mercoledì 15 giugno 2016

Ricordo di Alighiero Boetti

Agata Boetti: Il gioco dell’arte. Con mio padre, Alighiero, Electa

Risvolto
"Mio padre aveva scritto: le cose nascono dalla necessità e dal caso. Questo libro è come il suo ricamo. Nato dalla necessità di trasmettere finalmente ai miei figli una parte importante della storia familiare attraverso la visione privata di un'opera che ormai appartiene al mondo intero e alla storia dell'arte. Parlare loro del nonno attraverso le sue opere e le sue spiegazioni: un'evidenza perché le sue opere erano lui ed erano anche i catalizzatori nella nostra straordinaria relazione. In questo libro il peso tra testi e immagini pende a favore di queste ultime: un'altra evidenza. Il mondo di Alighiero era fatto di immagini. Nato dal caso di averlo fatto leggere a due persone care che mi hanno incoraggiato a trasformare in un libro una lunga lettera fotocopiata in tre esemplari destinata ai miei figli, 'Il gioco dell'arte' è una raccolta di racconti affettivi che sono ormai felice di condividere, sentendomi dolcemente accompagnata da un papà boettiano, che era Jean-Christophe Ammann e da un fratello boettiano che è Hans Ulrich Obrist." 

Alighiero Boetti è universalmente riconosciuto come un maestro assoluto dell'arte del Novecento. Tutto o quasi tutto si sa della sua opera. Ma chi era Alighiero come padre? In questo bellissimo libro Agata, la secondogenita del maestro, nata a Torino nel 1972 dall'unione con Annemarie Sauzeau racconta il Boetti più privato e azzarda una inedita interpretazione della sua arte: "L'opera di mio padre è un gioco, una moltitudine di giochi molto diversa dalle analisi complesse e intellettuali della critica" Scopriamo così una dimensione ludica che pervade non solo l'opera ma anche la vita stessa di Alighiero, e ci offre un'immagine inedita del maestro assolutamente diversa dallo stereotipo del padre classico. "Non mi ricordo di aver mai visto mio padre uscire per andare al lavoro. Non si rasava, non metteva la cravatta. Non parlava mai di colleghi e di stipendio. A volte dormiva tutto il giorno, altre volte spariva per giorni, settimane, addirittura mesi¿". Se i figli volevano trascorrere del tempo con lui bisognava che si rassegnassero a entrare nel suo mondo, nel suo modo di vivere, sul suo terreno di gioco preferito: la sua testa, il suo cervello e preferibilmente nel suo studio, che sembrava tutto tranne che un luogo di lavoro: era uno spazio immenso, spesso vuoto, con un tavolo da ping pong che serviva da appoggio per barattoli di pittura, acquerelli, pennelli, colla, spray di tutti i colori ma anche altri oggetti che poco centravano con la pittura: una forchetta, ritagli di giornale, un'armonica a bocca, una macchinina, dei bottoni, un tappo di sughero¿" Scritto per i suoi figli, perché imparassero a conoscere davvero il nonno al di là di mostre, cataloghi, archivi, il libro è corredato da un ricchissimo apparato iconografico quasi integralmente inedito di proprietà di Agata Boetti.                
Alighiero Boetti, il mio papà che quadrava il mondo 

Parla la figlia Agata che pubblica un libro-ritratto dell’artista: “Tutto, anche l’ovvio e il quotidiano, con lui diventava eccezionale” 

