venerdì 3 giugno 2016

Da Tortorella a Boldrini all'assemblea del No, la Sinistra Inutile ovvero l'opposizione di famiglia


Tortorella: «Riforme, il sì dei falsi realisti» 
Referendum costituzionale. Parla l’ex pci Aldo Tortorella: sbaglia chi dice che bisogna votare turandosi il naso, il premier rottamatore ora cerca di legittimarsi arruolando Berlinguer e Ingrao, ma le loro idee erano incompatibili con una legge ipermaggioritaria 

Daniela Preziosi Manifesto 3.6.2016, 23:59 
L’arruolamento postumo di grandi uomini del Pci, da Ingrao a Berlinguer, e di grandi donne, come Nilde Iotti, alla battaglia per il sì al referendum costituzionale, ante litteram s’intende visto che si tratta di persone ormai scomparse, non stupisce Aldo Tortorella, a sua volta uno dei comunisti che hanno fatto la storia di questo paese. 
Da ragazzo era «il partigiano Alessio», poi fu direttore dell’Unità di Genova, di Milano e di Roma, di lì una lunga storia di dirigente del Pci, nella segreteria di Berlinguer cui resta vicino fino all’ultimo, poi a lungo deputato, contrario alla svolta di Occhetto ma nel «gorgo» del Pds nell’area dei comunisti democratici, e nei Ds fino alla guerra con la Serbia. Poi ha fondato, con altri, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra e dirige la nuova serie di Critica Marxista, rivista che vuole «ripensare e rinnovare la sinistra». 
Dell’uso dei grandi del Pci da parte del premier rottamatore, dicevamo, Tortorella non è stupito. «È significativo che per giustificare la propria condotta si ricorra a un patrimonio ideale da parte di chi lo ha voluto seppellire come cosa morta. Segno che quel patrimonio è ben radicato nella coscienza di molti. Arruolare Berlinguer e Ingrao per questa riforma, che si deve leggere sempre insieme con la nuova legge elettorale, è grottesco prima che rozzo». 
Erano monocameralisti, dicono i renziani. Non è così? 
Ma per Berlinguer r Ingrao il monocameralismo e la riduzione dei parlamentari si collegavano al sistema proporzionale, lo stesso per cui è pensata la Carta. E invece il giovane presidente ha fermamente voluto una legge elettorale ipermaggioritaria, l’Italicum. Del tutto incompatibile con la visione di Berlinguer e di Ingrao. E con la Carta. 
Perché il premier rottamatore e svoltista oggi ricorre ai classici del comunismo, e a qualche partigiano «vero» secondo la lettura del governo, per legittimarsi? 
Perché sente che una parte del paese, della sinistra, e del suo stesso partito non lo segue. Parecchi dei protagonisti di quella storia antica sono viventi, e alcuni sono vicini al Pd o iscritti al Pd, nella parte che si dichiara un po’ più di sinistra. I più anziani sono di cultura togliattiana, come Reichlin, i più giovani berlingueriana, come Cuperlo. 
Ma fra gli ex Pci c’è anche il presidente Napolitano che ha messo a disposizione del sì la sua autorevolezza. Anzi: è stato il tutore delle riforme di Renzi. 
Il Pci non fu mai un monolite come spesso si pensa. Napolitano ebbe una sua posizione non certo coincidente con quella di Berlinguer e meno che mai con quella di Ingrao. La sua posizione certamente si è affermata. I risultati sono quelli che si vedono. Quanta parte dell’attuale corso istituzionale, che oggi in quanto politico sostiene, corrisponda ai suoi propositi non saprei dire. Toccherebbe a lui dirlo. Massimo Cacciari che ci ha spiegato in sostanza che la riforma è assai malfatta ma bisogna votarla, forse turandosi il naso. Perché è un inizio. Di cosa? Di una democrazia decidente. Lo spettro è quello della Repubblica Weimar. Certo che la democrazia deve essere capace di decidere, questa preoccupazione l’avevano anche Ingrao e Berlinguer, ma c’è modo e modo. La democrazia tedesca fu distrutta dai nazisti usando una norma votata a Weimar che sospendeva la Costituzione in caso di stato di eccezione e dava pieni poteri al governo. Nuove norme costituzionali o si fanno bene o si corrono rischi. 
L’argomento di fondo sembra sia la convinzione che la politica viene prima di tutto. Anche prima della Costituzione. 
