Giovanni De Luna: «Pd al capolinea ma M5S non è la risposta»
Intervista. Secondo il professore di storia contemporanea all'università di Torino, la giunta di Piero Fassino era valida però non ha funzionato la trasformazione da una dimensione fordista inclusiva all'idea di un città della cultura da cui molti cittadini si sono sentiti esclusi. "A Torino il problema non è la miseria ma Appendino è stata brava ad intercettare una serie di stratificazioni sociali che si sono sentite ai margini". La sconfitta si spiega anche con la deriva del Pd di Matteo Renzi che "è ridotto a una sorta di federazione di feudi tenuti insieme dalla gestione del potere"intervista di Luca Fazio il manifesto 22.6.16
MILANO Giovanni De Luna, 73 anni, insegna storia contemporanea all’università di Torino. Figura di intellettuale non militante ma sempre attento al dibattito politico, è autore di numerosi saggi sulla storia del Novecento, in particolare sul fascismo e la Resistenza. Gli abbiamo chiesto di leggere il voto che ha sconvolto il panorama politico italiano, a cominciare dalla clamorosa sconfitta di Piero Fassino sconfitto al ballottaggio da Chiara Appendino.
Professor De Luna, come spiega quanto successo a Torino? Se lo aspettava? Non me l’aspettavo. Chiara Appendino di suo ha che non rappresenta il grillino tipo, non ha fatto una campagna elettorale aggressiva e ha assunto un basso profilo mediatico. Ha proposto un’immagine rassicurante e ha funzionato. Altri fattori sono stati decisivi. La sua appartenenza alla borghesia torinese tradizionale non ha spaventato l’elettorato, ha lavorato per la Juventus e questo significa essere dentro a una Torino di un certo tipo. Non corrisponde all’identikit di una rivoluzionaria. E’ stata brava ad intercettare una serie di stratificazioni sociali che si sono sentite escluse. Credo che le giunte di centrosinistra degli ultimi 23 anni siano state valide perché hanno trasportato Torino da una dimensione fordista a quella culturale. Il problema è che il modello fordista era inclusivo, i quartieri di Torino erano operai e tutta la vita della città si plasmava su quel modello, le persone puntavano la sveglia alla stessa ora. La sostituzione di quella dimensione con il “modello culturale” però non ha funzionato. Bisogna ammettere che bisogna essere capaci se si riescono a portare un milione di persone al museo egizio, però questa efficacia non ha avuto e non ha la forza di un modello inclusivo. Ci vuole qualcosa in più, ci vuole la politica.
Appunto. Si andava dicendo che Piero Fassino aveva governato bene. Il voto però ha smentito clamorosamente questa sorta di autocompiacimento. Non è semplicistico attribuire la sconfitta a un generico voto di protesta? C’era un forte nucleo di verità in quell’autocompiacimento. Torino in questi venti anni è stata governata da una sorta di casta, ma non era una casta parassitaria. Però è vero che questa casta ha escluso tutta una parte di cittadini. C’è stato un voto rancoroso che esprime mugugni e frustrazioni, c’è poi stato il voto di chi si è sentito escluso dalla parte buona della città. Tutti oggi parlano di periferie, ma intendiamoci: le periferie torinesi non sono come le banlieues francesi. In quei luoghi c’è un benessere che non si è tradotto in qualità della vita, quelli sono soprattutto luoghi tristi.
Su la Repubblica l’ex sindaco ha detto che quando un pensionato guadagna 400 euro al mese e deve mantenere un figlio disoccupato va a finire che vota Grillo. Lui però è un dirigente del partito che governa, forse si è accorto con qualche anno di ritardo del disagio sociale che affligge una parte dei cittadini. Appendino ha detto vivo in una città dove ci sono le code ai musei e le code davanti alle mense per i poveri. Forse è questo il punto.
Il problema a Torino non è la miseria, non c’è emarginazione sociale. Ma è vero che nelle periferie non si sono servizi per i cittadini, non ci sono biblioteche. Ci sono quartieri con casermoni a stretto contatto con i campi rom e in quei luoghi è cresciuto un risentimento incredibile. Sono persone che hanno comparato quelle case negli anni ’60 e ’70, non ci sono sacche di indigenza, è la qualità della vita che è desolante. Sul Movimento Cinque Stelle voglio essere chiaro, a me questa cosa ricorda le origini della lega, gli umori che asseconda sono gli stessi. E’ una mutazione genetica delle forme della rappresentanza politica, io sono un uomo del Novecento.
