lunedì 30 maggio 2016

"Non c'è alternativa": i sondaggisti come sacerdoti

L’indagine Demos-Coop Per due persone su tre è inutile fare progetti a lungo termine
Incertezza sul futuro e fine della classe media

Gli italiani si sentono su un ascensore in discesa
La frattura di classe pesa e non sarà risolta dal voto amministrativo o dal referendum Operai, pensionati e casalinghe si sentono più poveri, lontani dai livelli del ceto medio

di Ilvo Diamanti Repubblica 30.5.16
Siamo diventati pessimisti. Nonostante i nostri governi, da oltre vent’anni, cerchino di tirarci su di morale. Prima Berlusconi: assimilava i pessimisti ai comunisti. Mentre oggi Renzi cerca di utilizzare le variazioni dell’economia e del mercato del lavoro, positive, per quanto lievi e contraddittorie, per sollevare il morale degli italiani e migliorare il clima d’opinione.
Eppure, nonostante tutto, la maggioranza degli italiani non ci crede. Non riesce a percepire – e ad “accettare” – questo cambiamento. Lo suggeriscono i dati del sondaggio di Demos-Coop, condotto alcune settimane fa. Due italiani su tre ritengono, infatti, che sia «inutile fare progetti per sé e per la propria famiglia». «Perché il futuro è incerto e carico di rischi». Dal 2000 ad oggi, si tratta del livello più elevato registrato dai nostri sondaggi. Segnala un sentimento di inquietudine più acuto di quello osservato nel biennio 2008-2010. Gli anni della crisi, quando l’indice di incertezza verso il futuro, in sensibile aumento, superò di poco il 55%. Oggi, però, l’insicurezza è cresciuta ancora. In misura particolarmente intensa. Soprattutto negli ultimi anni. Rispetto all’anno scorso: di circa 7 punti. Non per questo viviamo tempi di ribellione. Di rabbia. Semmai, di delusione. Come abbiamo avuto modo di osservare in altre occasioni: ci siamo abituati al declino. Non siamo contenti di quel che avviene, ovviamente. Ma “resistiamo”. Attaccati alla famiglia, alle reti sociali, distese sul territorio. Pratichiamo “l’arte di arrangiarsi”, della quale, in Italia, siamo maestri. Tuttavia, il problema esiste e tende a riprodursi. A divenire patologico. Soprattutto perché riflette – e, a sua volta, moltiplica - un’altra sensazione, un’altra percezione, che abbiamo già registrato, negli ultimi anni. La “discesa sociale”. Più di preciso, la perdita di posizione - in altri termini: lo scivolamento - nella scala di classe. La maggior parte degli italiani, infatti, oggi ritiene di appartenere a una classe sociale “bassa o medio-bassa”. È una percezione condivisa dal 54% delle persone (intervistate da Demos-Coop): 12 punti in più rispetto al 2011. Certo, come si è detto, è da alcuni anni che si osserva questa tendenza. Ma oggi ha raggiunto una misura superiore al passato. Tanto più perché, parallelamente, il peso di coloro che si collocano nel “ceto medio” non è mai stato così limitato: 39%. Nel 2011 era il 50%. In seguito, era sceso, ma non così tanto. L’anno scorso, per esempio, si attestava intorno al 45%. Le ragioni di questa “caduta” della posizione sociale – percepita – sono diverse. Ma una, in particolare, mi sembra importante. Emerge con chiarezza utilizzando, come chiave di lettura, la prospettiva della “professione”. Il crollo della percezione riguardo alla posizione sociale – se escludiamo, ovviamente, i “disoccupati” - riguarda anzitutto e soprattutto gli “operai”. Insieme ai pensionati – un tempo operai. E alle casalinghe – che, probabilmente, vivono in famiglie operaie. È presso queste categorie che il declino di classe è percepito in misura nettamente superiore che nel resto della popolazione. Non solo perché, come in passato, la quota di “operai” che si colloca nei settori più bassi della struttura sociale appare più ampia rispetto alle altre categorie professionali. Per la precisione: il 65%. Oltre 10 punti sopra la media della popolazione. Ma, soprattutto, perché è cresciuta in misura maggiore. Molto maggiore rispetto alle altre categorie professionali. E ciò fa emergere una frattura sociale che, nel dopoguerra, si era ridotta. Attraverso quella che Giuseppe De Rita ha definito la “cetomedizzazione” della società italiana. Gli italiani, infatti, si erano progressivamente addensati al centro della struttura sociale. Nel 2006, giusto un decennio fa, 6 su 10 si definivano “ceto medio”. Ora non è più così. Anzi: lo è sempre di meno. E in questo modo il clima di fiducia nel futuro frena. L’ottimismo si raffredda. Soprattutto fra gli operai, i pensionati, le casalinghe. Tra loro, la componente che si sente scivolare in basso, nella gerarchia sociale, negli ultimi anni è aumentata di 17 punti. Dal 48 si è allargata fino al 65%. Quasi due operai su tre, dunque, si considerano ai margini della stratificazione sociale. Mentre coloro che si sentono “ceto medio” sono diminuiti di 20 punti. Erano metà, nel 2011. Oggi sono il 30%. Parallelamente, fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi il processo di “cetomedizzazione” si è rafforzato. Ancor più, presso i liberi professionisti. Tra i quali, anzi, si è allargata la componente di quanti si sentono arrivati in cima alla scala.
Per questo la febbre elettorale che, da tempo, affligge e ancora per molto tempo affliggerà, gli italiani – amplificata dai media e dagli attori politici - mi pare in-esplicata. Certamente, non sarà risolta dal voto amministrativo. Né dal referendum. Perché il governo delle città è importante. Ed è importante la semplificazione istituzionale prodotta dal ridimensionamento del bicameralismo paritario. Ma la frattura di classe che oggi è percepita da metà della società italiana resterà. Immutata. E, viste le tendenze degli ultimi anni, appare destinata ad allargarsi. Chiunque vinca: a Milano, Roma, Napoli. A Torino, Bologna, Cagliari, Trieste. E altrove. Anche se il Senato verrà depotenziato da una riforma confusa. D’altronde, si tratta di una tendenza diffusa. Non solo in Italia. Come mostra il conflitto sociale esploso in Francia contro il Jobs Act. Per questo, conviene fare attenzione al degrado che coinvolge il sentimento sociale. E spinge verso il basso gli operai, per primi, facendoli sentire “ultimi”. Senza speranza di miglioramento. Perché così rischiamo davvero di perdere il futuro.

