venerdì 24 giugno 2016

Mito Transpolitico: la sinistra populista che piace alla destra è sempre e comunque la destra

Quando il populismo era una cosa seria
I socialisti prima di Lenin, i «farmer» americani contro i ricchi, la parabola del peronismo Storia di un’idea rispettabile di democrazia trasformata in vizio dalla macchina del fango

Libero 24 giu 2016 MARCO GORRA
Dici populismo e pensi a demagoghi paonazzi, arruffapopolo urlanti, agitatori col megafono. Dici populismo e vedi politicanti da due soldi, tribuni della plebe, ingannatori delle masse. Dici populismo, insomma, e davvero ti passa davanti dagli occhi la feccia dell’umanità. Poche parole come questa risultano così efficaci nello squalificare in partenza qualsiasi cosa: una persona, un’idea o altro. Potenza della propaganda: a forza di ripeterci che il populismo è lo spauracchio ultimo del tempo presente, sono riusciti ad instillarci il riflesso pavloviano per cui ci basta sentirlo nominare per metterci ad abbaiargli contro.
Questa specie di macchina del fango semantica è intervenuta a rovinare la reputazione di una parola che, per un secolo abbondante, aveva avuto una storia più che rispettabile, risultando addirittura pionieristica rispetto a tanti avanzamenti culturali e politici che scuole di idee più recenti e prestigiose non si sarebbero fatte scrupoli a saccheggiare senza pietà.
Tacendo delle suggestioni più radicali (esistono correnti di pensiero secondo cui il primo populista della storia rispondeva al nome di Napoleone Bonaparte, nientemeno), per trovare l’origine del populismo bisogna andare all’inizio degli anni ’70 del XIX secolo in Russia. Dove arretratezza ed immobilismo fanno il miracolo e creano il socialismo prima del socialismo. Al posto degli operai ci sono i contadini e al posto della collettivizzazione a tappe forzate c’è la scoperta di una sorta di socialismo innato e consustanziale al dna della popolazione rurale, ma per il resto siamo lì: sarà il populismo ad incanalare il fiume puro ed incorrotto di un universo popolare e contadino che, una volta liberato dalle angherie zariste ed aristocratiche, potrà finalmente scorrere secondo la propria natura istintivamente tendente al bene.
La fine del populismo russo, come noto, non sarà delle migliori. Cooptato alla bell’e meglio nell’armamentario ideologico bolscevico (nonostante le perplessità di Lenin, che anzi ne diffidava vedendoci un riflesso dell’ideologia gretta e reazionaria del piccolo produttore egoista), verrà rimosso una volta preso il potere e riservato ai contadini il trattamento che si sa.
Nel frattempo, però, il seme ha trovato il modo di germogliare altrove. A Ottocento ancora da archiviare, infatti, il populismo fa la propria comparsa in Nord America. Il passo avanti è duplice: se quanto ad organizzazione si registra la creazione del Partito populista (peraltro primo tentativo di spezzare il duopolio bipartitista statunitense), è quanto a struttura teorica che si hanno i risultati maggiori: la base di partenza essendo la stessa (agricoltori impoveriti che vogliono farla pagare ai plutocrati di città), l’elaborazione del concetto arriva a comprendere elementi destinati a diventare parte integrante della mentalità politica americana: diffidenza populista per immigrazione e multiculturalismo, valorizzazione della piccola comunità locale come atomo della resistenza individuale all’autorità costituita, rifiuto di tariffe, dazi e di qualsiasi altra misura che puzzasse di protezionismo.
Perché il populismo sbarchi in Italia bisognerà aspettare più a lungo. È infatti nel primo dopoguerra che gli intellettuali nostrani iniziano a confrontarsi col tema. I risultati sono tutt’altro che lusinghieri: Gobetti prima e soprattutto Gramsci dopo stroncano l’idea stessa di populismo, tacciandolo l’uno di arcaismo e di devianza borghese l’altro. L’operazione di screditamento è destinata al successo, al punto che il regime fascista cui pure le architravi ideologiche del populismo non erano estranee - avrà sempre grande ritegno ad annoverarlo tra le proprie influenze: per iniziare a chiamare le cose col proprio nome sarà infatti necessario aspettare l’intervento della storiografia repubblicana.
Intanto, però, il populismo ha cambiato pelle un’altra volta. Rilocatosi con inatteso successo in America Latina, il populismo assume, anche qui con discreto anticipo sui tempi, la propria moderna fisionomia: plebiscitarismo permanente, connessione sentimentale tra le masse ed il capo, policlassismo spinto. Un mix di elementi che in più casi avrebbe avuto effetti collaterali non esattamente gradevoli, ma che ha contribuito a dare la forma attuale ad una filosofia politica che non si può affermare goda oggi di cattiva salute.
Nonostante ciò, al populismo si è unilateralmente deciso di negare la cittadinanza nel novero delle idee rispettabili. Per farlo, si è deciso di trasformarlo in una specie di babau della politica. Tattica comodissima e dall’indubbia efficacia, e che però viene con un prezzo più che salato: l’impedirsi da soli di capire la realtà. La realtà di una società che, nonostante sia anni luce avanti rispetto a quello di 150 anni fa che ne era stato nutrice, di populismo non cessa di tenere alta la domanda, chiedendone al massimo l’aggiornamento alle circostanze attuali. Una società che, forse proprio per questo, continua a spaventare. E, da che mondo è mondo, le cose che spaventano non si cercano di capire. Si esorcizzano.

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