sabato 28 maggio 2016
La Voce del Padrone chiama, la Teologia Politica risponde
Dopo aver tanto sbraitato affinché dove si decidono le cose qualcuno
lo stesse ancora a sentire, Massimo Cacciari obbedisce alla Voce del Padrone
come sempre ha fatto.
Un padrone che è Confindustria e non certo Renzi.
Un uomo la cui filosofia servile ha da sempre il marchio dell'astuzia
capitalistica, un uomo che ha giustificato a priori e teorizzato a
posteriori ogni sopruso di classe, non può che prendere decisioni coerenti con il sovversivismo delle classi dirigenti.
Una domanda superflua sorge spontanea: come voterà il sen. prof. Mario Tronti, Spirito Prono?
Questa è la sinistra intellettuale italiana, non troppo diversa da quella politica. [SGA].
«Perché sono sempre arrabbiato? Sentite qui»
«La Ue ha deluso ma l’Onu è peggio. I populisti sono tragici ma li capisco. La riforma Boschi non mi piace ma devo votarla»
Libero 6 Jun 2016 PIETRO SENALDI
Professor Cacciari, i festeggiamenti per i 70 anni della Repubblica sono passati un po’ in sordina…
«Forse perché non ci sono molti motivi per festeggiare, e fuor di retorica, l’atmosfera pesante la respirano tutti. Comunque, anche questo 2 giugno è stata un’occasione persa: certe ricorrenze andrebbero sfruttate come occasioni per favorire l’approfondimento e la riflessione su dove stiamo andando e non per dar fiato ai tromboni della retorica nazionale, come invece avviene unicamente».
La Repubblica è così in cattivo stato?
«Tutti gli Stati occidentali godono di pessima salute. È un’ottica miope concentrarsi solo sui nostri guai nazionali. Tutte le democrazie europee sono a rischio, perché non sono più rappresentative dei bisogni, delle idee e degli stati d’animo dei popoli».
Quali sono i nemici delle democrazie occidentali: l’islam, la Russia, la Cina?
«Chi pensa questo ragiona con schemi vecchi. I nemici sono lo strapotere dell’economia e della scienza, mondi ingovernabili dalla politica e per loro natura profondamente antidemocratici. La finanza e la scienza muovono denaro e potere e hanno messo in ginocchio gli Stati Nazione a sovranità illimitata, che sono ormai dei ruderi della modernità». La salvezza può l’Europa? «Questa era la grande idea e la speranza di tutti noi: per governare lo strapotere di economia e scienza servono delle potenze politiche “imperiali”. Oggi però è più probabile che l’Europa fallisca piuttosto che mantenga le promesse».
Cosa impedisce all’Europa di diventare una, forte e compatta?
«Innanzi tutto l’egoismo dei singoli Stati, che non sono disposti a rinunciare alla loro sovranità nazionale e portano nel consesso europeo unicamente i loro interessi particolari. E poi l’esplosione di due fenomeni imprevedibili, la più grande e lunga crisi economica mondiale degli ultimi sessant’anni e un’ondata migratoria potentissima e incontrollabile». Partiamo dall’economia… «Bisogna dirsi la verità. Eravamo tutti europeisti, e noi italiani per primi, non per ragioni filosofiche, per slanci emotivi, desiderio di fratellanza o profonde visioni strategiche ma perché confidavamo che l’Europa ci facesse stare meglio, economicamente e come qualità della vita». E invece… «Invece una folle gestione della crisi, unicamente votata al dogma tedesco dell’austerità, ha aggravato la situazione economica e allontanato i cittadini dalle istituzioni, suscitando un diffuso sentimento di sfiducia verso l’Ue e adesso riparare al danno è impresa proibitiva. Anziché irrigidirci e ancorarci al pilastro della stabilità avremmo dovuto fare come Obama, che ha investito in opere pubbliche».
L’esplodere dei populismi è un fenomeno congiunturale di protesta o rivela un cambiamento strutturale della società europea?
«È al 90% una risposta di protesta alle inadeguatezze dell’Europa e dei partiti che la sostengono. Ma non è un fenomeno congiunturale, è strutturale, sintomo di un disagio sociale e di una delusione radicati. E non si faccia l’errore di dire che sono fenomeni di destra, così si possono criminalizzare meglio e minimizzare. La protesta viene anche da sinistra, pensiamo a Grillo, Podemos, i verdi che hanno vinto in Austria: tutti con il medesimo denominatore, essere forze anti-sistema».