Quando ci fu la crisi della Prima Repubblica le interpretazioni erano due: la prima, che fosse colpa di una democrazia dimezzata, di qui l’idea di Berlinguer e di Moro di completarla rimuovendo la conventio ad excludendum dei comunisti; l’altra, secondo cui era colpa della Costituzione. E quest’ultima idea risale a molto indietro. La sancisce Cossiga, che come presidente avrebbe dovuto difendere la Costituzione, quando nel ’91 in un messaggio alle Camere dice che la Carta è sbagliata perché frutto di un compromesso con un partito antisistema, il Pci. Ma l’argomento è ancora più antico, risale a Scelba quando nel ’50 dice che «la Costituzione non può diventare una trappola», ha troppe garanzie. Ed è logico che ve ne fossero: perché nasceva in un momento storico in cui era fresca la memoria della tirannide e ciascuna parte temeva l’altra ed entrambe si garantivano. Da qui anche la posizione dell’Anpi: le garanzie andavano rafforzate, non indebolite proprio oggi, di fronte a questo assalto delle forze xenofobe, razziste e autoritarie che riguarda non solo l’Italia, ma l’Europa. L’Ungheria e la Polonia non sono lontane. E l’Austria è al confine. 
Dunque i fan del sì si riferiscono a Scelba quando dicono che questa riforma è attesa da decenni? 
C’è chi aspetta una riforma in senso autoritario da sempre. E non solo i conservatori e i reazionari. Per Edgardo Sogno, un uomo della Resistenza di parte diversa dalla nostra, serviva un colpo di stato per cambiare la Costituzione. 
E in questa vicenda Renzi che ruolo ha? 
Nella satira dei tempi antichi c’era la figura del politico burattino e del suo burattinaio. Ma non è così, il nostro presidente ci mette del suo. Ha un eloquio fluente, sa usare le slide e i tweet. È un convinto propagandista di una posizione politica che viene da lontano, dalla Trilaterale, e recita così: nelle Costituzioni dei paesi dove ci sono stati movimenti di ispirazione socialista c’è un eccesso di democrazia e di potere legislativo rispetto all’esecutivo. Il documento della JP Morgan del 2013 lo dice apertamente: sbarazzatevi delle Costituzioni antifasciste. 
Renzi ha anche un altro ruolo storico: chiudere la stagione, certo tormentata, del centrosinistra attraverso l’Italicum. Una legge elettorale molto maggioritaria i cui frutti non è neanche certo che li raccolga lui e il suo Pd. 
Infatti, il sistema delle garanzie doveva essere rafforzato proprio per il rischio della vittoria di una destra restauratrice e reazionaria. Non credo che dipenda dalla mia tarda età il ritenere che questo pericolo venga sottovalutato. Anche per questo non voglio dare per chiuso il rapporto fra le sinistre. Nel Pd c’è ancora una parte che si ispira a sentimenti e idee di sinistra. Certo, la sua capacità di incidere è modesta, la sua voce è tenue, la sua tenuta è fragile, ma non andrebbe isolata. So bene che l’idea di uno schieramento ampio di sinistra è indispensabile e insieme molto difficile. Servirebbe una sinistra, ma bisogna prima intendersi su cosa si possa essere oggi una sinistra. Nel secolo passato di sinistre ce n’erano due. Una era quella della proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, praticamente fallita nella sua esperienza sovietica. La variante era il Pci con la sua politica riformatrice, in sé ardua, e impossibile in un paese solo e marginale. Poi c’era la sinistra dello stato sociale, la socialdemocrazia. In crisi profonda perché contraddittoria nelle sue premesse. Lo stato sociale è indissolubilmente legato al ciclo economico. Quando viene la crisi ciò che sembrava costruito, frana. Hollande ora è al disastro. Schroeder fece qualcosa di simile alla Thatcher. 
Renzi si sente l’erede dei riformisti e socialdemocratici. 
Forse lo è, ma dei socialdemocratici di destra, quelli di Blair che è un fallito. Egli, non da solo, professa una sorta di liberismo di stato in cui si privatizzano i profitti e si pubblicizzano le perdite. Lo stato diviene una funzione del mercato o, meglio, del capitale finanziario. In ogni caso la difesa dello stato sociale non basta. L’intuizione antica secondo la quale bisognava chiedersi a quale fine e come produrre e consumare torna di piena attualità. Un nuovo pensiero critico viene nascendo in tante esperienze e riflessioni. Bisognerebbe tendere a dare una qualche elaborazione unitaria a questo pensiero. La sconfitta fu culturale e antropologica e non c’è tattica di potere che la risolva. Servirebbe abbandonare la caricatura dello storicismo in base a cui chi vince a ragione. E bisognerebbe farla finita con il volontarismo di chi pensa di poter piegare il mondo a piacimento. Il pensiero critico non vale se non dà vita a un nuovo realismo, dopo il fallimento di quelli che anche nel Pci hanno scambiato per realismo l’accondiscendenza al mondo così com’è.