Bruno Ventavoli Busiarda 15 6 2016
Per le enciclopedie Alighiero Boetti scomparve nel 1994. Per il nipotino, però, era solo «un po’ morto». Poiché la sua presenza continuava ad avvertirsi nei racconti, nelle opere, nelle magioni. Ed è per spiegare alla progenie chi era stato davvero quel protagonista inquieto dell’arte contemporanea, povera e non, che la figlia Agata ha scritto un personale ritratto, tessuto di ricordi, affetto, tempo perduto e ritrovato. S’intitola Il gioco dell’arte (Electa), perché per Boetti l’arte era davvero un gioco inesausto che trasmutava in bellezza la passione quasi disposofobica per qualsiasi oggetto. Dal messaggino (pre-smartphone) su carta della figlioletta, «oggi non vengo, ho piscina», che origina una quadratura di lettere; alle etichette di sale e zucchero, alle sequenze di numeri, pezzi di carta, polaroid, francobolli, mappe, biro, arazzi ricamati da donne afghane. Accompagnato da immagini di vita quotidiana, il testo racconta quello che veniva prima di un quadro. Viaggi, colori, amori, tormenti, sigarette, mani mancine e destre. Un dettagliato sismografo di 22 anni vissuti, bene, assieme al papà. Arricchiti dal lavoro «superscientifico» che Agata, da altrettanti anni, compie sull’archivio.
Riesce a distinguere il padre dall’artista?
«Ho sempre preteso di distinguerlo. Ma scrivendo questo libro mi sono resa conto che sono la stessa persona. Tutti i ricordi di lui si legano alle sue opere. Non staccava mai, creava anche quando disponeva le fragole in tavola o i tortellini nel piatto. Da una frase scaturiva l’idea di “quadrarla”, un numero che si presentava liberamente, veniva sommato, diviso, moltiplicato, combinato, finché non ci regalava qualche magica combinazione». 
Passavate molto tempo insieme?
«Morivo dalla voglia di correre nel suo studio, tra matite colorate, montagne di oggetti, copertine di riviste. Non sapevo se avremmo disegnato insieme, incontrato un direttore di museo, se saremmo usciti a comprare qualcosa, o semplicemente se sarei rimasta in un cantuccio a rovistare in una cassettiera. Tutto, anche l’ovvio e il quotidiano, con lui diventava eccezionale». 
Ogni pagina del suo libro trasuda amore e sconfinata ammirazione. Non c’è mai stata una stonatura, una punta di risentimento, come avviene normalmente tra genitori e figli?
«L’unica vera rabbia che posso nutrire nei suoi confronti è che è morto troppo presto. Non si muore a 53 anni». 
Suo padre usava droghe in abbondanza. Lei ne aveva sentore?
«In famiglia il problema era drammatico. Ma rispetto a mia madre o mio fratello io ne ero protetta. Tornando da scuola capitava che suonavo il citofono e l’assistente mi diceva “scendo e andiamo a prenderci un gelato”. Significava che papà stava male, magari era in overdose. E non voleva che la sua Agata lo vedesse così». 
La droga negli Anni 70 aveva uno stretto rapporto con la creatività: che cos’era per suo padre?
«La prima volta è deliziosa, mi diceva. Poi non riesci più a separartene e ti tocca imparare ad abitare con qualcosa che non ami più, ma devi sopportare». 
Era un uomo felice?
«Penso di sì. Era alla ricerca di una felicità assoluta che non trovava mai. Sapeva anche godersi i piccoli istanti, perché aveva una natura entusiasta. La parola “pazzesco” gliela sentivo ripetere continuamente. Quando gli arrivavano palate di arazzi, per esempio, era gioia allo stato puro». 
La cosa che lo rendeva più felice?
«Lo stato di creatività continua che lo portava a trasformare qualsiasi cosa in opera d’arte. Questa, però, era anche la sua tortura. Prima di morire mi ha lasciato un foglietto con scritte le nostre definizioni. Io, “Agata, qualità in quantità”. Lui, “l’angosciante presenza dell’intelligenza”». 
L’intelligenza era per lui un tormento?
«Aveva la testa che girava sempre. Troppo. E la droga, mi sono spesso detta, era un modo per anestetizzarla, frenarla. Avrebbe voluto un cervello più calmo, sebbene fosse il motore della sua vita. Ogni tanto gli massaggiavo la testa, lui chiudeva gli occhi, sembrava fermare il pensiero, come se avessi trovato tra i capelli il pulsante per metterlo in pausa. Ma era un’illusione. Perché di colpo si alzava, andava alla scrivania e schizzava un’idea su un foglio». 
Che cosa lo faceva arrabbiare?
«La stupidità. Non riusciva a sopportarla. Poteva essere anche molto sgradevole con chi non era veloce ad afferrare le cose. Ho assistito a scene terribili, tipo dire a un commensale a cena “ora ti alzi e te ne vai”. Se qualcuno non capiva un suo arazzo, o una biro, non voleva parlargli più». 
Certe volte i critici capivano fin «troppo» le sue opere, attribuendogli concetti quasi fuori luogo…
«Diciamo pure castronerie totali. Opere che nascevano ritagliando immagini da un catalogo, magari per giocare con me bambina, venivano interpretate con paroloni solenni. Lui ci rideva sopra. Si divertiva come se avesse combinato una burla. Ricordo un intenditore d’arte che cominciò a delirare davanti a un suo quadro. Lui gli appoggiò la mano sulla spalla, raccomandandogli una cosa sola, “simplicitas”».
Era socievole?
«Aveva amici veri. Ma stava volentieri anche con sconosciuti. Passava serate con fisici, matematici, giardinieri, con chiunque gli trasmettesse pezzi di sapere, esperienze vissute. Il salotto del nostro appartamento di Trastevere, pieno di tappeti colorati, sembrava un salotto afghano. Era aperto a tutti, finché, naturalmente il suo umore lo permetteva. Mangiare da noi era un viaggio tra sapori, odori, colori lontani (anche se mia madre, da femminista radicale, era una pessima cuoca): tè col profumo di cardamomo, pistacchi, vestiti ricamati con gli specchietti e i campanellini. Poi c’erano periodi in cui non voleva nessuno, come se avesse preso tutto quel che poteva, e sentisse il bisogno di una pausa. Si chiudeva nel suo mondo».
Era incostante?
«Molto. Era vorace di vita, ma si stancava facilmente. Sapeva essere adorabile, generoso, raccontava barzellette, imitava Totò, faceva scherzi. E nel giro d’un quarto d’ora poteva diventare davvero sgradevole». 
C’era qualcosa di stabile in quella vita sempre in movimento?
«Ha cambiato tante donne e tante dimore. Ma dalla casa nella campagna di Todi non si è mai separato. Aveva fatto costruire un’enorme scalinata di pietra sopra una collina che non andava da nessuna parte. Si sedeva su quei gradini dicendo che erano come un teatro greco, e contemplava lo spettacolo della natura. Quella sconfinata bellezza gli infondeva calma, forza, serenità. La natura era una grande fabbricante di bellezza. E lui di bellezza era avido. Le nervature di una foglia, le sfumature di una pietra, i colori perfetti degli uccelli, le sfumature di verde dei boschi...». 
Suo padre che giocava così tanto con i colori, i numeri, le parole, i rischi della vita… amava anche l’azzardo?
«No, non gli piaceva lo squallore dei casinò. Si divertiva invece a fare solitari con le carte». 
Perché lo considera un genio?
«Perché riesce a farci guardare e riflettere sulle cose che abbiamo sotto gli occhi. La vita distrae e non ci accorgiamo della bellezza intorno. Le lettere, per esempio, sono un semplice strumento per digitare mail o scrivere post-it: ma se vengono quadrate tra di loro rivelano un incanto misterioso. Come un francobollo. Un foglietto di calendario. O la pantera rosa con cui una bambina (io) giocava». 
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