martedì 21 giugno 2016

L'Italia durante e dopo la Terza guerra d'indipendenza

Copertina Italia 1866Hubert Heyriès: Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta, Mulino

Risvolto
«Gran giorni son questi per l’Italia! Gran guerra!... Così si fanno le nazioni!»
Edmondo De Amicis
«La guerra è cessata, e noi abbiamo ottenuta la Venezia… Ma niuno di noi è contento… Questa guerra ci ha fatto perdere molte illusioni, ci ha tolto quella fiducia infinita che avevamo in noi stessi… Abbiamo visto i focosi italiani andare come le tartarughe… Di chi è la colpa?»
Pasquale Villari
Dichiarata all’Austria da Vittorio Emanuele II il 20 giugno 1866 e conclusa il 3 ottobre con la pace di Vienna, la terza guerra d’indipendenza è stata a lungo sostanzialmente identificata con due sconfitte: quella di terra a Custoza il 24 giugno, e quella sul mare a Lissa il 20 luglio, appena temperate dall’effimero successo di Garibaldi a Bezzecca. Ciò ha relegato in secondo piano il fatto che con l’acquisizione del Veneto essa costituì una tappa fondamentale del processo di unificazione. Una guerra insomma al tempo stesso «perduta e vinta», che il libro affronta sotto una luce nuova, riportando al centro lo svolgimento concreto della campagna militare e l’esperienza dei soldati che la combatterono.
Hubert Heyriès, storico militare, insegna nell’Università Montpellier III. Autore di alcuni volumi su Garibaldi e il garibaldinismo, da ultimo ha pubblicato «Les travailleurs militaires italiens en France pendant la Grande Guerre» (2014).

NOI VINCITORI SENZA VITTORIE

BENCHÉ SCONFITTA A CUSTOZA EA LISSA L’ITALIA OTTENNE IL VENETO NEL 1866
A 150 anni dalla Terza guerra d’indipendenza, un saggio dello storico francese Heyriès (il Mulino) spiega come la disfatta inflitta dalla Prussia all’Austria consentì al nostro Paese di espandersi, nonostante i pesanti insuccessi militari