Fassino si ostina a parlare di antipolitica. Però il percorso di Chiara Appendino – e anche di Virginia Raggi – dice l’opposto. Sono due giovani donne che cinque anni fa sono entrate in consiglio comunale e oggi sono diventate sindaco. Non direi antipolitica, quella del M5S è una forma diversa di organizzazione politica. Chiara Appendino ha la sua forza nella militanza, negli ultimi cinque anni ha fatto politica ininterrottamente, i grillini hanno riscoperto la militanza dal basso. D’altra parte il Pd ormai si è ridotto a una sorta di federazione di feudi tenuti insieme dalla gestione del potere. Non c’è dubbio che il segreto del loro successo sia la riscoperta del porta a porta. Ma è sui loro valori di riferimento che ho molte perplessità. Lo devo ammettere, per me è una ferita sapere che molti miei amici li abbiano votati.
Lei ha sostenuto Fassino dicendo “sono perplesso rispetto ai movimenti come il M5S che azzerano il passato negandolo in nome di un nuovo senza forma e sostanza”. Però è innegabile che il profilo di Chiara Appendino abbia tratti in comune la sinistra. A cosa si riferisce quando parla di passato negato? Era una frase estrapolata. Quando dico che dobbiamo rifondare un patto con la memoria intendo dire che bisogna decidere cosa dobbiamo tenere e cosa dobbiamo buttare del nostro passato. In questi ultimi venti anni, Costituzione, Resistenza e antifascismo vengono sbandierati solo in chiave elettorale e niente più, mentre si sono moltiplicate in maniera patologica le commemorazioni di tipo vittimario. E loro sono intrinsechi a questo modo di ragionare. Tra i loro santi laici non ce n’è uno che abbia a che fare con la Resistenza, però ci sono tutte le vittime della mafia e le vittime del terrorismo, che poi finiscono per essere tutte uguali.
Non è che la sinistra sia sfuggita a questo paradigma vittimario. Certo, non riguarda solo i cinque stelle. Ma voglio credere che per la sinistra alcuni eventi fondativi possano essere ancora il terreno per ricostruire una storia condivisa.
Il Pd, in tutte le grandi città, si afferma solo nelle zone dove abitano i cittadini benestanti. Come giudica questa incapacità di “creare popolo”? Di sicuro questo è l’approdo di un percorso lunghissimo. Penso a Togliatti quando vuole allearsi con De Gasperi, al compromesso storico, o a D’Alema che attraverso la bicamerale voleva riformare la Costituzione con Berlusconi… continuando a inseguire il tuo avversario va a finire che il tuo avversario si sostituisce al tuo partito. Matteo Renzi è solo il prodotto finale di una lunga storia. Il Pd, con totale disinvoltura, considera il mercato come l’unico mondo possibile. Si sono tuffati in questa realtà.
Un processo irreversibile? Ho l’impressione che il Pd sia arrivato al capolinea di una lunga stagione politica. Per tornare a Torino, guardiamo a Piero Fassino: anche lui non ha saputo creare una nuova classe dirigente, quella esistente proviene ancora dal vecchio Pci e i nuovi politici sono agghiaccianti dal punto di vista della loro pochezza. Detto questo, continuo a pensare che il Movimento Cinque Stelle sia una risposta sbagliata.
Il clamoroso voto di Torino, che è la città del lavoro per eccellenza, la città del movimento operaio, la culla della Resistenza e molto altro ancora, non dice forse che per la sinistra potrebbe essere finita una storia? Secondo lei c’è ancora spazio per una forza non residuale di sinistra in Italia? Io continuo a credere che sinistra e destra, prima che due formazioni politiche, siano soprattutto due dimensioni esistenziali. Ci sono due Italie che per quasi un secolo si sono confrontate e scontrate duramente e questa tensione c’è sempre, i bacini naturali di riferimento di queste dimensioni esistenziali ci sono sempre. Questo è un discorso che vale per la sinistra ma anche per la destra, in questa fase storica la destra è spappolata politicamente ma l’identità comunque c’è e rimane ancora forte.
