giovedì 23 giugno 2016

Spirito Prono accoglie anche Goffredo Bettini nella Filosofia Politica. Sono cominciate le grandi manovre per ricostituire il centrosinistra eterno


Goffredo Bettini: La difficile stagione della sinistra. Impraticabilità di campo?, Ponte Sisto, 2016, pp. 325

Risvolto
Goffredo Bettini in questa lunga intervista "politico filosofica" affronta il tema cruciale del "ritorno della politica". Lo fa partendo dall'analisi delle cause che hanno portato alla crisi dei partiti storici in Italia, e interrogandosi su come la politica possa tornare a occuparsi delle persone per migliorare e dare un senso alle loro vite. La parte finale dell'intervista affronta il tema del futuro dell'Europa, che rischia di entrare in un cono d'ombra, mettendo a confronto le fallimentari politiche di rigore con quelle che propongono di tornare ad una crescita di qualità.



Sinistra, vecchia e nuova unico cantiere
Nel suo libro, "La stagione difficile della sinistra" Goffredo Bettini non fa sconti al suo Pd dove «prevalgono prudenza, silenzio, ambiguità» e torna sulla questione del campo largo

di Mario Tronti il manifesto 23.3.16
«Impraticabilità di campo», è il sottotitolo di questo libro di Goffredo Bettini: La difficile stagione della sinistra (Ponte Sisto, 2016, pp. 325). C’è un punto interrogativo, nel sottotitolo. Lo possiamo togliere, almeno provvisoriamente, a leggere i risultati, primo e secondo turno, delle ultime elezioni amministrative.
«Campo» è un concetto che sta molto a cuore all’ultimo Bettini. Andrebbe definito così, organizzato così, a suo dire, quello che è lo spazio, sociale e politico, di una sinistra, oggi.
Campo plurale e unitario, coeso ed esteso, mille fiori, mi pare di aver capito, pur in un partito a vocazione maggioritaria.
Il libro vede un dialogo serrato, a volte brillante, a volte pensoso, con Carmine Fotia. Dodici capitoletti, che vanno da Disciplina, Potere, Nostalgia ad una approfondita considerazione su Europa. In mezzo, una lettura, molto personale, dell’attuale fase politica e una lunga digressione sulle vicende del Pd romano: su queste ultime mi permetterò di sorvolare.
Bettini, come tutti sanno, è stato per molto tempo dominus, nell’ambiente politico e culturale della capitale, segretario della Federazione romana del Pci, da giovanissimo membro della Direzione del partito, protagonista nelle successive esperienze, Pds, e Ds, ai vertici del Pd, nel suo incipit veltroniano. Dal chiudersi di quella breve stagione, ha tratto la scelta di uno splendido isolamento. Credo gli abbia fatto bene. I suoi pensieri adesso volano più liberi, rompono gli schemi angusti delle emergenze quotidiane, con i loro riti e linguaggi freddi e consueti, nutre la passione politica con una bella cultura: nel libro, trovate citazioni da Baudelaire a Leopardi, da Jünger a Heidegger, da Severino a Canetti e altri, di questo calibro. L’autore possiede del resto una intelligenza politica lucida, con cui ho trovato spesso il piacere di confrontarmi. Ma chiudiamo con gli elogi e veniamo al merito.
«La politica, in particolare il Pci, mi ha formato alla disciplina, alla responsabilità verso se stessi e verso gli altri», scrive Bettini. Disciplina come autodisciplina, qualcosa che non viene dall’alto ma da dentro, non imposta ma scelta. Coincide con la vera libertà. Libertà anzitutto dal potere: che è come una droga. «Produce nel cervello sostanze assuefacenti. Ti si appiccica facilmente addosso e dopo non ne puoi più fare a meno». La politica per il potere ha sostituito il potere per la politica: da mezzo è diventato fine. Tra l’altro, piccolo ma consistente potere, locale e personale. «È cresciuta una generazione di quadri abituata a navigare, a barcamenarsi, la cui parte più di talento occupa postazioni importanti nelle città, nelle regioni o nel governo nazionale. Prevalgono la prudenza, il silenzio, l’ambiguità, la manovra di aggiramento, il segnale, il far intendere…».