Quelli del No sulla riva dell’Arno Firenze. «Il futuro della Repubblica, 70 anni di vita civile». In un cinema strapieno, gli avversari della riforma costituzionale mettono in tavola gli argomenti per contrastare nel merito il progetto del governo. L’iniziativa sotto le insegne di Libertà e Giustizia organizzata da Sandra Bonsanti che l’ha condotta assieme alla direttrice del manifesto
Riccardo Chiari Manifesto FIRENZE 3.6.2016, 23:59
«Noi oggi siamo qua per dire che non resteremo in silenzio. Evviva la Repubblica, evviva la Costituzione così com’è». Tomaso Montanari, storico di un’arte da difendere contro l’asservimento al «mercato», parla in un cinema Odeon strapieno. Tocca a lui, partigiano civile di una Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, dare il via a una festa che Sandra Bonsanti (e Maria Rosaria Bortolan) hanno organizzato con cura certosina. Un appuntamento «di alto valore simbolico», ricorda Bonsanti, fondatrice di Libertà e Giustizia, che con Norma Rangeri tiene le fila della discussione.
Anche di alto valore pratico: all’ingresso della splendida sala nel palazzo dello Strozzino c’è la fila per firmare i referendum. Tutti, da quello costituzionale a quello sulla legge elettorale, e poi quelli su jobs act, «buona scuola», privatizzazione dei servizi pubblici. Un gruppo di volontarie si sacrifica: per loro «Il futuro della Repubblica. 70 anni di vita civile» resta un’eco indistinta di interventi. E di applausi, fortissimi quando Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Marco Travaglio e altri ancora demoliscono la narrazione farlocca, cialtrona – e pericolosa – che gli attuali governanti stanno ammannendo a reti unificate. A un popolo più stanco, e impoverito, che distratto.
«Anche noi abbiamo diritto di parola», ricorda Bonsanti a una platea dove si affacciano anche i giovani, stipati nel loggione e pronti ad appuntarsi le parole di un energico sempreverde di 92 anni, Carlo Smuraglia: «In quel 1946 quasi potevamo toccare il sogno che in Italia nascesse una vera democrazia – ricorda il presidente dell’Anpi – grazie al voto alle donne, alla nascita della Repubblica, all’Assemblea Costituente. Il paese si emancipava». Cosa è rimasto di quel sogno? «Non si è compiutamente realizzato. Così oggi, mentre festeggiamo l’anniversario del voto alle donne, scopriamo con sgomento che ne hanno appena bruciate due».
Ma Smuraglia e i partigiani, come sempre, non si arrendono: «Come possono chiamarla democrazia, quando aumentano da 50 a 150mila le firme per le leggi di iniziativa popolare? E poi si fa una legge elettorale che nel nome della cosiddetta “governabilità”, una balla che ci propinano ogni giorno, fa rimpiangere perfino la legge Acerbo, la “legge truffa”. Ma democrazia è governo di molti, non di pochi. E quando si può vincere, come oggi con il referendum, la regola è che si deve vincere».
Il boato di applausi che saluta Smuraglia accompagna anche l’intervento di Gustavo Zagrebelsky, di cui andrebbe studiato il dialogo con Luciano Canfora sulla «Maschera democratica dell’oligarchia». Il costituzionalista chiede che si faccia ricorso alla ragione: «Vorremmo un dibattito, perché non siamo dei fanatici, non siamo dei dogmatici. Ma, come alla scuola elementare, vorrei chiedere: “Signora ministro, potrebbe spiegarci, con le sue parole, cosa c’è nella legge costituzionale?”».
Al di là del rischio, Zagrebelsky guarda all’opportunità del referendum: “Quello che può accadere potrebbe essere una grandissima occasione per il popolo italiano. Per rivitalizzare la nostra democrazia”. Che non se la passa certo bene: “Guardiamo all’articolo uno della Costituzione, dove, senza pause, è scritto ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’. Dunque non ci può essere un’Italia senza lavoro, senza democrazia, senza Repubblica. Il lavoro deve essere un motivo di emancipazione, i diritti non sono doni ricevuti con il beneplacito del potere, e la Repubblica deve essere fondata non sulla finanza ma sul lavoro”.
