venerdì 20 maggio 2016

Perseverare diabolicum: nel celebrare la Rivoluzione Culturale il Manifesto celebra se stesso e ribadisce tutti i propri errori

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L’oblio funzionale al socialismo con «caratteristiche cinesi»

Memoria. La mancanza di una «memoria collettiva» sui fatti insieme alla collocazione temporale degli eventi nel «decennio perduto» è funzionale all’attuale sviluppo economico del paese

di Simone Pieranni il manifesto 19.5.16
Oblio, irripetibilità, memoria condivisa ma probabilmente non «collettiva», rigurgiti che si incastrano in vite successive, dolore, rabbia, incomprensioni, lotte, scontri, baluardi, ferite, vittime, morti, tanti: i modi per definire il mondo che ruota intorno alla memoria della rivoluzione culturale sono molti, eppure la Cina ancora non ha contribuito a creare quel meccanismo di «memoria collettiva» necessaria a far sì che l’evento possa essere compreso e scartato da future soluzioni storiche.
Questo è accaduto perché il Partito ha messo una pietra sopra agli eventi, chiedendo di non tornarci, e tuffando in avanti un’intera popolazione: c’era da produrre, c’era da creare la «Nuova Cina». E oggi c’è da consumare, comprare, sviluppare, dimenticare, andare avanti, non importa come. L’importante è che il Partito sia centrale, che il caos non si ripeta.
La Cina avanza. Il «sogno cinese» non ha bisogno di ricordi. Nel documento «Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro Partito, dalla fondazione della Repubblica popolare cinese», approvato nella sessione plenaria dell’undicesimo Comitato Centrale del Pcc il 27 giugno 1981, viene indicata la via per interpretare da lì ad oggi quegli eventi raccolti intorno al nome di «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria».
Si tratta di una interpretazione che diventerà contemporaneamente «memoria collettiva» e informazione storica. La sentenza del Partito comunista sancisce alcuni concetti chiave: in primo luogo quella che chiamiamo rivoluzione culturale è catalogata come «decennio perduto»: il Partito ha deciso che la durata del fenomeno arriva fino al 1976 (e vedremo perché la scelta temporale diventerà una forte presa di posizione nell’interpretazione dei fatti); in secondo luogo la rivoluzione culturale fu voluta da Mao.
Con una «scusante»: dato che Mao all’epoca era già anziano, nel documento si lascia intendere che il vecchio leader non sapesse più distinguere tra amici e nemici; infine, la rivoluzione culturale fu un errore e un periodo di caos da non ripetersi mai più.
Quello che ci interessa è la valutazione sulla rivoluzione culturale. Associare i due periodi, quello tra il 1966 e il 1969, e quello che seguì (e che arriva fino al 1976, alla morte di Mao e alla successiva eliminazione della «banda dei quattro» e il ritorno al potere di Deng) significa sovrapporre due momenti storici ben diversi. Chi interpreta infatti la rivoluzione culturale come l’estremo tentativo di salvare il partito – e il paese – dalla burocrazia che avrebbe poi sostenuto il processo capitalistico (oltre a ripristinare Mao al centro della scena politica del Partito), la fa ricadere in un periodo ben preciso: dal 1966 (in particolare dal maggio 1966) fino a quando Lin Biao nel 1969 sancisce la fine della rivoluzione culturale. Anche perché, come osservano alcuni storici, anche dopo il 1976, perfino nel 1983, si trovano ancora tracce di processi a ex Guardie Rosse.
Ma in atto è un altro processo. Il documento del 1981 ha finito per sancire una lettura imposta, che ha influenzato tutta la produzione successiva, dalla «letteratura delle cicatrici» fino ad arrivare all’ampia gamma di interpretazioni che oggi è presente sul web, nonostante l’argomento sia tra quelli «censurati» dai solerti funzionari del partito. Si parla molto spesso – al riguardo – di una rimozione di quanto accaduto: non è esattamente così. Esiste una letteratura storica nella quale si mischiano le vittime, i tormenti e le ingiustizie, compresi i milioni di giovani mandati in campagna, dove per altro i contadini neanche li volevano.
Non manca la memoria, ma una riflessione collettiva, guidata dalla politica e dagli intellettuali, capace di far riflettere sui fatti del passato, come accaduto in Germania per il nazismo. L’oblio cinese, se così vogliamo dunque definirlo, sembra funzionale all’odierno sviluppo capitalistico cinese, dominato dalla centralità del Partito comunista. In un libro dal titolo Landscape of the chinese soul, the enduring presence of the cultural revolution, (Karnac, 2014), le interviste a diverse generazioni di cinesi e la loro rappresentazione di quegli eventi, conferma proprio questo.
La posizione ufficiale del partito ha finito per segnare ogni interpretazione al riguardo, depotenziando la memoria di tutti gli elementi che potrebbero permettere un «superamento» di quel periodo. L’interpretazione diventa univoca e rappresenta un oblio, anziché una riflessione cosciente.
Significa annullare il passato, come se mettendolo da parte, potesse scomparire.
Come scrivono gli autori del volume, esperti di psicologia sociale sinologi, che esaminano l’oblio degli eventi storici e il loro impatto sulle generazioni successive, «il documento del 1981 era un tentativo non solo di legittimare la nuova leadership, ma anche di porre un termine ai conflitti interni del paese. La spiegazione dei “dieci anni caotici” come un conflitto tra élite interne e le masse era così convincente che è stato perpetrato nella storia popolare, nella letteratura e nei lavori autobiografici. L’immagine era convincente anche per l’Occidente, perché apparve fin da subito disponibile a confermare l’assunto del fallimento del socialismo e l’approccio orientalista nel considerare un Oriente irrimediabilmente dispotico».

