lunedì 6 giugno 2016

L'edizione critica del Cortegiano


Baldassarre Castiglione  Il Rinascimento e la sua Apocalisse
ALBERTO ASOR ROSA
Nell’epistolario dell’autore del Cortegiano, l’immagine di un’Italia in cui insieme alle meraviglie letterarie e artistiche si accompagna la decadenza politica
Rep 21 10 2016

È uscito recentemente presso Einaudi, nella sempre più preziosa collana dei “Millenni”, un monumentale omaggio alla cultura del Rinascimento italiano: le “Lettere famigliari e diplomatiche” di Baldassarre Castiglione (1779 epistole, in tre volumi, per 3500 pagine), ad opera di un’équipe di studiosi capitanata da Angelo Stella e Umberto Morando, sulle orme di Guido La Rocca, scomparso anni fa (Introduzione, “Al limite della Corte”, di Stella).
Baldassarre Castiglione è universalmente noto (o almeno così dovrebbe essere) quale autore del “Libro del Cortegiano”, uno dei testi capitali di quella civiltà del Rinascimento, cui facevamo riferimento in precedenza. “Le Lettere famigliari e diplomatiche” svelano fino in fondo, oltre
ai particolari più minuziosi della sua biografia, la trama eccezionalmente ricca delle relazioni personali, culturali, civili e professionali, che stanno dietro quel libro. Castiglione, nato a Mantova nel 1478, servì prima i Gonzaga, signori di quella città, poi i Della Rovere, duchi di Urbino (dove è ambientato il Cortegiano) infine i pontefici romani, in particolare Clemente VII, per il quale fu Nunzio pontificio in Spagna, presso la corte del potentissimo imperatore, e re cattolico, Carlo V.
In una miniera così vasta — trent’anni e più di corrispondenza, una miriade d’interlocutori, di situazioni e di funzioni diverse, — è difficile segnalare i tratti salienti. Alcuni, però, emergono e s’impongono di più alla nostra attenzione. Quello linguistico, ad esempio. Castiglione scrive le sue lettere, famigliari o diplomatiche che siano, in un italiano colto, fluente ed elegante, non ancora intrappolato però nella norma toscana, che in quei medesimi anni veniva a poco a poco imponendosi nei ceti colti italiani e che di lì a poco il suo amico Pietro Bembo avrebbe codificato nelle Prose della volgar lingua (1525), altro grande libro tipico del Rinascimento italiano.
Questa espressività è predominante, e persino talvolta appariscente, nelle lettere a carattere privato e famigliare, ma non manca d’improntare anche quelle a carattere politico e civile. Ne forniamo, per motivi di necessità, solo alcuni limitatissimi esempi. Il primo riguarda la corrispondenza con la madre, Aloisia Gonzaga Castiglione, un vero e proprio filo rosso, che attraversa tutto il suo epistolario. Particolarmente commoventi le ultime lettere, scritte in limine, poche settimane o addirittura pochi giorni prima della sua morte. Attiro l’attenzione su quella spedita da Toledo il 27 dicembre 1528: spiega e giustifica la sua “absentia” accanto a lei, anziana e sola, con il suo dovere di compiere, sia pure in nome e per conto del principe, qualcosa per il bene comune. E, con un’impennata degna della migliore invenzione letteraria, conclude: «Delle cose d’Italia ancorch’io non le veda presentialmente con gli occhi, vedole, con l’animo in absentia, e tanto me ne dole quanto deve doler a un buon christiano e bon italiano».
Sottolineo l’importanza di questa autodefinizione: “buon christiano” e “bon italiano”. Nel 1528, quando fu formulata, non era più, per motivi oggettivi e storici, di totale evidenza (tornerò su questo punto).
Nella sua corrispondenza diplomatica, per l’appunto, colpiscono gli echi di questa resistente e duplice autodefinizione (un riflesso, altresì, dei principi alti, non servili, della cortigianeria, come lui li teorizzò nel suo libro). Quando nel 1527 truppe mercenarie tedesche, a forte impronta luterana, al servizio di Carlo V, invadono e saccheggiano Roma, il pontefice Clemente VII accusa Castiglione di non aver saputo né prevedere né ostacolare tale infamia. Castiglione reagisce con forza dignitosa: «La conscientia mia mi sforza, tanto a disculparmi di quello che non solamente mi persuadeva esser disculpato per l’opere, ma meritarne laude e premio, che non posso resistergli… (9 novembre1527; il Sacco di Roma era stato del maggio).
Ma veniamo ad alcune questioni di ordine più generale, senza le quali quanto siamo venuti finora dicendo potrebbe essere inteso con qualche difficoltà. Dopo il congedo dalla machiavelliana democrazia fiorentina repubblicana (Machiavelli, autore e fautore del Principe, dalla parte della democrazia repubblicana? Sì, non v’è ombra di dubbio, ne parleremo un’altra volta), cultura e letteratura, in precedenza fondamentalmente fiorentine e toscane, si allargano a raggiera sull’intero territorio nazionale, con esiti estremamente rilevanti soprattutto nelle aree veneto-padane: Castiglione è di Mantova, Bembo di Venezia, Ariosto di Ferrara, Trissino di Vicenza… Contemporaneamente, al ceto comunale borghese subentra quello aristocratico (tutti i nomi qui sopra richiamati vi appartengono). È a questi nessi, e insieme al loro rapporto profondo e prioritario con la loro origine fiorentina e toscana (Bembo, le Prose; il Furioso dell’Ariosto del 1521 e del ’32), che si deve ciò che comunemente s’intende come l’apogeo del Rinascimento in Italia, il momento più alto ed entusiasmante che la civiltà umana abbia mai conosciuto (addirittura! Sì, anche in questo caso non v’è ombra di dubbio).
Contemporaneamente, e contestualmente, quello che s’intende come apogeo della civiltà del Rinascimento in Italia (naturalmente bisognerebbe comprendervi anche i grandi e numerosissimi protagonisti dell’arte e dell’architettura, da Raffaello a Michelangelo), e cioè, in sostanza i primi trent’anni del XVI, sono gli stessi che danno inizio alla grande, e irrimediabile, catastrofe italiana: la perdita di qualsiasi autonomia statuale, la presenza dello straniero sul nostro territorio, la caduta verticale del prestigio e del potere pontificio (resta Venezia, ma ormai ristretta nella difficile difesa dello status quo). Il massimo dello splendore artistico e letterario, contraddistinto in quest’ultima fase da una forte ed esplicita connotazione italiana (“bon italiano…”), coincide con l’inizio della decadenza. Forse è per questo che Angelo Stella, nella sua bella introduzione, conclude che il messaggio del Cortegiano «doveva rimanere un’idea forse platonica, imposseduta, non formata con le parole, ma figurata dalle parole» (del resto, anche Walter Barberis, introducendo una sua edizione del Cortegiano — Einaudi, 1998 — accomunava Castiglione agli altri grandi sconfitti, del secolo: «La bella e astratta esemplarità del Cortegiano portava Castiglione nel pantheon dei grandi sconfitti dei primi del secolo, accanto a Machiavelli e Guicciardini… »). Insomma: il Rinascimento si conclude simultaneamente con un’apoteosi e con una catastrofe. Accade spesso in Italia.
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