Infine Zagrebelsky ricorda le parola di Vittorio Foa: «I veri beni repubblicani spesso sono immateriali, come la scuola, la salute, o i beni comuni». Tutti a rischio oggi, chiosa il costituzionalista, che offre un assist alla direttrice del manifesto quando segnala come, per gli anziani meno abbienti, oggi sia venuta meno anche la possibilità di avere una dentiera. «E sì che ne abbiamo tutti bisogno – annota Rangeri – oggi la Costituzione va difesa anche con i denti».
Applausi, che diventano un’ovazione quando interviene Maurizio Landini: «Per tutte le leggi approvate in questi anni – ricorda il segretario della Fiom Cgil – non è stato chiesto a nessuno cosa ne pensasse. Questo potrebbe essere l’anno in cui ci riprendiamo la parola che ci hanno tolto. Perché l’attacco ai diritti del lavoro e non solo va avanti da tempo. Dalla lettera della Bce dell’agosto 2011, applicata da Monti, da Letta, da Renzi».
A quest’ultimo Landini riserva un cammeo: «Si approva il jobs act, e poi il genio di Firenze lo definisce come “la cosa più di sinistra che ha fatto il governo”. Quando invece offre ai peggiori imprenditori, perché ce ne sono anche di bravi, la possibilità di licenziare chi vogliono. I lavoratori “scomodi” per primi». Quanta differenza con lo Statuto dei lavoratori, «che salvaguardava dai licenziamenti arbitrari, ed è stato approvato con l’astensione del Pci e il voto favorevole di Dc, Psi, Pli e Pri, in un parlamento eletto dal 95% degli aventi diritto». Non come oggi, dove domina l’astensione: «Quella delle persone più povere, che stanno peggio, che non vedono più nessuno che possa rappresentarle». Ma c’è ancora una speranza: «Votare No oggi è l’unica condizione per poter dire “sì” domani al cambiamento, vero, del paese».

Boldrini: sul referendum no agli scontri di parteintervista di Monica Guerzoni Corriere 3.6.16
La presidente della Camera Laura Boldrini al Corriere : il referendum costituzionale di ottobre non è sul governo, no a scontri di parte.
ROMA Novecento ragazzi nell’aula di Montecitorio, tra studenti, scout e volontari del servizio civile. E quando la cerimonia del 2 Giugno finisce parte l’assalto dei giovani per scattarsi un selfie con Laura Boldrini. La chiamano per nome, le chiedono di voltarsi o di sorridere, neanche fosse un’attrice sul tappeto rosso della Croisette di Cannes e non la terza carica dello Stato. Una piccola prova di resistenza per la presidente della Camera, che riemerge dall’onda provata, ma contenta per come è andata: «C’è una Italia positiva, costruttiva, che è migliore di quanto noi a volte avvertiamo, perché non fa notizia. Sono assolutamente d’accordo con il presidente Sergio Mattarella».
I ragazzi hanno ricevuto una copia della Costituzione, lei pensa che sia ancora la «più bella del mondo»?
«Questi ragazzi hanno lavorato sulla Costituzione, sono modelli davvero positivi. Dedicano ore del proprio tempo a chi ne ha bisogno, si occupano di ambiente, del sociale e vanno valorizzati per questo. Da due anni apro Montecitorio il 2 giugno per dare un riconoscimento a tutti coloro che decidono di occuparsi del Paese e a loro dico, “anche voi siete la Repubblica, voi traducete i valori della nostra Carta in azioni concrete”».
I 70 anni del voto alle donne sono stati celebrati con grande commozione. Eppure l’astensione dalle urne è al massimo storico.
«Al 1946 siamo arrivate non per gentile concessione, ma grazie a tante donne straordinarie che hanno combattuto con perseveranza per quel risultato. E anche grazie a uomini come il deputato mazziniano Salvatore Morelli, che nel 1867 presentò una proposta di legge contro la schiavitù domestica, il divorzio e per il voto alle donne. Quasi gli farei fare un busto, qui alla Camera».
Un busto per Morelli?
«È lui il mio eroe maschile. Per le sue idee si condannò al pubblico ludibrio. Nei resoconti parlamentari dei suoi interventi in Aula si legge “ilarità, risatine, sommovimenti”. La satira lo ritraeva vestito da donna... Un uomo molto avanti e dalla parte delle donne. Ne abbiamo bisogno anche oggi, di uomini così. Ecco, vorrei mandare un messaggio forte e chiaro agli uomini».
Si riferisce all’omicidio di Sara, ai tragici, ultimi femminicidi?