E’ una lettura che lascia spazio a qualche speranza oppure significa che la “sinistra” dovrà restare alla finestra ancora per un paio di generazioni? Non lo so, e non è detto, nella storia e in politica agiscono meccanismi di rigenerazione anche rapidi. Guardiamo quello che è accaduto in pochi anni con il Movimento 5 Stelle, è un esempio. Il meccanismo dipende anche dalle congiunture che si attraversano, per questo non me la sento di dire che sia una storia finita. Se poi mi si viene a parlare di quegli embrioni organizzativi che si stanno muovendo alla sinistra del Pd, allora sì, mi viene da dire che quella sia proprio una storia finita.
dove nasce il risentimento verso i politici Stefano Lepri Busiarda 24 6 2016
Immiserimento dei ceti medi, disagio delle periferie, nuove povertà sono parole disparate con cui cerchiamo di afferrare ciò che il terremoto elettorale nei Comuni rivela. Ma bisogna guardarsi da schemi frettolosi, buoni in altri Paesi.
In Italia la crisi ha caratteristiche proprie; e il Movimento 5 stelle non somiglia a nessuna delle forze che raccolgono la protesta altrove.
Altrove esistono «perdenti della globalizzazione» più facili da identificare come categoria sociale. Nel voto britannico di ieri, il Nord deindustrializzato a fronte della Londra ricca. Negli Stati Uniti in campagna elettorale, la classe operaia bianca i cui redditi sono fermi da forse trent’anni, se non in regresso.
Nell’insieme dei Paesi avanzati, le disuguaglianze sociali si sono accresciute, anche gravemente. Che l’1% soltanto della gente si sia arricchito, e il 99% no, è una forzatura ideologica, però negli Usa se si corregge in 10% e 90% non si è lontani dal vero, e non va bene. In più, l’uscita troppo lenta dalla grande crisi toglie speranza di un futuro migliore.
L’Italia risulta, al contrario, perdente nel suo insieme; per motivi complessi, probabilmente di origine soprattutto interna. Il reddito pro capite, già stagnante prima della crisi, è oggi del 7% inferiore a quello del 2000. Tuttavia, dai dati Istat e Banca d’Italia non risulta un aumento della diseguaglianza media.
Bisogna osservare più in dettaglio. Significativo è il primo dei grafici che compaiono nell’indagine Nomisma sulle famiglie pubblicata ieri. La «debole ripresa» che risulta dagli indicatori ufficiali dell’economia i giovani sotto i 35 anni non l’hanno mai vista. Solo nelle fasce di età superiori si comincia a tornare sopra i livelli di reddito del 2010.
Tra i giovani, anche chi trova un posto fisso (ora magari con un contratto a tutele crescenti) guadagna assai meno, a parità di qualifica, rispetto ai suoi simili di 10 o 20 anni fa. Sono poi esili le speranze di carriera. Secondo uno studio dell’economista Michele Raitano ripreso da Nomisma, l’Italia è uno dei Paesi dove più i figli dei ricchi restano ricchi e i figli dei poveri restano poveri.
La disuguaglianza dunque non è cresciuta in sé ma sempre più si eredita; e per chi ha trent’anni il nostro è già un Paese in rapido declino. Quasi metà dei ragazzi di liceo sognano di trasferirsi all’estero. D’altronde in Italia sono rari i casi di arricchimento fulmineo nella finanza o negli affari (pur se destano scandalo gli stipendi dei capi di certe banche in difficoltà).
Calo dei redditi e perdita di speranze per i figli, sentiti come fenomeno collettivo, inducono a confessare ciò che forse prima si celava. Una risposta come quella sulle accresciute difficoltà a pagare i mutui casa – in un periodo di tassi di interesse al minimo! - annuncia forse un atteggiamento più aggressivo nei confronti delle banche. Però il bersaglio vero è un altro.
In una economia che stenta tutta, come la nostra, si è diffusa l’impressione che l’unica via per fare denaro in fretta fosse sfruttare il denaro pubblico, entrando in politica o facendo affari con i politici. Non avendo nababbi di Wall Street o della City a fronte delle difficoltà delle piccole imprese e degli stipendi fermi, il risentimento si è concentrato contro la «casta» dei politici.
In tutti gli altri Paesi quello che si usa chiamare «populismo» assume alla fine caratteri riconoscibili o di destra o di sinistra, benché diversi rispetto al passato. Da noi no: un meccanismo della politica bloccato, percepito come benefico solo a se stesso, genera una forza di opposizione dal programma vago il cui unico punto irrinunciabile è fare piazza pulita dei politici precedenti.
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DOBBIAMO ROTTAMARE LA PAROLA ANTIPOLITICA?