Rivoluzione culturale, un’utopia attuale

2016. Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62

di Edoarda Masi il manifesto 19.5.16
Sono passati (cinquant’anni, ndr) anni dall’inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa.
Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta impossibile.
Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subìto anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore nell’ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell’interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti (…)
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale – come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà… come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62, lanciate dalle città d’Europa in Africa, in Asia: «Partenone! Fraternità!», risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei «variopinti legami» della società feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano «mercato» per non usare il termine «capitale», che sarebbe più corretto.
Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l’ingresso. Si era arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale anche nell’Unione sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conclusioni alle quali, per altra via, è giunto Istvàn Mészàros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguirne la strada: quelli che oggi sono al potere. Come già da un pezzo e ripetutamente è stato dimostrato, il degrado e la distruzione, l’allargamento oltremisura della forbice che divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre più rigida, la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri – la stragrande maggioranza – non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, né residui di un passato di «arretratezza» da superare, ma il risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza.
Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana. Più si aggrava l’infelicità della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell’assenza di umanità, della solidarietà ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi della borghesia, più diventa indispensabile per quest’ultimo che la massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di un’alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a milioni nel corso di due secoli. (…)
Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta già in quegli anni lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che avevano posto con grande libertà le questioni del rapporto fra dirigenti e diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo; fra colti e incolti; fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi lavora. Nelle grandi città industriali e nei loro hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione «orizzontale», di gestione decentrata del territorio, di imprese miste agricolo-industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di gestione «dal basso». (…) Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato». La sola cosa possibile, allora, è di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi documenti , ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilità qui e ora.
(Articolo pubblicato sul manifesto il 25 maggio 2005)