Giudizi troppo severi? Non saprei. Detti comunque da uno che ha visto questo spettacolo intorno a sé. «Non è che sono diventati tutti cattivi. Nessuno è totalmente bianco o nero. La verità è che ci adatta dentro le forme che si trovano e si accettano». Le forme, appunto, ancor prima dei programmi. Non è in questi ultimi il difetto, nemmeno nelle loro realizzazioni, sbagliate o mancate che siano. «Il passaggio tra il Novecento e il nuovo millennio ha consumato le nostre strutture e categorie residuali: le alleanze, i blocchi storici e sociali e la loro composizione e scomposizione, l’unità della nazione, ’gli italiani’, le coalizioni, i partiti pesanti e leggeri, le lotte di massa e la conquista delle casematte». Nostalgia per questo mondo perduto. Abbiamo passato gli ultimi decenni a cantare le magnifiche sorti e progressive dei nuovi inizi. E invece è dalla presa d’atto di questa tragedia che nuovi pensieri e nuove pratiche dovrebbero ripartire, non per riformare ma per rivoluzionare, le attuali “forme” della politica: «Nelle attuali ’forme’ non c ‘è alcun recupero della devastazione culturale e antropologica che è in atto».
Stiamo parlando, ve ne sarete accorti, anche dei numeri che ci sono piovuti addosso, come un temporale d’estate, la notte di domenica. Mi sento di sottoscrivere queste parole di Bettini, cariche di passione politica realistica: «Sai quanto ho amato Roma. L’ho descritta in un mio libro: scanzonata e generosa, disincantata e partecipe, ferita dal tempo ma fortemente vitale. Oggi è insopportabile, stressata e cattiva: un grande pachiderma che si muove per colpire alla cieca ».
Aggiungo io. Il dramma, da cui occorre trovare il modo di uscire al più presto, con tutti i mezzi, è la terribile corrispondenza che si crea tra il degrado nelle forme della politica e il degrado nelle forme della rivolta contro la politica.
È fatale. Quando il potere si fa oligarchico, la contestazione del potere si fa plebea. E non è solo Roma, nemmeno solo Italia, è Occidente, Europa e, vediamo, Stati Uniti.
Ho fatto parlare solo il libro. Penso che così bisogna fare quando di un libro si parla. Nella conversazione con Fotia, si incontrano poi tanti altri temi. Ma il punto di problema è nel titolo. Sì, è proprio difficile questa stagione della sinistra. È un passo avanti che Bettini dica sinistra più che centrosinistra: quindi un campo che, in quanto tale, in quanto forza di sinistra, ambisce a conquistare un consenso maggioritario. È una sfida. Le difficoltà servono, non per fermarsi, o per tornare indietro, ma per rilanciare idee e pratiche in avanti. Mi pare questo il senso propositivo del libro. Il passaggio stretto consiglia forse una scelta netta. Non è vero che sinistra esiste in natura. Esiste nella storia. E cambia di forma, di forza, di conflitti e di senso nel corso della storia.
Allora, la devi ogni volta reinventare: è accaduto che andava ricostruita, è accaduto che andava costruita. Credo che le due esigenze si presentino oggi insieme. Ricostruire vuol dire ristrutturare le fondamenta date dalle grandi gloriose esperienze del passato. Costruire vuol dire progettare un disegno nuovo dell’edificio, moderno ma solido, affascinante e funzionante. Fuor di metafora, vecchia e nuova sinistra è bene che lavorino, sodo, in unico cantiere: a rendere praticabile il campo.