Come andrà il referendum del 23 giugno sull’uscita della Gran Bretagna dalla Ue?
«L’uscita della Gran Bretagna dall’Europa darebbe il via a un processo di disgregazione difficilmente arginabile: immigrazione, difesa dei confini, mancato sviluppo economico, fragilità bancarie, divisione militare. Sono tanti i fattori di entropia in cui versa l’Europa. Solo Draghi sembra avere in testa un progetto unitario, ma è solo e sta già facendo dei miracoli».
E siamo arrivati all’immigrazione, il secondo grande fattore imprevedibile di disgregazione…
«Qui l’errore è cadere nella demagogia e pretendere di trovare risposte semplici a problemi complessi. Siamo di fronte a un fenomeno che interessa centinaia di milioni di persone e litighiamo sul numero di hot spot da aprire e su quanto sforare dai parametri e riempiamo di denaro uno Stato equivoco come la Turchia per bloccare l’invasione, un po’ come provare a svuotare il mare con il cucchiaino».
L’Italia è sola ad affrontare l’invasione, abbandonata dall’Europa…
«Sì, ma anche l’Europa è abbandonata. L’immigrazione è un fenomeno mondiale e la sua esplosione evidenzia l’inadeguatezza degli organismi internazionali, Onu in testa. Ha ragione il cardinale Scola, che nei suoi “Dialoghi sulla vita buona” aveva già iniziato a ragionare sul problema: serve un piano Marshall planetario ma gli organismi politici mondiali sono fallimentari, funzionano solo quelli economici, il Fondo Monetario e il Wto, e solo in senso ultraliberista e anti-solidale».
L’integrazione però è difficile, specie con la comunità islamica…
«E ci credo, ma molti guai ce li siamo cercati. Trent’anni fa, ai tempi della prima migrazione islamica in Europa, c’era un altro spirito, c’era la speranza di una Ue mediterranea. Poi sono arrivate le bombe e le guerre».
Ma l’Occidente in Medio Oriente ha combattuto dei regimi sanguinari, delle teocrazie che violavano i diritti umani più essenziali…
«In Libia ci siamo andati solo per inseguire gli interessi economici della Francia. Le Primavere arabe sono state un tentativo di modernizzazione che l’Occidente non ha saputo gestire e alla fine si sono rivelate controproducenti. In Egitto trent’anni fa non c’era una sola donna con il velo, e neppure in Siria. L’Isis è nato sulle ceneri dell’Iraq di Saddam, che era laico. Le guerre hanno rafforzato i meccanismi identitari dell’islam e hanno radicalizzato le sue componenti estremiste».
Ma ora che il danno è fatto cosa suggerisce?
«Con la comunità islamica non ci sono solo differenze religiose ma culturali. Molti islamici non hanno intenzione di integrarsi. Ma siccome le leggi della demografia sono scientifiche e dicono che nel giro di una generazione il 20% degli europei saranno islamici, credo che sia indifferibile porsi il problema dell’integrazione». E come si fa? «Non dobbiamo coltivare la velleità di occidentalizzarli e renderli come noi. L’obiettivo è quello della prossimità, avvicinarli il più possibile al nostro mondo culturale e al nostro sistema di vita. Certo, costa: vanno finanziati programmi culturali, corsi scolastici, iniziative comuni, ma senza investimenti non si hanno risultati».
Pensa veramente che questo possa accadere?
«Nella storia nulla è più irrazionale di ritenere che possa accadere qualcosa secondo logica e razionalità. Se i fenomeni non si governano, qualcosa comunque accade. Il mio maestro Severino sostiene che presto o tardi diventeremo tutti identici, prevarrà la globalizzazione e saremo tutti parte di un’unica marmellata planetaria. Per conto mio, credo che se si lascia tutto al caso non si sa dove si finisce e non è detto che l’epilogo sia positivo».
Guardiamo all’Italia: ha ragione chi grida al pericolo di un regime?
«Lo ritengo assurdo: i regimi ormai sono irrealizzabili, proprio perché lo Stato Nazione del Novecento che li ha favoriti non esiste più. E poi Renzi non ha la stoffa per creare un regime».
Però il renzismo è molto ostinato nell’occupazione del potere…
«E quale politico non lo è? Tutti cercano di estendere al massimo il proprio potere».