L’ultima rivoluzione 1966. L’esperienza che satura la forma stato- partito
di Alain Badiou il manifesto 19.5.16
Perché discutere la rivoluzione culturale? Le ragioni sono tre: è stata un riferimento costante e vivace dell’attività militante in tutto il mondo. È il tipico esempio di un’esperienza politica che satura la forma del partito-stato. È una grande lezione nella storia e nella politica. (…) La versione storiografica dominante è stata redatta da vari specialisti, specialmente da sinologi, già dal 1968 e non è più cambiata.
Si è consolidata perché, nascostamente, è diventata la versione ufficiale di uno stato dominato dopo il 1976 da persone che rifuggivano dalla rivoluzione culturale e cercavano una rivalsa, ed erano capitanate da Deng Xiaoping.
La disputa è altrettanto chiara quando si prendono in considerazione le date.
Il punto di vista dominante, che è anche quello dello stato cinese, è che la rivoluzione culturale sia durata dieci anni, dal 1966 al 1976: dalle Guardie rosse alla morte di Mao.
Dieci anni di problemi, dieci anni persi per uno sviluppo razionale. In realtà questa datazione può essere difesa, se si ragiona strettamente dal punto di vista della storia dello stato cinese, con i seguenti criteri: stabilità sociale, produzione, una certa unità del vertice amministrativo, coesione dell’esercito ecc.
Ma questo non è il mio assioma e questi non sono i miei criteri. Se esaminiamo la questione delle date dal punto di vista della politica, i criteri principali diventano i seguenti: quando possiamo dire che c’è una situazione di creazione collettiva di pensiero politico?
Quando la pratica con le sue direttive sovrasta in modo verificabilmente eccedente la tradizione e la funzione del partito-stato cinese? Quando emergono affermazioni di valore universale? Allora procediamo in modo completamente diverso per determinare i confini del processo denominato «grande rivoluzione culturale del proletariato». Per quanto mi riguarda propongo di dire che la rivoluzione culturale, in questa concezione, costituisce una sequenza che va dal novembre 1965 al luglio 1968.
Posso anche accettare, questa è una discussione di tecnica politica) una riduzione drastica, che situerebbe il momento rivoluzionario propriamente detto tra il maggio 1966 e il settembre 1967. Il criterio è l’esistenza di un’attività politica delle masse, con i suoi slogan, le sue nuove organizzazioni, i suoi luoghi.
Attraverso tutto questo, si costituisce un riferimento ambivalente ma innegabile per tutto il pensiero politico contemporaneo degno di questo nome.
In tal senso c’è la «rivoluzione» perché ci sono le Guardie rosse, i lavoratori ribelli rivoluzionari, ci sono innumerevoli organizzazioni e «quartier generali» situazioni totalmente imprevedibili, nuove affermazioni politiche, testi inediti. (…)
Comunque il nostro debito verso la rivoluzione culturale resta enorme.
Perché il nostro maoismo, legato a questa grandiosa e coraggiosa saturazione del tema del partito, in quanto contemporaneo di quella che oggi appare chiaramente come l’ultima rivoluzione ancora legata al tema delle classi e della lotta di classe, sarà stato l’esperienza e il nome di una transizione capitale.
E senza questa transizione, o laddove nessuno è fedele a essa, non vi è nulla.

L’ufficiale Quotidiano del Popolo ribadisce: «Fu un errore, da non ripetere»

Ricorrenza. Due editoriali degli organi di informazione del Partito comunista cinese confermano la lettura storica di quegli eventi