«Sinistra Pd, se vince il sì il renzismo rinasce»

Alfredo D’Attorre di sinistra italiana: a Bersani dico ’vota no’. Il vecchio centrosinistra non torna, serve un nuovo polo progressista

intervista di Daniela Preziosi  il manifesto 23.6.16
ROMA La minoranza Pd chiede a Renzi una svolta sulle politiche sociali del governo, il cambio dell’Italicum e la fine del doppio incarico segretario-premier. Alfredo D’Attorre è uscito da quel partito e da quella corrente. E al fatto che Renzi possa scendere a patti con la sua sinistra interna non crede. «L’appello a Renzi perché cambi è un rito magico. Neppure chi lo fa ci crede davvero», dice. «E comunque non si può ridurre tutto all’Italicum e al doppio incarico: se anche ci fosse un’altra legge elettorale, e un altro segretario del Pd, le politiche del governo resterebbero le stesse. Avverto anche che la reintroduzione del premio alla coalizione non ricostruirebbe di per sé il centrosinistra. Va sconfitto l’impianto economico e sociale della politica renziana. L’appuntamento per sconfiggerlo c’è: il referendum di ottobre».
Ma per ora solo D’Alema ammette di votare no. Bersani e i suoi votano sì.
Chi contesta la deriva del partito della nazione e invoca il ritorno del centrosinistra non può stare dalla parte del sì. Il sì sarebbe la definitiva affermazione del modello renziano. Il referendum è il vero  congresso del Pd, chi vuole determinare un cambio di indirizzo, non può stare con Renzi.
Per la minoranza Pd è l’ultimo treno?
Non hanno votato l’Italicum, quindi hanno un argomento gigantesco per votate no. E l’Italicum di fatto fa parte del complesso sostanziale su cui si voterà a ottobre. Se vince il sì sarà la resurrezione del renzismo. Se vince il no è difficile che chi resta accodato a Renzi abbia un ruolo.
Per Renzi, ma anche per la minoranza, fuori dal Pd nulla salus. E le amministrative sembrano dimostrarlo.
Renzi vada piano con il requiem. Il risultato della sinistra è stato inferiore alle aspettative, ma non ovunque: penso fra gli altri ai casi di Sesto Fiorentino e Napoli. Certo a Torino e Roma non è andata come speravamo. I nostri candidati si sono battuti ma il voto è capitato nel momento peggiore per noi. Sinistra italiana non ha presentato il simbolo tranne che a Sesto, e il quadro delle alleanze è stato a variegato. Ma il nostro progetto parte ora.
Renzi ammette la sconfitta. Voi no?
Guardi che l’ho detto.
Il Pd ha perso molti voti, ma questi voti non sono andati a voi. Perché?
Ancora non siamo percepiti come strumento credibile e forte di cambiamento.
Quando attirerete quei voti?
