L’indagine Demos-Coop Per due persone su tre è inutile fare progetti a lungo termine
Incertezza sul futuro e fine della classe media
Gli italiani si sentono su un ascensore in discesa
La frattura di classe pesa e non sarà risolta dal voto amministrativo
o dal referendum Operai, pensionati e casalinghe si sentono più poveri,
lontani dai livelli del ceto medio
di Ilvo Diamanti Repubblica 30.5.16
Siamo diventati pessimisti. Nonostante i nostri governi, da oltre
vent’anni, cerchino di tirarci su di morale. Prima Berlusconi:
assimilava i pessimisti ai comunisti. Mentre oggi Renzi cerca di
utilizzare le variazioni dell’economia e del mercato del lavoro,
positive, per quanto lievi e contraddittorie, per sollevare il morale
degli italiani e migliorare il clima d’opinione.
Eppure, nonostante tutto, la maggioranza degli italiani non ci crede.
Non riesce a percepire – e ad “accettare” – questo cambiamento. Lo
suggeriscono i dati del sondaggio di Demos-Coop, condotto alcune
settimane fa. Due italiani su tre ritengono, infatti, che sia «inutile
fare progetti per sé e per la propria famiglia». «Perché il futuro è
incerto e carico di rischi». Dal 2000 ad oggi, si tratta del livello più
elevato registrato dai nostri sondaggi. Segnala un sentimento di
inquietudine più acuto di quello osservato nel biennio 2008-2010. Gli
anni della crisi, quando l’indice di incertezza verso il futuro, in
sensibile aumento, superò di poco il 55%. Oggi, però, l’insicurezza è
cresciuta ancora. In misura particolarmente intensa. Soprattutto negli
ultimi anni. Rispetto all’anno scorso: di circa 7 punti. Non per questo
viviamo tempi di ribellione. Di rabbia. Semmai, di delusione. Come
abbiamo avuto modo di osservare in altre occasioni: ci siamo abituati al
declino. Non siamo contenti di quel che avviene, ovviamente. Ma
“resistiamo”. Attaccati alla famiglia, alle reti sociali, distese sul
territorio. Pratichiamo “l’arte di arrangiarsi”, della quale, in Italia,
siamo maestri. Tuttavia, il problema esiste e tende a riprodursi. A
divenire patologico. Soprattutto perché riflette – e, a sua volta,
moltiplica - un’altra sensazione, un’altra percezione, che abbiamo già
registrato, negli ultimi anni. La “discesa sociale”. Più di preciso, la
perdita di posizione - in altri termini: lo scivolamento - nella scala
di classe. La maggior parte degli italiani, infatti, oggi ritiene di
appartenere a una classe sociale “bassa o medio-bassa”. È una percezione
condivisa dal 54% delle persone (intervistate da Demos-Coop): 12 punti
in più rispetto al 2011. Certo, come si è detto, è da alcuni anni che si
osserva questa tendenza. Ma oggi ha raggiunto una misura superiore al
passato. Tanto più perché, parallelamente, il peso di coloro che si
collocano nel “ceto medio” non è mai stato così limitato: 39%. Nel 2011
era il 50%. In seguito, era sceso, ma non così tanto. L’anno scorso, per
esempio, si attestava intorno al 45%. Le ragioni di questa “caduta”
della posizione sociale – percepita – sono diverse. Ma una, in
particolare, mi sembra importante. Emerge con chiarezza utilizzando,
come chiave di lettura, la prospettiva della “professione”. Il crollo
della percezione riguardo alla posizione sociale – se escludiamo,
ovviamente, i “disoccupati” - riguarda anzitutto e soprattutto gli
“operai”. Insieme ai pensionati – un tempo operai. E alle casalinghe –
che, probabilmente, vivono in famiglie operaie. È presso queste
categorie che il declino di classe è percepito in misura nettamente
superiore che nel resto della popolazione. Non solo perché, come in
passato, la quota di “operai” che si colloca nei settori più bassi della
struttura sociale appare più ampia rispetto alle altre categorie
professionali. Per la precisione: il 65%. Oltre 10 punti sopra la media
della popolazione. Ma, soprattutto, perché è cresciuta in misura
maggiore. Molto maggiore rispetto alle altre categorie professionali. E
ciò fa emergere una frattura sociale che, nel dopoguerra, si era
ridotta. Attraverso quella che Giuseppe De Rita ha definito la
“cetomedizzazione” della società italiana. Gli italiani, infatti, si
erano progressivamente addensati al centro della struttura sociale. Nel
2006, giusto un decennio fa, 6 su 10 si definivano “ceto medio”. Ora non
è più così. Anzi: lo è sempre di meno. E in questo modo il clima di
fiducia nel futuro frena. L’ottimismo si raffredda. Soprattutto fra gli
operai, i pensionati, le casalinghe. Tra loro, la componente che si
sente scivolare in basso, nella gerarchia sociale, negli ultimi anni è
aumentata di 17 punti. Dal 48 si è allargata fino al 65%. Quasi due
operai su tre, dunque, si considerano ai margini della stratificazione
sociale. Mentre coloro che si sentono “ceto medio” sono diminuiti di 20
punti. Erano metà, nel 2011. Oggi sono il 30%. Parallelamente, fra gli
imprenditori e i lavoratori autonomi il processo di “cetomedizzazione”
si è rafforzato. Ancor più, presso i liberi professionisti. Tra i quali,
anzi, si è allargata la componente di quanti si sentono arrivati in
cima alla scala.