di Simone Pieranni il manifesto 19.5.16
Due editoriali degli organi ufficiali del Partito comunista hanno rotto un silenzio, che di per sé non significava dimenticanza da parte della leadership cinese della rivoluzione culturale. La posizione del partito comunista, quella ufficiale, è nota e non cambia: «La storia ha dimostrato che la rivoluzione rulturale era completamente sbagliata, sia nella teoria che nella pratica», era scritto in un articolo del Quotidiano del Popolo, intitolato «Imparare la lezioni dalla storia al fine di muoversi meglio in avanti».
Un secondo editoriale, è stato pubblicato sul quotidiano statale Global Times, nel quale si legge che «Il decennio di calamità ha causato gravi danni, lasciando dolore permanente per molti cinesi. Negare completamente i valori della rivoluzione culturale non è solo una comprensione in tutto il partito, ma anche un consenso stabile di tutta la società cinese». Il titolo era il seguente: «La società respinge con fermezza la rivoluzione culturale». Oggi, nel 2016, la posizione del Partito non è ovviamente cambiata, mentre i media internazionali hanno provato, nel corso dei mesi precedenti, a trovare analogie irreali tra la guida attuale di Xi Jinping, «il presidente di tutto» e quella di Mao.
«Con il cinquantesimo anniversario della rivoluzione culturale che si avvicina, aveva già scritto il Global Times alcune settimane fa, riflessioni sul periodo tumultuoso stanno guadagnando slancio mentre una minoranza della sinistra radicale sta tenendo eventi commemorativi sfidando la decisione ufficiale di, ormai, lunga data che definisce il movimento come ’10 anni di catastrofe’, un decennio che gli esperti ritengono non si ripeterà in Cina». Il 16 maggio 1966 una circolare venne approvata in una conferenza dell’Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista cinese, in cui il leader del partito, Mao Zedong, «ritenne che il potere usurpato dai capitalisti poteva essere recuperato solo portando avanti una grande rivoluzione culturale. La notifica segna l’inizio di una campagna decennale che alcuni storici hanno sancito abbia gettato la Cina nel baratro del caos e dell’illegalità».
La stampa ufficiale si affida dunque al grande classico, sapendo di poter contare sulla generale diffidenza nei confronti del caos. «Nonostante il riconoscimento del governo, la rivoluzione culturale rimane controversa. L’argomento è addirittura diventato un nodo del dibattito attuale, su cui la sinistra e la destra si sono a lungo scontrati sul percorso politico della Cina».
Secondo il Global Times, infatti, «Gli esponenti della sinistra considerano la rivoluzione culturale come un movimento popolare contro la burocrazia e anelano per il suo ritorno. Altri mettono in discussione la leadership del partito chiamando a una cosiddetta riflessione radicale. Entrambi hanno deviato dalla definizione ufficiale della rivoluzione culturale e non dovrebbero essere incoraggiati», secondo l’opinione di Su Wei, professore presso la Party School of the Communist Party of China di Chongqing.
«Finché il paese sostiene la direzione del partito corretto e aderisce alla linea fondamentale del partito, la rivoluzione culturale non può essere ripristinata», ha detto Su, aggiungendo che rinnegare completamente la rivoluzione culturale, è un «principio irrinunciabile».
E tutti in Cina, fino ad oggi, sembrano essere concordi. Non a caso anche il Quotidiano del Popolo è intervenuto squarciando il silenzio ufficiale nei 50 anni dalla rivoluzione culturale e ribadendo il giudizio storico ufficiale: «Fu un errore, da non ripetersi».

Mao alle Guardie rosse: «Chi resiste sarà annientato»

Il documento. Nel luglio 1968 Mao Zedong incontra le Guardie rosse a Pechino. Un confronto che il Timoniere volle registrato e che porrà fine alla furia dei «giovani ribelli». Un pezzo di teatro, il cui «autore» sono i suoi stessi «personaggi». Una molteplicità di figure soggettive che s'incontrano nel momento finale della situazione politica in cui è radicata la loro esistenza

