionieri era dunque acquistato da venditori africani». E una buona parte passava dalle mani dei commercianti arabi, il più famoso dei quali, Tipu Tip, morì appena nel 1905.
Ma ci troviamo già al tempo dell’Impero ottomano dove «si realizzava», a parere invece di Ehud Toledano, direttore del Dipartimento di studi turchi e ottomani dell’Università di Tel Aviv e anche lui ospite ieri a Gorizia, «al meglio l’integrazione della tratta e della schiavitù in seno all’economia, alla società e alla cultura», per quanto una volta liberati gli schiavi potessero pure aspirare a diventare vizir. «Tutto era invece differente in Europa», continua Toledano, «dove gli armatori negrieri, che non erano certo una folla, si occupavano soltanto della conduzione dei prigionieri in lontane colonie tropicali».
E ora la situazione peggiora con l’affermarsi del sedicente califfato dell’Isis, che «con la decisione di riportare in vita, ostentandola con orgoglio, l’efferata pratica della schiavitù respinge un millennio di sforzi esegetici per adattare gli insegnamenti del Corano e della vita del Profeta all’evolversi della realtà sociale».

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