La riforma Boschi sembra funzionale allo scopo…
«A mio avviso è una riforma deludente. Certo rafforza i poteri dell’esecutivo, e ce n’era bisogno, ma non è una riforma di sistema bensì solo di governo, tant’è che resta perfino il Senato, anche se con meno poteri e meno sovrapposizioni con la Camera. Manca il quadro generale, e poi viene massacrata ogni autonomia. I sindaci non conteranno più nulla, e neppure le Regioni, malgrado il cosiddetto Senato delle Regioni». Perché questa scelta? «Perché Renzi, come Berlusconi prima di lui e come tutta la sinistra, è profondamente centralista. Guardava a Roma già quando faceva il sindaco di Firenze». Il federalismo però ha fallito… «Non ha fallito, non è mai stato tentato. Neppure la Lega è mai stata federalista; è stata piuttosto secessionista, ma in un tempo breve e lontano».
E allora se la riforma non le piace, perché ha annunciato che al referendum voterà «sì»?
«E cosa dovrei fare? Non penserà mica che Renzi si ritirerà davvero se perderà il referendum? È un politico, ha una forsennata volontà di potere, resterà in campo». E quindi cosa farà? «Andrà da Mattarella, otterrà lo scioglimento delle Camere, imposterà una durissima campagna elettorale contro chi si oppone al cambiamento e otterrà il 60% dei voti. Con i quali governerà molto a lungo». E la sinistra si spaccherà? «Più spaccata di così…». Quindi non sta dicendo la verità? «Quella del referendum per Renzi è un’opzione “win to win”: non può perdere. Se l’è studiata a lungo, la personalizzazione così marcata forse è stata uno sbaglio di cui si è pentito, perché in caso di sconfitta al referendum il suo percorso diventa tortuoso e non privo di insidie e possibili incidenti ma non si rivelerà un errore decisivo».
Il feeling del premier con gli italiani però si è un po’ appannato…
«Per forza. Non sono più i tempi di Andreotti del potere che logora chi non ce l’ha. Ai tempi c’era la Dc, che era un potere unico ma intercambiabile, e per questo duraturo. La Prima Repubblica democristiana era un capolavoro politico. Oggi, con la personalizzazione del potere, il leader è destinato a stancare, è successo anche a Berlusconi. La democrazia non funziona senza partiti ma i leader non tengono più conto di questo e finiscono per rimanere vittime della loro bramosia di potere. È una legge della fisica». Come una legge della fisica? «Certo. Il potere tende a cercare un equilibrio statico che lo stabilizzi e gli permetta di accentrarsi. Ma in realtà il potere è forte e duraturo solo e è diffuso, è l’elasticità a garantire resistenza. Purtroppo però per il modello di potere diffuso servono delle élite consapevoli e desiderose di guidare il popolo. Ma oggi non ci sono più, ora la classe dirigente tende a identificarsi con il popolo e il risultato è il disastro a cui assistiamo. Nessuno dei miei migliori studenti è attratto dalla politica mentre nell’Assemblea Costituente, in un’Italia quasi analfabeta, c’erano più laureati di quanti non ce ne siano oggi in Parlamento. Non si può pernsare di non pagare il prezzo di tutto questo».
Il filosofo, ex deputato e
sindaco, fa autocriticia: "Anche noi volevamo dare più potere
decisionale alla democrazia, il Pci frenò". "Ora Renzi fa un errore
capitale se personalizza il confronto"
di EZIO MAURO Restampa 28 5 2016
Il filosofo, dopo aver insultato mezzo Pd, promuove la riforma: "Una svolta" Paolo Bracalini - Giornale Sab, 28/05/2016
Il nuovo presidente Boccia sostiene le riforme di Renzi e il superamento del bicameralismo
Paolo Baroni La Stampa 27.5.16
Confindustria appoggia le riforme, e rivendica con orgoglio la paternità
del superamento del bicameralismo, dice ai sindacati che lo scambio
salario/produttività è l’unica via per riformare i contratti ed al
governo chiedere di spostare il peso del Fisco sui consumi abbassandolo
su lavoro e imprese per aiutare la ripresa. Finito il semestre bianco
che precede ogni cambio di presidenza Confindustria torna a farsi
sentire e la prima mossa è tutta politica. L’occasione è quella
dell’assemblea annuale dell’associazione, gran parata romana di
imprenditori, uomini di governo (tra cui 7 i ministri), banchieri,
politici e sindacalisti, evento quest’anno reso ancor più solenne dalla
presenza del Capo dello Stato.
