domenica 19 giugno 2016

Il processo penale nella letteratura




Processo alla letteratura 
La storia. In prigione, in prigione
Da “Pinocchio” ad “Alice”, da Rabelais a Kafka, un libro racconta la giustizia (e le ingiustizie) attraverso i romanzi. Il risultato? Un po’ inquietante Parola di un magistrato che è anche scrittore
GIANCARLO DE CATALDO Restampa 19 6 2016
INGANNATO E DERUBATO DA DUE PERFIDI MALANDRINI che rispondono ai nomi di Gatto e Volpe, il povero Pinocchio chiede giustizia. Il giudice è un Gorilla, vecchio e saggio: dopo aver ascoltato attentamente il racconto di Pinocchio, pur non mettendo minimamente in dubbio che il burattino dica la verità e che il Gatto e la Volpe siano autentici lestofanti, lo condanna alla prigione, perché innocente. E soltanto alcuni mesi dopo, in virtù di un indulto, Pinocchio sarà liberato: ma a condizione di riconoscersi, lui che era parte lesa, colpevole.
Per generazioni di lettori e di esegeti (incluso chi scrive), l’apologo collodiano ha rappresentato una delle tante variazioni sull’antico tema della “giustizia cieca”, ennesima espressione della diffidenza, se si vuole del pregiudizio popolare, contro una macchina percepita come oscura, indecifrabile, sovente bizzarra, talora crudele. Per Bruno Cavallone, autorevole studioso del diritto processuale civile ora consegnato — parole sue — alla «rilassante» condizione di professore in pensione, le cose non stanno proprio così. Stanno, anzi, all’opposto. E non tanto perché il Gorilla di Collodi è molto diverso da quello immortalato da Georges Brassens nell’atto di soddisfare la propria libidine contro un giovane magistrato responsabile di una originale condanna a morte. No. Il fatto è che Pinocchio è sicuramente vittima. Ma, fondamentalmente, di se stesso. E della propria avidità. Nonostante i reiterati avvisi ricevuti da saggi consiglieri, infatti, egli non solo si è fidato dei malfattori (peccato lieve) ma, seminando gli zecchini nel Campo dei Miracoli, si è illuso che la ricchezza possa auto-generarsi. Pinocchio, ed è questo il peccato grave, ha sognato di diventare ricco senza alcun merito, per opera e virtù del potere del denaro in sè: ma una ricchezza autogenerata, senza alcun rapporto con la fatica e il merito, è farina del diavolo. Pinocchio, nota Cavallone, ha creduto alla lanterna magica dell’illusionista, al pari di tanti sventurati che si sono lasciati abbindolare, nei nostri Paesi di capitalismo avanzato, da «prodotti finanziari solo poco più credibili di quelli della Volpe e del Gatto». E si trattava non di sprovveduti burattini, ma di persone «bene informate, e talvolta persino investite di funzioni pubbliche». Degli abbindolati dai derivati tossici e affini si discute quotidianamente: che possano considerarsi epigoni del burattino è affermazione davvero originale. Tanto più che Pinocchio viene «giustamente» punito, ed è scarcerato soltanto quando riconosce la propria colpa: quella di aver creduto in una distorsione della ricchezza. E, dunque, non solo Collodi figura come antesignano della contestazione anti neo-liberista ma, considerato il meccanismo di punizione virtuosa seguita da autocritica, potrebbe figurare degnamente nel Pantheon maoista come esegeta della Rivoluzione culturale.
Ecco uno dei tanti paradossi che costellano La borsa di miss Flite, il volume che Bruno Cavallone ha dedicato al rapporto fra arte e diritto, sotto il particolare profilo dello studio del processo — civile e penale — alla luce di una serie di contributi letterari, drammatici, iconografici che spaziano dalla Bibbia al Corriere dei Piccoli, passando per Shakespeare, Rabelais, Kafka, Brecht e Ettore Scola. Per quanto il rapporto, reciproco, fra artisti e mondo del diritto risalga praticamente alla notte dei tempi, soltanto in epoca relativamente recente gli anglosassoni, notoriamente maniaci delle etichette, hanno classificato la materia sotto la dicitura di
law and literature, originando interessanti studi e istituendo appositi corsi di studio. Materia peculiare e singolare, che forse farà arricciare il naso ai tanti teorici del tecnicismo puro, ma che offre spunti di grande interesse. Cavallone, che ci appare dai suoi scritti in egual misura tecnico della materia e apertamente umanista — spassosa e pienamente condivisibile la sua difesa dell’interdisciplinarietà culturale, massacrata dal mutevole «ma sempre ottuso e dissennato» regolamento dei concorsi universitari — adotta, per ognuno degli argomenti trattati, la linea di un’eccentricità che può lasciare (e talora lascia) perplessi. Mai, però, indifferenti.
A volte, il paradosso è dichiaratamente umoristico. Da quando il genere umano ha deciso di consegnare a uno spazio neutro, sorretto da regole condivise, la risoluzione di controversie che, altrimenti, si sarebbero sviluppate in chiave cruenta, intorno al concetto di processo si sono spese le più svariate definizioni: rito, azione scenica, cerimonia religiosa, alienazione, mistero. Che il processo potesse paragonarsi a un prosciutto, però, è venuto in mente solo a Cavallone. E con fondamento, visto che in secoli lontani la produzione documentale con la quale le parti litiganti affliggevano i giudicanti era tale da riempire interi sacchi ridondanti di materiale cartaceo, sacchi che, appesi per il collo, proprio a dei grassi prosciutti finivano per assomigliare. Altre volte, il paradosso illumina di sinistra ironia la sentenza, l’atto finale nel quale è, o dovrebbe es- sere, racchiuso il senso stesso del decidere.