«Sì, mi riferisco a questo. Agli uomini che, come noi, sono inorriditi, voglio chiedere di non lasciarci sole in questa battaglia di civiltà. Ai violenti voglio dire rassegnatevi, fatevene una ragione, perché noi donne e le nostre ragazze non rinunceremo mai ai nostri diritti, mai limiteremo la nostra libertà. Nulla, nemmeno i metodi violenti, ci faranno tornare indietro».
Non crede che anche la politica usi a volte toni troppo accesi?
«Bisognerebbe abbassare i toni del dibattito pubblico. C’è chi usa un modo aggressivo e sprezzante di esprimersi, specialmente verso le donne, pensando sempre di delegittimarle. E questo ha un peso. Chi ha responsabilità politiche dovrebbe stare attento due volte, sennò rischia di innescare un sistema di emulazione. Anche la pubblicità e la tv dovrebbero evitare di esporre la donna rendendola oggetto. E bisognerebbe cambiare il modo di parlare alle donne e di guardarle. Evitando, quando non si è d’accordo, di rivolgersi a loro con epiteti sessuali».
Lei sprona gli italiani a votare. Vale anche per le amministrative, visto che il governo sembra puntare molto più sul referendum?
«Sì, per me è un valore sempre. Io l’ho detto in occasione del referendum sulle trivelle, lo dico adesso per le amministrative e lo dirò per la riforma costituzionale. Non cambio idea a seconda dell’appuntamento».
L’astensione è al massimo storico...
«La democrazia non si alimenta da sola, se la lasciamo andare cade, come quando si va in bicicletta. Bisogna pedalare per rimanere in sella. Il voto è un diritto e anche un dovere. Non è un dono, è una conquista. Tanti si sono sacrificati per questo, sono morti o hanno dato gli anni migliori della giovinezza. Anche chi non si sente pienamente rappresentato ha comunque il dovere di esprimersi con il voto, altrimenti perde il diritto di lamentarsi».
La nostra democrazia è in pericolo?
«Non direi proprio. Allo stesso tempo però ritengo che il minimo che il cittadino deve fare è andare a votare. E comunque non basta, bisogna regalare tempo ed energie al bene comune. Se ognuno di noi regalasse un’ora alle persone sole, agli anziani, a recuperare uno spazio verde non vivremmo in un Paese diverso? Invece a volte rischia di prevalere l’individualismo, abbiamo bisogno di più spinta ideale per cambiare le cose».
Se passa il referendum, la Costituzione cambierà. Da una parte c’è il governo, che spinge per il sì e ne fa uno spartiacque tra il prima e il dopo. Dall’altra il fronte del no e quanti chiedono che non sia un «armageddon».
«Bisogna stare ai fatti, senza caricare questo voto di altri significati. Noi come italiani ci dovremmo esprimere sul merito della riforma, che è la Costituzione. Il referendum di ottobre non può diventare un test sul governo, non è nelle cose. Stiamo parlando della Costituzione italiana. E qui anche i giornalisti dovrebbero riuscire a non schierarsi, sforzandosi di mettere i cittadini in condizioni di comprendere il merito».
Vede il rischio di dividere l’Italia tra chi vuole cambiarla in meglio e chi vuole che tutto resti com’è?
«Durante l’iter parlamentare tutti i partiti condividevano la necessità di rivedere la Carta e la legge elettorale. C’era chi si batteva per ridurre anche il numero dei deputati, chi sosteneva che fosse meglio abolire il Senato e chi spingeva perché i senatori fossero eletti direttamente. È stato un confronto tra posizioni diverse, non tra chi voleva cambiare e i conservatori. Nessuno voleva che il bicameralismo paritario restasse com’è. Il Parlamento ha approvato la legge e ora il testimone passa agli italiani».
Condivide gli appelli ad abbassare i toni dello scontro politico?
«La Costituzione non la cambi a ogni legislatura, ma quando è strettamente necessario e spesso passano tanti anni tra un intervento e l’altro. E quindi, come ha scritto il direttore Luciano Fontana sul Corriere , giù i toni e no alle tifoserie. Anche perché gli effetti delle riforme si capiscono fino in fondo solo quando vengono messe in atto».
«O cambio l’Italia, o cambio mestiere», ripete il premier. Se vince il no, Matteo Renzi deve dimettersi?
«Io non credo che la questione vada messa in questi termini, per me il quesito è sulla Costituzione e lì mi fermo. Non si dovrebbe caricare di significato politico questo referendum. Non si dovrebbe legare la revisione della Carta al futuro politico di chi oggi è al governo».

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