Per Vincenzo Boccia, fresco di nomina,
emozionatissimo per il debutto e per la presenza del padre Orazio,
fondatore delle arti Grafiche Boccia, quella di ieri era la prima uscita
ufficiale e subito il neo presidente ha messo in chiaro come intende
guidare Confindustria: che vuole «no partisan», «equidistante dai
partiti ma non dalla politica» e con una gestione di tipo collegiale.
Proprio per questo la prima decisione operativa è quella di aspettare il
Consiglio generale per ufficializzare la posizione sul referendum. Si
riunirà il 23 giugno, uan data scelta apposta per non interferire coi
ballottaggi delle amministrative anche se poi il sì al referendum è
quasi scontato.
Strada obbligata
Per Confindustria, infatti, le riforme
sono «una strada obbligata». Perchè il Paese ha disperato bisogno di
recuperare competitività, visto che ancora oggi la risalita della nostra
economia è «modesta e deludente». E perché «non può esistere un
capitalismo moderno senza una democrazia e istituzioni moderne». «Le
riforme - ha scandito Boccia, incassando uno dei 24 applausi che hanno
accompagnato il suo intervento - servono innanzitutto a liberare il
Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi, che hanno
contribuito a soffocarlo nell’immobilismo. Confindustria si batte fin
dal 2010 per superare il bicameralismo perfetto e riformare il Titolo V
della Costituzione. Con soddisfazione oggi, vediamo che questo traguardo
è a portata di mano».
Un appoggio a Renzi? Nei fatti sì. In realtà
Boccia ci tiene a precisare che «non conta chi fa le riforme, ma come
sono fatte. E se noi le condividiamo, le sosteniamo. Le riforme non sono
patrimonio dei partiti, ma di tutti i cittadini. Quindi anche nostro».
Lo stesso atteggiamento, nessuna intenzione di interferire (in questo
caso con le trattative in corso), il neopresidente lo applica anche alla
questione delicatissima dei contratti. Boccia punta sullo scambio
salario/produttività, l’unico praticabile con i profitti al minimo
storico, da definire a livello di singole aziende. Quindi chiarisce:
«Non vogliamo giocare al ribasso. Vogliamo una più alta produttività per
pagare più alti salari». E per questo Boccia chiede che detassazione e
decontribuzione diventino strutturali e senza tetti. Quanto alla
trattativa coi sindacati, dopo che le confederazioni hanno «preferito
arrestare il confronto per dare precedenza ai rinnovi contrattuali con
le vecchie regole», ora tocca aspettare. Boccia sostiene che «non è
opportuno» far scrivere le nuove regole dal governo, come ventilato più
volte, ma adesso «non si può interferire coi rinnovi aperti». Non lo
dice ma il problema sono i meccanici la cui trattativa è in alto mare.
Cisl e Uil vorrebbero riavviare subito il dialogo, ma la Cgil è
perplessa. Spiega Camusso: «Da Boccia solo ricette vecchie e già
superate».
Manovre di qualità
Patti chiari (e «nessuno scambio») anche
col governo, al quale Boccia da atto dei buoni risultati conseguiti
(allentamento dei vincoli europei, inizio del contenimento della spesa).
La proposta, in questo caso, è un programma «di 4 anni», «manovre di
qualità, politiche a saldo zero, senza creare nuovo deficit». Come prima
cosa bisogna spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle
cose, tagliando Irpef ed Ires e aumentando l’Iva. E poi servono «misure
a favore di incapienti e poveri, per puntare davvero a «una società
coesa e inclusiva».
I tre messaggi di confindustria
di Fabio Bogo Repubblica 27.5.16
SE QUALCUNO pensava che Vincenzo Boccia, una lunga carriera di
imprenditore tutta costruita nelle stanze di Confindustria, iniziasse il
suo cammino da presidente dell’associazione degli industriali con una
pletora di lamentazioni finalizzate alla ricerca del consenso interno, è
rimasto deluso. Perché nei 50 minuti del discorso fatto in assemblea il
neo leader degli industriali ha lanciato tre messaggi chiari.
Il primo è quello rivolto alla politica. Le riforme vanno fatte — ha
detto — e da sempre gli imprenditori sono favorevoli a meccanismi che
accorcino i tempi decisionali e permettano di legiferare con
provvedimenti che non rimangano solo annunci, ma accompagnino i
mutamenti in corso nella società e il cambiamento dei cicli economici.