Il giudice Bridoye, il Briglialoca di Rabelais, che per tutta la vita ha reso giustizia gettando i dadi, e più la causa era controversa, più piccoli erano i dadi, finisce sotto processo in vecchiaia perché una volta, ma una sola, ha sbagliato la decisione. Lo abbiamo sempre considerato una figura umoristica. Cavallone lo rivaluta. Bridoye lancia i dadi soltanto dopo aver approfonditamente istruito la causa. Non li getta a caso, ma a ragion veduta. Le parti, dunque, confidano in un giudizio meditato. Nulla sanno del metodo certo non ortodosso usato dal loro giudice. E dunque, non hanno motivo di diffidare. Cavallone perfidamente si chiede se non sia tutto sommato accettabile una giustizia casuale (il paragrafo s’intitola Apologia del giudizio per sorte) ove sorretta da un serio rispetto delle regole procedurali. Se pensiamo alle reiterate proposte di introduzione del sorteggio come metodo di scelta di rappresentanze qualificate, il plauso per l’arguzia dello scrittore cede il passo all’inquietudine. Dove il paradosso rifulge, però, è quando lascia intuire sfondi di insondabile profondità. La miss Flite del titolo del volume è una figura che compare nella Casa desolata di Charles Dickens. È una signora ossessionata da un’annosa causa civile che trascinerà nel suo delirio il protagonista del romanzo. Per Cavallone, Miss Flite è una fata malvagia, un’untrice. Sparge il contagio del morbo processuale, inducendo il povero protagonista a perdere la ragione pur di proseguire la causa.
Saltando agilmente da Dickens a Carroll, Cavallone ci precipita nell’angoscioso abbraccio di Josef K., vittima designata del Processo kafkiano. Come Alice, quando è sotto giudizio, manda (letteralmente) all’aria le carte da gioco, di fatto disconoscendo la legittimità e l’esistenza stessa del processo, così Josef K. — e gli viene ripetutamente spiegato — potrebbe far finire il processo in qualunque momento, se solo decidesse di farlo. Ma non lo fa. Corre consapevolmente incontro alla rovina perché preda di un morbo che affonda radici nel proprio senso di colpa. Josef K. non è dunque un omuncolo schiacciato da una sovrastante e ingovernabile mostruosità monitoria, nè colui che ha confusamente intuito l’imminente Olocausto. Egli è vittima del processo come contagio: oscura malattia eterna che colpisce soltanto «coloro che — per debolezza, per insicurezza, per vanità, o più in generale per carenza di adeguate difese immunitarie — vogliono far dipendere dal processo il proprio destino». Terribile. Come il processo.
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Alice Il Coniglio diè tre squilli di tromba, poi spiegò il rotolo della pergamena, e lesse così: “ La Regina di cuori fece le torte in tutto un dì d’estate: Tristo, il Fante di cuori di nascosto le torte ha trafugate!”.
“ Ponderate il vostro verdetto!” — disse il Re ai giurati. “ Non ancora, non ancora!”
interruppe vivamente il Coniglio: “ Vi son molte cose da fare prima!”
“ Chiamate il primo testimone”, disse il Re; e il Coniglio bianco diè tre squilli di tromba, e chiamò: “ Il primo testimone!”.
DA “ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE” DI LEWIS CARROLL
Pinocchio
Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla.
Pinocchio, alla sua presenza raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dètte il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finí chiedendo giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerí, si commosse: e quando il burattino non ebbe piú nulla da dire, allungò la mano e sonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: “ Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione”.
DA “LE AVVENTURE DI PINOCCHIO” DI CARLO COLLODI
Gargantua a Pantagruele
“ Di che dadi intendete parlare, amico mio?
domandò Trincamella, gran presidente della Corte.
“ I dadi delle sentenze”, rispose Brigliadoca; “ dei quali dadi voialtri, Signori, usate comunemente in questa Corte Sovrana; così fanno anche tutti gli altri giudici per decidere i processi. E osservano che la decisione è eccellente, onesta, utile e necessaria alla risoluzione dei processi e delle dissensioni”.
DA “GARGANTUA E PANTAGRUELE” DI FRANÇOIS RABELAIS
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Miss Flite
“ Mi onoro di frequentare la Corte con assiduità.
Con i miei documenti.
Aspetto un giudizio.
Tra breve. Il Giorno del Giudizio...”.
DA “CASA DESOLATA” DI CHARLES DICKENS
Josef K.
“ La sentenza non viene a un tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza”.
DA “IL PROCESSO” DI FRANZ KAFKA

IL LIBRO E GLI AUTORI
“LA BORSA DI MISS FLITE.
STORIE E IMMAGINI DEL PROCESSO” (ADELPHI, 301 PAGINE, 28 EURO) È ORA IN LIBRERIA.
L’AUTORE, BRUNO CAVALLONE, È STATO PROFESSORE ORDINARIO DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE NELLE UNIVERSITÀ DI PARMA E MILANO.
GIANCARLO DE CATALDO, AUTORE DELL’ARTICOLO, MAGISTRATO, HA SCRITTO DIVERSI ROMANZI. L’ULTIMO, CON CARLO BONINI, SI INTITOLA “LA NOTTE DI ROMA” (EINAUDI 2015)

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