Corriere della Sera  21 giu 2016 di Paolo Mieli
Ai primi di gennaio del 1866 l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe inaugurò l’anno profetizzando all’ambasciatore inglese John Bloomfield che, stando alle sue sensazioni, quei dodici mesi sarebbero trascorsi «tranquillamente e pacificamente». Un annuncio incauto dal momento che di lì a breve l’Austria sarebbe entrata in conflitto con la Prussia e avrebbe subito una sonora sconfitta. Il nostro Paese, che pure era alleato della Prussia, di sconfitte ne subì due, anche se in qualche modo verrà considerato tra i vincitori di quel conflitto, come ben spiega il libro di Hubert Heyriès, Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta, che sta per essere pubblicato dal Mulino. Nella Terza guerra d’indipendenza l’Italia si segnalò, dunque, per due batoste: una di terra (Custoza, 24 giugno), una in mare (Lissa, 20 luglio). Però, essendo alleata della Prussia che aveva umiliato gli austriaci a Sadowa, a dispetto della catastrofe militare ottenne il Veneto. Regione che però a Vittorio Emanuele II fu consegnata da Napoleone III, il quale l’aveva ricevuta dall’Austria a compenso della neutralità francese. Per l’Italia, un autentico sfregio.
All’origine ci fu da parte italiana un eccesso di ottimismo per i successi conseguiti dal nostro esercito al Sud nella lotta al brigantaggio che l’autore non esita a definire «la prima guerra civile dell’Italia». A metà degli anni Sessanta, scrive Heyriès, si nutriva nei vertici nazionali l’illusione che l’esercito, reso agguerrito dai combattimenti contro le «forze reazionarie antiunitarie» del Mezzogiorno, sarebbe stato in grado di «misurarsi con l’Austria» per conquistare il Veneto, «in attesa di risolvere poi la questione romana». L’alto comando e il personale politico «non si rendevano conto che le azioni di guerriglia, che impiegavano effettivi ridotti contro un nemico male armato, erano totalmente diverse dalle forme della guerra moderna contro l’Austria, ove sarebbero state mobilitate centinaia di migliaia di uomini contro uno dei più importanti eserciti europei». L’Italia, secondo Edmondo De Amicis, che vi partecipò, si limitò a considerare la guerra come «giusta e santa, ch’era necessità e dovere di farla».
Personaggio centrale di questa vicenda sarà il generale Alfonso Ferrero della Marmora, già presidente del Consiglio dal settembre 1864 alla metà di giugno del 1866, quando era iniziata la guerra e ne aveva assunto la direzione, lasciando a Bettino Ricasoli la guida politica del Paese. Per restare alla testa del governo La Marmora aveva accettato consistenti tagli alle spese militari (drastica fu la riduzione dell’acquisto di cavalli e muli) e questo, assieme al fatto che buona parte dell’esercito — ottantamila soldati — era ancora dislocato al Sud per i motivi già ricordati, fu tra le cause per cui dopo soli quattro giorni di guerra l’Italia subì il primo umiliante rovescio. Il consigliere militare dell’ambasciata prussiana Theodor von Bernhardi descrisse La Marmora come «uomo mediocremente intelligente», cresciuto «nello stretto ambito di uno Stato di terzo livello». Grande ammiratore di Napoleone III, La Marmora considerava la guerra vinta in partenza al punto di prefigurare uno «smembramento» dell’Impero austriaco. Avrebbe desiderato condurre lo scontro militare in modo blando, cosicché l’Austria non fosse costretta a distrarre truppe dal fronte lungo il quale combatteva con la Prussia. La Prussia ne sarebbe uscita fiaccata e ciò sarebbe stato negli interessi francesi che, a dispetto degli accordi con Berlino, continuavano a stare a cuore al nostro generale. L’intesa italo-prussiana, spiega Heyriès, non fu così scontata quanto un’interpretazione deterministica della storia potrebbe far pensare: «Molte reticenze, sospetti e incomprensioni reciproche indebolirono fin dall’inizio un trattato di alleanza che legava i due Paesi sia sul piano dell’offesa che della difesa».