Ora dobbiamo costruire una piattaforma di radicale novità rispetto al centrosinistra del passato. Renzi non è l’origine di tutti i mali, è l’estremizzazione di un ciclo di subalternità della sinistra ai vincoli europei e al paradigma liberista. Occorre una proposta nuova in termini di rottura dei vincoli europei, di nuova centralità del lavoro, dei diritti sociali e ambientali, e di un’idea della democrazia che non accetti più il sacrificio della rappresentanza in nome della governabilità. Non abbiamo in testa un ritorno al passato. Sconfiggere il renzismo non significa tornare al centrosinistra benpensante e allineato alle compatibilità europee e alle riforme strutturali. Insomma, lo voglio dire ai miei compagni della sinistra Pd, non si ricostruisce una prospettiva progressista in questo paese nel nome di Andreatta, padre dell’Ulivo ma anche della tesi del liberismo progressista. Ma non possiamo rinchiuderci in una ridotta di testimonianza. Il mondo progressista oggi non ha rappresentanza né approdo. Il referendum è la tappa per sconfiggere Renzi e aprire una nuova stagione politica che punta a costruire una nuova alleanza.
Nella sua sinistra lo slogan «mai più con il Pd» è piuttosto diffuso.
Detta così è una proposta statica e regressiva. Dobbiamo liberarci dalle catene che hanno ingessato la nostra discussione interna. La nuova strada la indicheremo a partire dal referendum. La vittoria del no  archivierà questa stagione politica. Poi vedremo cosa succederà al Pd. Lì dentro ci sono ancora energie democratiche che sarebbe settario e sbagliato non considerare interlocutori in vista di un nuovo schieramento. Nessuna nostalgia, ripeto. La parola centrosinistra può essere segnata da politiche ormai da archiviare. Anche Prodi ormai lo dice. Ma il tema di come si ricostruisce un polo progressista, di una sinistra popolare e di governo, ce lo dobbiamo porre.
Anche perché M5S non ha alcuna intenzione di allearsi con voi, anche dopo aver vinto grazie a una parte dei vostri voti.
Infatti, dobbiamo avere una proposta che sappia anche assorbire la sinistra che c’è nei 5 stelle. Ma ora pensiamo al referendum. Dopo la vittoria del no non c’è il caos: c’è un accordo per una nuova leggere elettorale in pochi mesi e poi la parola torna ai cittadini.
Non tutti quelli che avete coalizzato nelle città la pensano come lei sul nuovo polo progressista.
Nelle città ci saranno luoghi di confronto, forse associazioni, utili a coinvolgere le energie della campagna elettorale. Sul punto discriminante del no al referendum siamo tutti d’accordo. Noi però abbiamo l’ambizione di costruire un partito e non una lista elettorale. Sinistra italiana è un campo largo, il congresso definirà una linea ma in cui convivranno anche posizioni diverse. Non un partito in cui chi perde se ne va o è emarginato.
Ecco, nel vostro dibattito si segnalano a volte toni da «dentro o fuori». Un congresso identifica maggioranze e minoranze. Le critiche che rivolgete a Renzi in fatto di democrazia interna valgono anche per voi?
Certo. Se replicassimo quel modello saremmo ridicoli. Sarebbe insensato costruire un partito leaderistico fondato sul pensiero unico in cui chi ha idee diverse non ha cittadinanza. Per questo dobbiamo fare in modo che il meccanismo congressuale favorisca il confronto fra le idee e non fra le persone e le cordate. 