Cinque Stelle I voti grillini sono un esperimento democratico
Corriere della Sera 24 Jun 2016 Di Paolo Franchi
La cosa non ha alcun valore statistico. Ma, a chiedere ai vostri conoscenti (nel mio caso, tra gli altri, il dentista, il postino, il barista, il giardiniere, la segretaria del commercialista, il consulente bancario, tutte persone che, fin qui, votavano a sinistra, a destra, al centro, o da un pezzo non votavano affatto) perché stavolta hanno scelto i Cinque Stelle, la risposta più frequente sarà probabilmente questa: gli altri li abbiamo tutti provati, i risultati si sono visti, adesso proviamo con questi che sono comunque una novità, ci sarà tempo e modo per giudicarli da quello che faranno. Certo una simile argomentazione non spiega tutto. Ci aiuta a capire, però, che rappresentare il clamoroso successo dei Cinque Stelle come un trionfo dell’antipolitica è una sciocchezza. Se tanti suoi nuovi elettori ragionano in questi termini, così ottimisticamente democratici, vuol dire che, tra le tante parole vane di cui ci siamo nutriti per anni, « antipolitica » è forse quella da archiviare più in fretta. Nei tempi di turbolenza, la politica, a meno che non si continui, a dispetto dei santi, a immaginarla come appannaggio esclusivo dei suoi attori tradizionali, le vie per venire a galla le trova. Non è detto che sia un bene, per carità. Ma, se non le abbiamo nemmeno intraviste, peggio per noi.
Renzi di questo ha preso atto almeno sin dalle elezioni del 2013. E di qui ha preso le mosse la sua narrazione di capo di governo e di leader di partito. Anche populismo, al pari di antipolitica, è parola malata, ma, in assenza di meglio, utilizzarla serve a capirsi. Al populismo «dal basso» politicamente incarnato da Grillo e da Casaleggio, ha contrapposto un populismo «dall’alto». Fondato anch’esso sulla (non infondata) convinzione che in Italia e in Europa le vecchie forme di organizzazione della società e del potere, nonché le culture politiche (il popolarismo e la socialdemocrazia) che le ordinavano, fossero al lumicino. Ma imperniato sull’idea che, una volta conquistati prima il Pd, poi, come logica conseguenza, il governo, la grande trasformazione si potesse indirizzare di lì, in parte neutralizzando, in parte assorbendo, pure quel che restava del centrodestra, anche grazie a un rapporto diretto tra il leader e i cittadini garantito da una comunicazione politica moderna ed efficace: l’io dell’età dell’individualismo di massa, in luogo del noi del tempo che fu, praticato nei fatti in attesa che il combinato disposto tra referendum e Italicum lo istituzionalizzasse. Non era la furbata di un giovanotto di provincia assetato di potere, il quaranta per cento degli elettori gli diede fiducia, mezza Europa (di centrosinistra e non solo) vi intravide una speranza. E il suo partito, compresa, seppur malmostosamente, la minoranza, magari lo guardò un po’ storto e gli fece un po’ di resistenza passiva, ma in ultima analisi gli si affidò, nella speranza inespressa che, lui regnante, finalmente passasse la nottata. In nome di una considerazione a lungo inoppugnabile. Si può criticare quanto si vuole Renzi, ma, se cade lui, qual è l’alternativa?
Forse nemmeno il voto di Roma, di Torino e di quasi tutte le città dove il Movimento Cinque Stelle è andato al ballottaggio basta a dire che un’alternativa ci sia. Ma neanche il sostenitore più convinto di Renzi scommetterebbe più a occhi chiusi sull’accoppiata referendum-Italicum. Persino se a ottobre vincesse il Sì, chi può essere certo che alle elezioni politiche, nel ballottaggio, non sarebbero i Cinque Stelle a fare piatto? In ogni caso, per mille motivi, primi tra tutti il perdurare di una crisi restia a farsi esorcizzare dall’ottimismo della volontà, l’accentuarsi estremo delle diseguaglianze, lo stato pietoso di un partito- territorio che ha sempre considerato una palla al piede, il discorso pubblico di Renzi si è inceppato. Il voto ha sancito che il populismo dal basso ha più frecce al suo arco di quello dall’alto. Perché le sue parole, per demagogiche che possano essere, suonano più vere a elettori che considerano gente come loro, non ceto politico, le elette e gli eletti dei Cinque Stelle. E perché, quanto a trasversalità del messaggio politico, non c’è partita: il Pd, con buona pace dei fautori del «partito della nazione», non recupera tra i cosiddetti moderati quel che perde soprattutto in astensioni sull’opposto versante, e i Cinque Stelle, in particolare nei ballottaggi, mietono consensi in ogni dove.