La guerra scoppiò il 20 giugno del 1866 in un’atmosfera di «elettrizzante entusiasmo», anche per la fiducia italiana nella superiorità militare per terra e sulle acque adriatiche. Una superiorità numerica, beninteso. Data la stagione, l’Italia ritenne di risparmiare sulle coperte, ma le notti nella pianura del Po erano assai umide e molti soldati si svegliarono con la febbre. Di giorno faceva un caldo insopportabile. Presto mancò il pane che arrivava ammuffito, lo si sostituì con biscotti che però giungevano sbriciolati, la carne era andata a male, il formaggio era in via di deperimento e il vino si era trasformato in aceto. In mancanza di avena, ai cavalli fu dato del fieno fresco, che ne fece ammalare un bel po’. Alla battaglia ai piedi delle colline di Custoza il 24 giugno molti soldati si presentarono digiuni o, peggio, intossicati. La guardia nazionale dava di sé l’immagine di un’accolita «pietosa»: «Erano per metà in divisa, parte in giacchetta, parte in marsina; alcuni in manica di camicia, altri a piedi scalzi, qualche soprabito, qualche cappello a cilindro compiva il quadro». Un battaglione di Bari, si legge in un rapporto militare, scioccò la popolazione per lo «stato lurido dell’equipaggiamento», la «sudiceria delle persone» e la «cattiva composizione del personale di bassa forza, il quale conteneva individui noti sfavorevolmente come dediti al furto».
Secondo Angelo Umiltà e Giovanni Cadolini — che di quei soldati scrissero a ridosso degli eventi — molti cercarono di fuggire, ad altri cedettero i nervi, altri si diedero al furto persino delle «scodelle loro distribuite per la minestra». Ma all’origine del disastro furono soprattutto i generali. La Marmora contrapposto a Enrico Cialdini (che non volle con sé il principe Umberto): li accomunava solo l’antipatia nei confronti del re, peraltro ricambiata. La Marmora detestava anche Giuseppe Govone («un professorino rompiscatole»). Enrico Della Rocca, apprezzato dal sovrano ma amareggiato per essere rimasto un generale di corpo d’armata, li criticava tutti. Giovanni Durando aveva fama di non essere precisamente un portafortuna. Agostino Petitti (incaricato di «impiantare un embrione di quartier generale a Piacenza») fu ribattezzato sprezzantemente «embrione».
Si distinsero per meriti militari i granatieri di Sardegna che, sul monte Croce, nel corso di combattimenti contro brigate austriache due volte più numerose, ebbero la meglio. Tra loro il capitano Luigi Pelloux, destinato a diventare presidente del Consiglio nella crisi di fine secolo che lo avrebbe travolto. La Marmora, appena le cose presero ad andar male, crollò psicologicamente: «Che disfatta! Che catastrofe! Nemmeno nel ’49», lo si sentì mormorare. Il generale Govone avrebbe potuto vincere, ma nessuno lo aiutò. Circostanza che restò incomprensibile per il generale prussiano Helmuth von Moltke il quale, in merito, giunse a chiedere chiarimenti allo stato maggiore italiano. La Marmora lì per lì pensò al suicidio. Poi dispose che i soldati stravolti e con le uniformi in brandelli si ritirassero. «Se ne ebbe una tale vergogna», scrive Heyriès, «che venne dato l’ordine di attraversare in silenzio i villaggi per non attirare l’attenzione degli abitanti».
Ai primi di luglio giunse la notizia dell’inaspettata e travolgente vittoria prussiana a Sadowa e a quel punto l’Italia si sentì costretta a cercare un proprio trionfo riparatore. Il re si rivolse alla Marina all’interno della quale, però, non si erano ancora ben amalgamate la piemontese, dove prevaleva il vapore, e quella napoletana, tutta improntata sull’uso della vela. Sotto la guida del recalcitrante Carlo Pellion di Persano alcune navi italiane uscirono dal porto di Ancona e immediatamente si abbordarono l’un l’altra, causando reciproche avarie. Persano — che si era autopromosso ammiraglio nel 1862 ai tempi in cui era ministro della Marina — aveva innescato un circuito di odio con Giovanni Battista Albini e con il contrammiraglio napoletano Giovanni Vacca. Un uomo di quest’ultimo, Tommaso Bucchia, si spinse ad accusare Persano di vigliaccheria in una lettera al ministro della Marina Agostino Depretis. E quando Depretis lo minacciò di destituzione nel caso fosse rimasto inerte, Persano decise di lanciare la sfida su Lissa. Tutto sembrava mettersi in maniera favorevole alla flotta italiana e invece, anche per mancanza di fortuna, fu una seconda catastrofe. Gli austriaci lamentarono la morte di 123 marinai. Gli italiani ne persero 638; 376 sul «Re d’Italia», 194 sulla «Palestro». Un disastro.