di Alessandro Russo
Nelle primissime ore del 28 luglio 1968, i personaggi più noti della turbolenza soggettiva che nei due anni precedenti aveva investito le condizioni fondamentali della politica in Cina si incontrarono in un lungo e drammatico faccia a faccia, del quale fu deliberatamente tenuta una trascrizione cosi minuziosa che vi sono annotate perfino le intonazioni emotive dei dialoghi.
Ben più che il verbale di una riunione, un pezzo di teatro, si potrebbe dire, il cui «autore» sono i suoi stessi «personaggi»: una molteplicità di figure soggettive che s’incontrano nel momento finale della situazione politica in cui è radicata la loro esistenza. Dal giorno dopo, la situazione sarà completamente diversa: le Guardie rosse non esisteranno più come organizzazioni indipendenti, e nei mesi successivi saranno completamente dissolte, con conseguenze che inevitabilmente si ripercuoteranno anche su Mao e sui suoi alleati.
A fronteggiarsi, in un sala di riunioni di Zhongnanhai erano, da un lato, Mao e il «Gruppo centrale incaricato della Rivoluzione Culturale», cioè il ristretto gruppo di dirigenti centrali rimasti politicamente attivi negli ultimi due anni (gran parte dei vertici del partito-stato era rimasto paralizzato fin dall’estate 1966); dall’altro, i cinque principali dirigenti delle organizzazioni delle Guardie rosse delle università pechinesi.(…)
Sensibile ai dettagli soggettivi, la trascrizione dell’incontro rende accuratamente, fin dalle prime battute, lo stile degli interventi e le relazioni fra i personaggi. Meriterebbe citazioni più ampie, ma almeno alcuni passaggi di questo denso e lungo pezzo di «teatro documentale» vanno riportati per esteso. Seguire in modo ravvicinato l’intrecciarsi di questi dialoghi è una buona introduzione al groviglio della materia. Ecco l’inizio fedelmente riportato da questo straordinario documento, testimone al tempo stesso parte integrante della scena conclusiva.
(Nie Yuanzi, Tan Houlan, Han Aijing e Wang Dabing (quattro dirigenti delle Guardie rosse) entrano nella sala della riunione. Il Presidente si alza in piedi e va a stringere loro la mano uno ad uno).
Presidente: Tutti così giovani! (stringe la mano a Huang Zuozhen (dirigente militare) Sei Huang Zuozhen? Non ti avevo mai incontrato prima; non eri stato ucciso?
Jiang Qing: (Rivolta ai quattro dirigenti delle Guardie rosse). E molto che non ci vediamo. Ora non affiggete più manifesti a grandi caratteri.
Presidente: (Rivolto alle quattro Guardie rosse) Ci siamo visti solo una volta, a Tian’anmen (nell’estate del 1966), ma allora non fu possibile parlare. E stato male. Voi, se non succede qualcosa d’importante, non salite mai al Palazzo di Triratna (cioè: non venite mai a trovarmi). Però ho letto i vostri giornali e conosco la vostra situazione. Kuai Dafu (un altro leader studentesco) non è venuto. Non può venire o non vuole venire?
Xie Fuzhi (del Gruppo centrale): Temo che non voglia venire.
Han Ajjing: Non può essere così. Se ora Kuai sapesse che c’è una riunione col gruppo della Rivoluzione culturale del Comitato centrale, e che lui non può incontrare il Presidente, sarebbe in lacrime. Sono sicuro che non è in grado di venire.
Tra i dirigenti delle Guardie rosse, a parte Nie Yuanzi. quadro del Dipartimento di filosofia di Beida e autrice del celebre «primo dazibao» della Rivoluzione culturale, che ha oltre quarant’anni, gli altri quattro hanno poco più di vent’anni. Il Mao settantacinquenne, che si alza a stringere la mano a ciascuno di loro, esordisce con un «Come siete giovani!», quasi sorpreso da qualcosa che certamente sa bene, ma che nondimeno dovrà tenere in seria considerazione nel rivolgersi a loro.
Il «palazzo di Triratna» (Sanbaodian, dal nome di una «trinità» buddhista – i «tre gioielli»: il Buddha, la Legge e la Comunità dei monaci) è uno di quei riferimenti colti letti con piglio «popolare» con cui Mao amava colorare il suo stile parlato, specialmente nel registro più polemico. Qui sembra voler attenuare con una battuta i rapporti gerarchici. Le parole rivolte a Huang Zouzhen («non eri stato ucciso?»), un dirigente militare che teneva i difficili collegamenti con i capi delle Guardie rosse e che aveva organizzato la loro venuta a Zhongnanhai, danno una misura del clima: gli scontri a Qinghua erano stati cruenti, e anche un «ambasciatore» come Huang aveva corso seri rischi. In questo caso la battuta mira probabilmente a sdrammatizzare, esagerando. (…) Tuttavia il problema in discussione era come trattare