Se le cose stanno così, si capisce bene perché Renzi ostenta la tentazione di gettare il cuore oltre l’ostacolo, lui, dal governo e nel partito, contro il resto del mondo nella sfida finale per guadagnare il titolo di campione del cambiamento: come diceva quel tale, chi si ferma è perduto. Non sarebbe davvero un’impresa facile per un leader che, d’ora in avanti, dovrà rassegnarsi a essere giudicato sempre più per quello che fa, le misure che prende, i risultati che ottiene, sempre meno per una narrazione di sé, amplificata da un coro di apologeti entusiasti, ormai incrinata, o peggio. Per altri sarebbe la normalità, per lui potrebbe essere una dannazione. E il fatto che i suoi avversari, né a destra né nel Pd e dintorni, non ne abbiano una più efficace da contrapporgli, sarebbe una ben magra consolazione.
Dove nasce il risentimento verso i politici
di Stefano Lepri La Stampa 24.6.16
Immiserimento dei ceti medi, disagio delle periferie, nuove povertà sono parole disparate con cui cerchiamo di afferrare ciò che il terremoto elettorale nei Comuni rivela. Ma bisogna guardarsi da schemi frettolosi, buoni in altri Paesi.
In Italia la crisi ha caratteristiche proprie; e il Movimento 5 stelle non somiglia a nessuna delle forze che raccolgono la protesta altrove.
Altrove esistono «perdenti della globalizzazione» più facili da identificare come categoria sociale. Nel voto britannico di ieri, il Nord deindustrializzato a fronte della Londra ricca. Negli Stati Uniti in campagna elettorale, la classe operaia bianca i cui redditi sono fermi da forse trent’anni, se non in regresso.
Nell’insieme dei Paesi avanzati, le disuguaglianze sociali si sono accresciute, anche gravemente. Che l’1% soltanto della gente si sia arricchito, e il 99% no, è una forzatura ideologica, però negli Usa se si corregge in 10% e 90% non si è lontani dal vero, e non va bene. In più, l’uscita troppo lenta dalla grande crisi toglie speranza di un futuro migliore.
L’Italia risulta, al contrario, perdente nel suo insieme; per motivi complessi, probabilmente di origine soprattutto interna. Il reddito pro capite, già stagnante prima della crisi, è oggi del 7% inferiore a quello del 2000. Tuttavia, dai dati Istat e Banca d’Italia non risulta un aumento della diseguaglianza media.
Bisogna osservare più in dettaglio. Significativo è il primo dei grafici che compaiono nell’indagine Nomisma sulle famiglie pubblicata ieri. La «debole ripresa» che risulta dagli indicatori ufficiali dell’economia i giovani sotto i 35 anni non l’hanno mai vista. Solo nelle fasce di età superiori si comincia a tornare sopra i livelli di reddito del 2010.
Tra i giovani, anche chi trova un posto fisso (ora magari con un contratto a tutele crescenti) guadagna assai meno, a parità di qualifica, rispetto ai suoi simili di 10 o 20 anni fa. Sono poi esili le speranze di carriera. Secondo uno studio dell’economista Michele Raitano ripreso da Nomisma, l’Italia è uno dei Paesi dove più i figli dei ricchi restano ricchi e i figli dei poveri restano poveri.
La disuguaglianza dunque non è cresciuta in sé ma sempre più si eredita; e per chi ha trent’anni il nostro è già un Paese in rapido declino. Quasi metà dei ragazzi di liceo sognano di trasferirsi all’estero. D’altronde in Italia sono rari i casi di arricchimento fulmineo nella finanza o negli affari (pur se destano scandalo gli stipendi dei capi di certe banche in difficoltà).
Calo dei redditi e perdita di speranze per i figli, sentiti come fenomeno collettivo, inducono a confessare ciò che forse prima si celava. Una risposta come quella sulle accresciute difficoltà a pagare i mutui casa – in un periodo di tassi di interesse al minimo! - annuncia forse un atteggiamento più aggressivo nei confronti delle banche. Però il bersaglio vero è un altro.
In una economia che stenta tutta, come la nostra, si è diffusa l’impressione che l’unica via per fare denaro in fretta fosse sfruttare il denaro pubblico, entrando in politica o facendo affari con i politici. Non avendo nababbi di Wall Street o della City a fronte delle difficoltà delle piccole imprese e degli stipendi fermi, il risentimento si è concentrato contro la «casta» dei politici.