L’Italia si riscattò (relativamente) solo il 21 luglio con la vittoria di Giuseppe Garibaldi a Bezzecca. I garibaldini erano quasi tre volte più numerosi degli austriaci. E anche il numero dei loro caduti fu assai più alto di quello dei nemici. Anche loro patirono per le carenze nell’equipaggiamento: scarpe inutilizzabili e soprattutto assenza di borracce («al minimo corso d’acqua, nasceva la più grande confusione, l’ordine si spezzava e tutti si fermavano a bere»). Nessun mantello, per cui anche qui freddo, pioggia e febbre. E le camicie rosse li rendevano per gli austriaci «un tiro a segno tra gli alberi» (così Fedrigo Bossi Fedrigotti). Il loro addestramento lasciava a desiderare: a Monte Suello lo stesso Garibaldi fu ferito da uno dei suoi e vennero uccisi alcuni bersaglieri le cui uniformi grigie furono confuse con quelle dei cacciatori tirolesi. Ma almeno quella battaglia fu vinta, anche se Garibaldi dovette rassegnarsi a non procedere oltre. E ad Alfonso La Marmora che gli aveva intimato l’alt, rispose «Obbedisco!». All’improvviso era giunta l’ora dell’armistizio e della pace.
La delusione italiana fu grande. La ritirata, annota Heyriès, «prese il gusto amaro della sconfitta mascherata, della disfatta morale». Poi i soldati italiani, passati sotto la guida di Cialdini che in agosto aveva preso il posto di La Marmora, cercarono una rivincita a Palermo. Qui il generale Raffaele Cadorna fu incaricato di domare una rivolta che mise a sacco la città dal 16 al 22 settembre. Giunsero via mare in Sicilia 24 mila uomini e l’ordine fu ristabilito con modalità spietate. Così ironizzò a fine settembre il giornale satirico «Il Buonumore»: «Grrrande vittoria! La flotta è sbarcata a Palermo. Nessuna nave sfiancata o affondata. Questo strano fenomeno viene spiegato dall’assenza dell’ammiraglio Persano, e anche un po’ dall’assenza di navi nemiche».
Persano era diventato il capro espiatorio di quella bruciante sconfitta. Il principe Eugenio gli suggerì di sollecitare l’istituzione di un consiglio di guerra per mettere a tacere insinuazioni e accuse contro di lui. Persano accettò, ma il gesto fu inteso quasi come un’ammissione di colpa anche perché l’ammiraglio, essendo dal 1865 senatore, avrebbe potuto essere giudicato solo dai suoi pari e perciò fu subito chiaro che quel consiglio non sarebbe mai stato riunito. A lui pensò il Senato, che lo mise sotto processo per «viltà innanzi al nemico», lo trasse in arresto e, nel giro di quindici giorni con dodici udienze pubbliche, lo condannò alle dimissioni, alla perdita del grado di ammiraglio e a farsi carico delle spese di giudizio (ma 163 senatori su 273 non parteciparono al voto).
Gli altri protagonisti della sfortunata battaglia di Lissa — Augusto Ribotty, Simone de SaintBon, Guglielmo Acton — uscirono illesi dalla tempesta che aveva travolto Persano e, sottolinea con perfidia Heyriès, «divennero i padri della moderna Marina italiana». Pure La Marmora se la cavò senza essere portato in giudizio, anche se la stampa democratica lo ribattezzò «Alfonso dalle gambe lunghe» e lo descrisse da quel momento come un incompetente pusillanime. Lui cercò di rifarsi attaccando pubblicamente Cialdini, il quale gli rispose rendendo pubblici alcuni suoi telegrammi dei giorni di Custoza pressoché disfattisti. Anche il generale Giuseppe Sirtori si unì al coro di accuse contro La Marmora. Quest’ultimo se la prese allora con la Germania, mettendo in imbarazzo il cancelliere Bismarck che nel gennaio del 1874 fu addirittura chiamato a rispondere delle accuse di fronte al Parlamento tedesco. Il già menzionato von Bernhardi accusò La Marmora d’aver ordito «un intrigo molto losco». Il giornale mazziniano «Il Sole», per parte sua, montò una campagna contro il generale Enrico Della Rocca. Il generale Giuseppe Govone nel 1872 si suicidò.
Agli italiani restò la necessità, come disse Garibaldi (in una lettera all’amico Orazio Dogliotti) di «lavare Lissa e Custoza». Ad ogni costo. «Il complesso di Lissa e Custoza», ha scritto Marco Mondini nel saggio «La guerra perduta: il 1866 e l’antimito della disfatta» — pubblicato nel libro Fare l’Italia, a cura di Mario Isnenghi ed Eva Cecchinato, primo volume della serie Gli italiani in guerra (Utet) —, «diventò rapidamente uno dei più solidi (cattivi) luoghi della memoria della storia italiana». Tale complesso ci accompagnò fino alla Prima guerra mondiale. E anche oltre.

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