quella situazione in quanto situazione politica, cioè non solo in termini di ordine pubblico (fu un raro esempio di soluzione fondamentalmente non militare di una crisi del genere), ma come esito di un processo soggettivo, che Mao così descriveva: Voi avete fatto per due anni la Rivoluzione Culturale, la lotta-critica-trasformazione. Adesso, primo, non state lottando, secondo, non state criticando, terzo, non state trasformando. Sì, state lottando, ma è lotta armata. Il popolo non è contento, gli operai non sono contenti, i contadini non sono contenti, gli abitanti di Pechino non sono contenti, nella maggioranza delle scuole gli studenti non sono contenti, compresi quelle delle vostre università.
Perfino all’interno della fazione che vi sostiene ci sono degli scontenti. Potete forse unire l’intero paese (tongyi tianxia, «unificare quel che è sotto il cielo») in questo modo?
(Rivolto a Nie Yuanzi) Nella «Nuova Beida» tu, «Vecchio Buddha» (Laofoye), hai la maggioranza. Tu sei filosofa, non dirmi che nella «Nuova Beida (Comune)» (la fazione maggioritaria) e nel Comitato Rivoluzionario dell’Università (sotto il controllo di Nie) non c’è nessuno contro di te. Non lo credo affatto! Non te lo dicono in faccia, ma alle spalle parlano molto male di te. (…)
Presidente: Siediti, siediti. Su questi problemi dovremmo essere un po’ flessibili. Dopotutto questi sono studenti, non bande criminali . Il punto è che le due fazioni sono prese con tutta l’anima nella lotta armata. Questa lotta-critica-trasformazione (dou-pi-gai) non sta funzionando. Forse ci vuole la lotta-critica-andar via (dou-pi-zou). Gli studenti cominciano a dire così: «lotta-critica-andar via», oppure «lotta-critica-dispersione» (dou-pi-san). Ora molti studenti fanno parte della lazione dei disimpegnati (xiaoyaopiii). La gente parla molto male di Nie Yuanzi e di Kuai Dafu. Nie non ha molta carne da cannone, e così anche Kuai, a volte trecento persone a volte centocinquanta. Si può fare un confronto con le truppe di Lin Biao o di Huang Yongshen? Questa volta con un colpo solo io ho mandato trentamila persone.
La formula «lotta-critica-dispersione» era un’aperta parodia dello slogan dei due anni precedenti «lotta-critica-trasformazione» (dou-pi-gai), con cui erano stati indicati gli obiettivi delle Guardie rosse nelle università.
Non fu mai ufficialmente citata, ma fu quella di fatto adottata: le fazioni furono «disperse», cioè furono dissolte le organizzazioni delle Guardie rosse, che del resto gran parte degli studenti avevano già abbandonato; e per la trasformazione dell’università, come vedremo, fu tentata una strada completamente diversa. E notevole che in questa riunione, dove si stava cercando una soluzione politica, e non semplicemente militare, Mao sottolineasse spesso le relazioni soggettive che erano in gioco in quel momento, incluse quelle che si manifestavano nella riunione stessa. Mao interruppe varie volte gli interventi più irritati degli altri membri del Gruppo centrale
Presidente: Alcuni dicono che gli annunci pubblici del Guangxi valgono solo nel Guangxi e quelli dello Shenxi solo nello Shenxi. Allora adesso io faccio un annuncio di carattere nazionale: chiunque continua ad attaccare con le armi l’Esercito di liberazione, a distruggere i mezzi di trasporto, a uccidere la gente e ad appiccare il fuoco, sta commettendo dei crimini. Coloro che non vorranno ascoltare la persuasione e continueranno in questi comportamenti sono dei banditi, degli elementi del Guomindang, e saranno arrestati. Se continuano a resistere saranno annientati.
Lin Biao: Attualmente alcuni sono gruppi di veri ribelli (rivoluzionari); ma altri sono banditi ed elementi del Guomindang che usano la nostra bandiera per ribellarsi . Nel Guangxi sono state bruciate mille case.
Presidente: Nell’annuncio (sulla cessazione degli scontri) si deve scrivere chiaramente e spiegare chiaramente agli studenti che se continuano (nella lotta armata) e non cambiano comportamento, saranno arrestati. Questo per i casi meno gravi. Nei casi più gravi, saranno circondati e annientati. Non era il Guomindang che agiva così? Questa è come l’agonia disperata dei nemici di classe. Bruciare le case è un grave errore. (…)
Han Aijing: Kuai Dafu sta cavalcando una tigre da cui non può scendere.
Kang Sheng: No, non è questa la situazione.
Presidente: Se non può scendere dalla tigre, allora uccidiamo la tigre.
(Articolo tratto da “L’assalto al cielo”, a cura di Tommaso Di Francesco, Manifestolibri, 2005)