Ora un’occasione c’è, quella delle riforme costituzionali. Su questo
fronte Boccia ha fatto un assist a Renzi facendo capire che gli
imprenditori appoggeranno il sì al referendum che in autunno dovrà dare
il via libera o fermare le modifiche alla Carta. In questo modo
Confindustria cerca di recuperare quel ruolo propulsivo che anni di
sbiadite leadership hanno offuscato e reso impalpabile, rendendo
l’organizzazione degli imprenditori un soggetto confinato a battaglie
lobbistiche magari efficaci nel medio cabotaggio, ma di scarso peso
nelle riforme essenziali per modernizzare e motivare il Paese.
L’appoggio confindustriale non è di scarso peso nella partita del
referendum, considerando l’eventuale mobilitazione del capillare
apparato degli imprenditori presente sul territorio.
Il secondo messaggio è quello rivolto al sindacato, e la parola chiave è
la produttività. È questo il vulnus che ha provocato la lenta
decrescita italiana, e la responsabilità non è solo del sistema
industriale. Il sindacato deve sedersi assieme ai datori di lavoro per
riscrivere assieme le regole della contrattazione collettiva, non dando
più la priorità a quella nazionale. Lo scambio salario-produttività è
l’unico praticabile, cosa che si traduce in una semplice equazione:
saranno pagati salari più alti se aumenterà la quantità di beni o
servizi forniti dal dipendente. E le nuove regole, quando il confronto
interrotto con le organizzazioni sindacali ripartirà, dovrà avere una
diversa stella polare: a scriverle dovranno essere le parti sociali e
non il legislatore.
Il terzo messaggio è quello rivolto agli imprenditori, e probabilmente
era il più inatteso. Non basta lamentarsi dell’impoverimento del Paese,
recriminare sulle leggi che non ci sono, puntare il dito su un fisco che
non aiuta. I problemi ci sono ed è giusto sottolinearli, ma è ipocrita
girare la testa dall’altra parte per non vedere quali sono le criticità
in casa propria. E il discorso di Boccia è un attacco piuttosto
esplicito a un capitalismo asfittico che ha sempre giocato in difesa, ha
guardato con sospetto alla raccolta diretta di capitale di rischio, ha
snobbato i fondi di private equity, si è opposto alla separazione tra
proprietà e gestione delle aziende pensando che fosse cosa giusta
nascondere sotto il tappeto le carenze di qualità imprenditoriali;
dimenticando che, invece, è il mercato alla fine a fare la selezione tra
chi va avanti e chi si ferma ed esce dalla partita. Il momento attuale
offre ampi squarci di anomalie. Le si rintracciano nel crac delle banche
venete, dove la cattiva gestione del credito si è associata spesso alla
complicità degli industriali che hanno contribuito a depredare le
ricchezze degli istituti per poi fuggire con canali preferenziali quando
il clima si è fatto pesante. Lo è nella battaglia per il controllo di
Rcs, dove un imprenditore che fa l’editore lancia un’offerta per il
controllo del gruppo editoriale, e quello che resta di un vecchio patto
tra non editori alza subito una diga, con una controfferta che protegge
un investimento di capitali ma anche di influenza.
La sfida di Boccia e il richiamo alla necessità di svecchiare quel mondo
è un elemento di novità. Bisognerà che il nuovo corso di Confindustria
non si limiti a denunciarlo ma sia parte attiva in questa battaglia.
Boccia non può non sapere che mentre chiede alle imprese di investire
nell’industria del futuro e di ripensare l’impresa in termini di
sviluppo digitale, una parte dei destinatari del messaggio è sorda. Un
rapporto Unioncamere rivela che quattro imprenditori su 10 ritengono
internet inutile alla loro azienda; che solo il 26,5 per cento di chi
opera nel Made in Italy utilizza i social network per promuovere il
proprio marchio; che appena il 5,1 per cento ricorre all’e-commerce.
Boccia al governo ha chiesto leggi e fatti concreti, e non annunci.
Dovrà ricordarsi di vigilare anche in casa propria.
Se la democrazia è incompatibile con il mercato
di Andrea Colombo il manifesto 27.5.16
Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale
ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di
Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni,
in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con
mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal
Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni
dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano
tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le
manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono
«liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il
cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto
ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto
i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e
quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza
che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia
ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e
dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i
cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi,
anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il
governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse
Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno
trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le
centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno
bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così
com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in
nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti
che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta
nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera
chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica
sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare
come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati
sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella
media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I
tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel
cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla
riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed
economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia
decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi
misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un
libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri
economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il
prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla
garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di
efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia
parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati
apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa
da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.
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