Un governo senza Renzi se a ottobre vince il No
Grasso e Padoan in pole position per Palazzo Chigi di Federico Geremicca La Stampa 30.5.16
È da settimane che osservatori politici e opinione pubblica lamentano la partenza assai anticipata della campagna per il referendum costituzionale di ottobre. Anche i partiti, naturalmente, denunciano lo stesso problema: eppure, incredibilmente e al riparo di questa spessa coltre polemica, stanno già guardando addirittura oltre. E ragionano, in particolare, sullo scenario più incerto: quello che verrebbe a determinarsi con la sconfitta del sì e le annunciate dimissioni di Matteo Renzi.
Dopo l’iniziale propaganda di maniera («Mandiamo a casa il premier e torniamo a votare») a leader di partito e addetti ai lavori è già diventato chiaro che la faccenda non è poi così semplice. E perfino uno dei più accesi sostenitori del ritorno alle urne (Luigi Di Maio) ieri ha ammesso: «Se vince il no, non chiederemo le dimissioni di Renzi. Mi auguro che il Presidente della Repubblica intervenga e indichi agli italiani con quale legge elettorale si va al voto».
E questo è il primo, serissimo, problema. Infatti, se il referendum di ottobre non approvasse la riforma costituzionale - lasciando, insomma, le cose come stanno - il Parlamento dovrebbe esser rieletto con due leggi elettorali totalmente diverse, una maggioritaria (l’Italicum, appunto) e l’altra proporzionale (il cosiddetto Consultellum): riproponendo tutti i rischi di ingovernabilità già sperimentati con il Porcellum. Situazione delicata, come è evidente: tanto che, in più di un colloquio informale, il Presidente della Repubblica non ha mancato di segnalare il problema ai suoi interlocutori.
Dunque, dando per scontate le dimissioni del premier Renzi in caso si sconfitta al referendum, i fatti dicono che sarebbe comunque necessario insidiare un nuovo governo che, incaricato di gestire l’ordinaria amministrazione, dia intanto tempo alle forze politiche di varare una nuova legge elettorale per il Senato o addirittura per entrambi i rami del Parlamento. E per quanto paradossale possa apparire, su questo punto la discussione è già del tutto aperta.
Un nuovo governo, già. Ma con quale profilo, e con i voti di chi? Non è che le ipotesi sul tavolo siano poi tante. La più gettonata - al momento - punta sul tradizionale «governo istituzionale» (guidato, in questo caso, dal Presidente del Senato, Grasso) che potrebbe godere, in partenza, della «neutralità» di tutte o quasi le forze presenti in Parlamento. Però, considerato che i tempi dello show down dovrebbero coincidere con quelli di una complessa sessione di bilancio, c’è chi non esclude l’ipotesi (certo più complicata) di un «governo tecnico» presieduto da Pier Carlo Padoan. Si tratterebbe, come è evidente, di esecutivi dal profilo assai diverso: il che già si annuncia come tema di scontro e polemica.
Ma come andare al voto - con quale legge elettorale e con quale governo - è solo uno dei problemi sui quali i partiti stanno ragionando nell’ipotesi di una sconfitta del sì. L’altro - non meno delicato e dal quale, anzi, dipenderà molto, se non tutto - riguarda le reali intenzioni di Matteo Renzi. L’interrogativo, che per ora agita soprattutto lo stato maggiore del Pd, è semplice: il premier lascerà davvero Palazzo Chigi? E soprattutto: si dimetterà anche da segretario, visto che su questo - secondo alcuni - la chiarezza non è assoluta?
L’interrogativo non è ozioso, visto che Renzi - in teoria - potrebbe battere due strade diverse. Infatti, una cosa sono la legittimità e il mandato di cui è stato investito (da Napolitano prima e dalle Camere poi) in quanto premier; e altro è il voto con il quale quasi due milioni di iscritti e simpatizzanti lo elessero alla guida del Pd per rinnovare il partito. E dunque: quando Renzi annuncia di voler «lasciare la vita politica», in caso di sconfitta al referendum, intende anche la guida del Pd?
È evidente che, a seconda della risposta, lo scenario autunnale cambierà radicalmente: una cosa, infatti, potrebbe essere la linea di un Pd guidato da un qualche «direttorio» (in attesa del Congresso) e altra quella di un partito ancora a «trazione renziana». Quel che è certo, è che in caso di vittoria dei no l’orizzonte potrebbe farsi assai confuso: e non per nulla, lassù al Quirinale, c’è chi ha già cominciato a drizzare le antenne... 

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