Attualità del maggio cinese

Maggio 1966. Fu l’alternativa non capitalista all’arretratezza e ai modelli dell’Urss

di Tommaso Di Francesco il manifesto 19.5.16
Ma c’era un’altra possibilità per la Cina di non seguire la «linea capitalistica» per uscire dall’arretratezza e dalla subalternità nella quale era relegata nell’epoca della spartizione del mondo tra Usa e Urss? Cinquanta anni fa questa possibilità alternativa fu rappresentata, dal 1966 al 1968, dalla Grande Rivoluzione culturale proletaria. Una linea politica che voleva per la Cina uno sviluppo «moderno» ma fondato sull’egualitarismo e sul controllo dal basso dell’economia, rifiutando inoltre l’applicazione alla Cina delle ricette fallimentari dei paesi di socialismo reale – come lo sfruttamento intensivo delle campagne per edificare una grande industria pesante che Stalin aveva voluto nelI’Urss. La linea della Rivoluzione culturale attraversò e spaccò le fila del Pcc e del governo, e venne lanciata dal basso, dall’Università di Pechino, dai movimenti più intransigenti di studenti e quadri operai e contadini, ma anche dall’alto, dallo stesso Mao Zedong. Che la rilanciò dall’interno e contro il Partito comunista cinese. Portando così, per la prima volta nella sfera della politica monopolizzata dal Partito, la realtà dei nuovi movimenti.
Il 25 maggio 1966 sette giovani docenti e studenti dell’Università Beida affissero il primo manifesto a caratteri cubitali (dazebao). Al di là del contenuto del dazebao, la protesta era diretta, cioè non autorizzata da strutture di partito, e per questo rappresentava una ribellione aperta al Partito. Mao la legittimò, dichiarando che essa rappresentava «il manifesto della Comune di Parigi degli anni Sessanta del ventesimo secolo», e invitando tutti a fare altrettanto. E il 5 agosto affisse alla porta del comitato centrale il suo dazebao personale: «Bombardate il quartier generale».
Fu l’inizio di un vasto rivoluzionamento che dalla Cina arrivò a parlare direttamente all’Occidente. Sì, dall’arretrata Cina, a così forte composizione contadina, arrivò il messaggio «ribellarsi è giusto» e gli stessi temi – la riscoperta dell’autonomia e dell’alterità totale del proletariato, l’egualitarismo, la fine delle gerarchie, la fine della divisione sociale del lavoro, il tentativo di riequilibrare la rottura storica tra città e campagna, il valore di potere degli organismi di movimento, unica fonte di legittimità dei partiti del movimento operaio – che emergevano nelle mature società avanzate dell’Occidente e che esplosero in grandi movimenti di massa nel 1968 e nel 1969.
La natura e il fallimento di quel movimento sono ancora silenziati se non contraffatti da molti sinologi occidentali e anche da una parte dell’intellettualità cinese – dove resta difficile parlare di due cose: della Tian An Men 1989 e della Rivoluzione culturale 1966. La responsabilità della sconfitta di una linea politica ed economica egualitaria, l’unica possibile per la crescita reale di un paese fortemente arretrato che, 50 anni fa come oggi, vale un terzo dell’umanità. Rappresentando a quel punto un modello di sviluppo alternativo non solo per la Cina. Che ora, grazie alla sconfitta della Rivoluzione culturale e all’applicazione della «ricetta capitalistica» di Deng, ha invece inverato la globalizzazione diventando di fatto l’unico capitalismo esistente al mondo, ormai alle prese con la crisi profonda del capitalismo internazionale finanziarizzato – Pechino detiene fra l’altro il pacchetto dell’intero debito estero Usa.
Dunque, «tornare» a interrogarsi sulla Rivoluzione culturale non solo è necessario. Ci riguarda e la stessa Cina è tornata sui temi di fondo di quel movimento, certo più o meno consapevolmente nel tentativo di risolvere la vastità delle protesta sociale contro le diseguaglianze, questione esplosa con il caso Bo Xilai anche nel Pcc. Di fatto, solo il movimento della Tian An Men nel 1989, per un momento e tra mille ambiguità, ha portato in primo piano la possibilità di organizzare luoghi della politica e del potere, diffusi e molteplici, fuori dello stato. Lo stesso tema che la Rivoluzione culturale con il suo «assalto al cielo» aveva lasciato irrisolto.
Il tentativo della Cina degli Anni Sessanta di costruire un modello di transizione socialista diverso da quello dell’Unione sovietica, non fu atto di fideismo e fedeltà ideologica. Fu un «atto di verità», scrisse Franco Fortini, la proposta «di un rischio che si gioca di giorno in giorno, di singolo in singolo, che conta sulle proprie forze di ogni singolo… fino a far coincidere la libertà con il rischio etico». 

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