In tutti gli altri Paesi quello che si usa chiamare «populismo» assume alla fine caratteri riconoscibili o di destra o di sinistra, benché diversi rispetto al passato. Da noi no: un meccanismo della politica bloccato, percepito come benefico solo a se stesso, genera una forza di opposizione dal programma vago il cui unico punto irrinunciabile è fare piazza pulita dei politici precedenti.
GLI ELETTORI SENZA PATRIA VOLTO NUOVO DELLA POLITICACorriere della Sera 1 lug 2016 Di Paolo Macry
Il progetto renziano di riforme in tempi rapidi e di un nuovo assetto dei poteri sembra in panne. E il punto è la formazione del consenso. Una questione emersa con le recenti Amministrative, ma forse di taglia europea, come suggerisce, buon ultima, la Brexit. Renzi appare alle prese con il grosso problema di gestire politicamente quel che potremmo chiamare l’elettorato senza patria, ovvero un’ampia fetta di opinione pubblica priva di bandiere e perciò disponibile a cambiare bandiera, mobile, sfuggente, imprevedibile. Sono i garantiti che temono la spending review, l’ipersensibile palude degli statalisti, i meridionali sempre in credito di qualcosa, i diffidenti del mercato, i guardiani dei confini. E poi le schiere di anziani smarriti di fronte all’ipertrofia tecnologica, ma anche i giovani senza lavoro che invece di social e cellulari se ne intendono. Essendo estranei alle appartenenze ideologiche e organizzative, mancano di una rappresentanza stabile. Li accomuna, piuttosto, un diffuso sospetto, talvolta una sorda ostilità verso il governo, i partiti, il Parlamento e, in ultima analisi, la politica. Costituiscono una sorta di antagonismo da ceto medio.
Non una novità, a dire il vero. Per decenni, tuttavia, la «Repubblica dei partiti» li aveva controllati con successo, motivandoli con il grande discrimine tra comunismo e anticomunismo e distribuendo risorse materiali. Un successo testimoniato dalla forte legittimazione della rappresentanza. Erano tempi nei quali andava a votare il 90 per cento degli elettori. È soltanto all’indomani del terremoto politico del 1992 che i senza patria assumono un’evidenza fino ad allora nascosta sotto il tappeto. Berlusconi vince attirandone gran parte nella sua nuova maggioranza. Ma si tratta di una coalizione composita, identitaria-mente fragile, difficile da gestire. Neppure il Cavaliere ci riesce. Per quasi vent’anni un intero sistema politico vive sulle sabbie mobili della contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo, pallido surrogato di una fisiologica alternanza.
Il problema si ripropone negli ultimi anni, quando l’elettorato senza patria, oltre che orfano del Cavaliere, appare sempre più preoccupato (talvolta in modo paranoico) dai venti della crisi strutturale. Assomiglia a quei bottegai e agricoltori che nell’Europa tra le due guerre avevano covato sentimenti di odio verso i processi di concentrazione economica, i grandi magazzini, la meccanizzazione delle campagne, le banche. Con le conseguenze politiche che si conoscono. Oggi i temi sono (in parte) diversi: migranti, corruzione, criminalità. Ed è il turno di Renzi. Il giovane leader pensa di occupare quelle praterie attraverso il mantra del rinnovamento anticasta e in un quadro bipolare che, con il declino della destra, lo vede in forte vantaggio. Emerge l’ipotesi del partito della nazione. Il premier vara politiche redistributive e occupazionali, progetta riforme caute e pensa di capitalizzare la sua rendita di posizione con l’Italicum e il monocameralismo.
Ma basta questo per intercettare le ansie dell’opinione pubblica? Si direbbe di no. La comparsa del M5S, che all’inizio vive negli show di piazza di un comico, rompe il disegno con imprevista facilità. Inchioda Renzi allo stigma dell’establishment. Dimostra come, senza una qualche (efficace) gestione del magma degli umori popolari, le opzioni elettorali diventino straordinariamente fluide e il sistema ingovernabile. Nelle Amministrative di giugno, il popolo dei senza patria ha scelto un voto trasversale o non ha votato affatto. Ha mandato cioè un messaggio vistoso: non avendo bandiere, ma convincimenti tenaci e perfino viscerali, promette un nomadismo molto difficile da orientare, mentre la sua vena antagonistica depotenzia ogni tentativo di contrapporgli atti concreti di governo. Stigmatizzarlo come antipolitico è puramente consolatorio. Il fenomeno appare in grado di condizionare e perfino sradicare le strategie dei partiti, a sinistra e a destra. Più che l’antipolitica, sembra il volto nuovo della politica.
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