Per questo la febbre elettorale che, da tempo, affligge e ancora per
molto tempo affliggerà, gli italiani – amplificata dai media e dagli
attori politici - mi pare in-esplicata. Certamente, non sarà risolta dal
voto amministrativo. Né dal referendum. Perché il governo delle città è
importante. Ed è importante la semplificazione istituzionale prodotta
dal ridimensionamento del bicameralismo paritario. Ma la frattura di
classe che oggi è percepita da metà della società italiana resterà.
Immutata. E, viste le tendenze degli ultimi anni, appare destinata ad
allargarsi. Chiunque vinca: a Milano, Roma, Napoli. A Torino, Bologna,
Cagliari, Trieste. E altrove. Anche se il Senato verrà depotenziato da
una riforma confusa. D’altronde, si tratta di una tendenza diffusa. Non
solo in Italia. Come mostra il conflitto sociale esploso in Francia
contro il Jobs Act. Per questo, conviene fare attenzione al degrado che
coinvolge il sentimento sociale. E spinge verso il basso gli operai, per
primi, facendoli sentire “ultimi”. Senza speranza di miglioramento.
Perché così rischiamo davvero di perdere il futuro.
Un governo senza Renzi se a ottobre vince il No
Grasso e Padoan in pole position per Palazzo Chigi
di Federico Geremicca La Stampa 30.5.16
È da settimane che osservatori politici e opinione pubblica lamentano la
partenza assai anticipata della campagna per il referendum
costituzionale di ottobre. Anche i partiti, naturalmente, denunciano lo
stesso problema: eppure, incredibilmente e al riparo di questa spessa
coltre polemica, stanno già guardando addirittura oltre. E ragionano, in
particolare, sullo scenario più incerto: quello che verrebbe a
determinarsi con la sconfitta del sì e le annunciate dimissioni di
Matteo Renzi.
Dopo l’iniziale propaganda di maniera («Mandiamo a casa il premier e
torniamo a votare») a leader di partito e addetti ai lavori è già
diventato chiaro che la faccenda non è poi così semplice. E perfino uno
dei più accesi sostenitori del ritorno alle urne (Luigi Di Maio) ieri ha
ammesso: «Se vince il no, non chiederemo le dimissioni di Renzi. Mi
auguro che il Presidente della Repubblica intervenga e indichi agli
italiani con quale legge elettorale si va al voto».
E questo è il primo, serissimo, problema. Infatti, se il referendum di
ottobre non approvasse la riforma costituzionale - lasciando, insomma,
le cose come stanno - il Parlamento dovrebbe esser rieletto con due
leggi elettorali totalmente diverse, una maggioritaria (l’Italicum,
appunto) e l’altra proporzionale (il cosiddetto Consultellum):
riproponendo tutti i rischi di ingovernabilità già sperimentati con il
Porcellum. Situazione delicata, come è evidente: tanto che, in più di un
colloquio informale, il Presidente della Repubblica non ha mancato di
segnalare il problema ai suoi interlocutori.
Dunque, dando per scontate le dimissioni del premier Renzi in caso si
sconfitta al referendum, i fatti dicono che sarebbe comunque necessario
insidiare un nuovo governo che, incaricato di gestire l’ordinaria
amministrazione, dia intanto tempo alle forze politiche di varare una
nuova legge elettorale per il Senato o addirittura per entrambi i rami
del Parlamento. E per quanto paradossale possa apparire, su questo punto
la discussione è già del tutto aperta.
Un nuovo governo, già. Ma con quale profilo, e con i voti di chi? Non è
che le ipotesi sul tavolo siano poi tante. La più gettonata - al momento
- punta sul tradizionale «governo istituzionale» (guidato, in questo
caso, dal Presidente del Senato, Grasso) che potrebbe godere, in
partenza, della «neutralità» di tutte o quasi le forze presenti in
Parlamento. Però, considerato che i tempi dello show down dovrebbero
coincidere con quelli di una complessa sessione di bilancio, c’è chi non
esclude l’ipotesi (certo più complicata) di un «governo tecnico»
presieduto da Pier Carlo Padoan. Si tratterebbe, come è evidente, di
esecutivi dal profilo assai diverso: il che già si annuncia come tema di
scontro e polemica.
Ma come andare al voto - con quale legge elettorale e con quale governo -
è solo uno dei problemi sui quali i partiti stanno ragionando
nell’ipotesi di una sconfitta del sì. L’altro - non meno delicato e dal
quale, anzi, dipenderà molto, se non tutto - riguarda le reali
intenzioni di Matteo Renzi. L’interrogativo, che per ora agita
soprattutto lo stato maggiore del Pd, è semplice: il premier lascerà
davvero Palazzo Chigi? E soprattutto: si dimetterà anche da segretario,
visto che su questo - secondo alcuni - la chiarezza non è assoluta?
L’interrogativo non è ozioso, visto che Renzi - in teoria - potrebbe
battere due strade diverse. Infatti, una cosa sono la legittimità e il
mandato di cui è stato investito (da Napolitano prima e dalle Camere
poi) in quanto premier; e altro è il voto con il quale quasi due milioni
di iscritti e simpatizzanti lo elessero alla guida del Pd per rinnovare
il partito. E dunque: quando Renzi annuncia di voler «lasciare la vita
politica», in caso di sconfitta al referendum, intende anche la guida
del Pd?
È evidente che, a seconda della risposta, lo scenario autunnale cambierà
radicalmente: una cosa, infatti, potrebbe essere la linea di un Pd
guidato da un qualche «direttorio» (in attesa del Congresso) e altra
quella di un partito ancora a «trazione renziana». Quel che è certo, è
che in caso di vittoria dei no l’orizzonte potrebbe farsi assai confuso:
e non per nulla, lassù al Quirinale, c’è chi ha già cominciato a
drizzare le antenne...
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