Ora nessuno più crede al diluvio

Democrack. Né Zingaretti né Errani, nessun ingresso di peso in una segreteria irrilevante. Oggi le proposte della sinistra Pd, anche dalla maggioranza c’è chi teme il peggio e chiede di non personalizzare il referendum. Renzi si porta avanti con il lavoro, avverte che non darà corda alla Ditta: non credo ai caminetti, non discutiamo di poltrone

di Daniela Preziosi il manifesto 23.6.16
ROMA Forse Renzi ci ha pensato. Forse nella lunga notte dello shock fra domenica e lunedì per un attimo lo ha sfiorato davvero il dubbio di aprire un confronto con la minoranza bersaniana che questo pomeriggio si riunirà al Nazareno per lanciare una piattaforma per far «cambiare verso» alle politiche del governo, in senso opposto a quello seguito finora. Oggi Roberto Speranza, candidato in pectore al congresso che verrà anticipato a fine anno o a inizio del 2017, chiederà un «cambiamento di rotta delle politiche sociali», la modifica dell’Italicum con il premio alla coalizione, e infine la messa a tema della divisione fra ruolo di premier e quello di segretario. Perché, spiegano, «non è scritto nello statuto e se nel febbraio 2013 Bersani fosse diventato presidente del consiglio tutti sanno che non avrebbe continuato a fare il segretario». Ma quest’ultima discussione è oziosa: se ne riparlerà a congresso, e la sinistra Pd ha già perso un congresso su questo tema.
Comunque l’abbia pensata nelle ore dopo il voto, Renzi si è ripreso dalla batosta e ora non ha alcuna intenzione di dare corda alle doléances di Cuperlo e della Ditta. Lo si capisce dal tono della newsletter che ha inviato ieri al partito (quello che sta always on). «Il Pd deve caratterizzarsi per le cose che propone, non per le proprie divisioni interne», quindi no alla «classica polemica sulle poltrone in segreteria o sul desiderio delle correnti di tornare a guidare il partito. Non credo ai caminetti: apriamo le finestre, spalanchiamole».
Naturalmente a far circolare i nomi di nuovi innesti nella segreteria erano stati i renziani. Avevano parlato del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che però non aveva ricevuto nessuna proposta e che notoriamente ha parecchio da lavorare. Non andrà in segreteria, come non ci andrà Vasco Errani, appena assolto dall’accusa di falso ideologico. Ma poi a che pro innestare nomi di peso in una segreteria ridotta a disdicevole cassa di risonanza delle decisioni del governo?
Sul piatto della riunione di direzione di domani c’è anche il referendum. La sinistra interna cerca un alibi per non partecipare alla campagna del sì, magari lamentando il tradimento della promessa legge sull’elezione dei senatori. Difficile che arriverà a votare no. Lo hanno già detto Bersani e Cuperlo. Solo D’Alema ieri al Corriere ha svelato quello che da tempo non era più in segreto, il suo no.
E così nonostante gli appelli di Prodi («Se non cambiano le politiche, il politico cambiato si logora anche in due anni»), quelli di Bersani e di D’Alema e infine il silenzio eloquente di Enrico Letta, ora la minoranza interna rischia di vivere il momento cruciale del referendum costituzionale da spettatrice: se vincerà il sì il renzismo sarà incontenibile, se vincerà il no non potranno spartirsi il merito.
Dalla maggioranza invece arrivano sennate richieste di non personalizzare lo scontro referendario. Lo chiede l’area del ministro Franceschini, i giovani turchi del presidente Orfini e del ministro Orlando e perfino la corrente dei bersaniani ’buoni’ del ministro Martina («Da tempo gli diciamo che è la strada sbagliata»). Ma è una richiesta tardiva. Ormai Renzi ha messo nell’urna referendaria la sua testa. Ritirare le dimissioni in caso di sconfitta sarebbe interpretato come un segno di paura e poltronismo. Può decelerare sulla personalizzazione e tentare una comunicazione basata sulla semplificazione della vita democratica. Sempreché qualcuno gli creda ancora.
Perché il voto ha messo in evidenza, per dirla con Speranza, che «la narrazione è finita, i cittadini hanno misurato la distanza fra il racconto del palazzo e la realtà». Anche l’idea del diluvio in caso di sconfitta comincia ad apparire come una favola a fini di propaganda. Nella minoranza c’è chi spiega: «Se al referendum vincessero i no la strada sarebbe un governo istituzionale per fare una nuova legge elettorale, e nel frattempo svolgere il congresso Pd».
Vittoria del no. L’idea impossibile oggi sembra persino probabile. In realtà Renzi l’aveva capito sin da aprile. Al referendum sulle trivelle 16 milioni di persone sono andate a votare in assenza di un’informazione degna di questo nome e contro le indicazioni del capo del governo. Se il fronte del no fosse capace di ripetere la performance avrebbe vinto. Renzi, dicevamo, l’aveva capito. Non i suoi piccoli fan del parlamento, quelli che avevano sfottuto i ’no Triv’ con il «ciaone». 


Il problema del dopo voto non riguarda solo Renzi
Pd, ultimo rebus. Anche la minoranza cerca una rotta L’intransigenza di D’Alema e l’analisi sociale di Prodi: in cerca di una sintesi La legge elettorale incombe ma non è all’ordine del giorno di Stefano Folli Repubblica 23.6.16
È UN MOMENTO di confusione nel Partito Democratico. E la condizione di incertezza non riguarda solo il leader Renzi. Oggi è fin troppo facile colpirlo ad alzo zero per gli errori commessi e per avere di fatto ridotto il partito, da lui poco amato, alla dimensione di un gruppo di potere personale. Tuttavia chi lo condanna - da D’Alema a Bersani alle altre figure messe ai margini in questi due anni - non può meravigliarsi che il premier-segretario sia incerto sul da farsi, quasi smarrito.
Renzi è un personaggio volitivo, ma ha bisogno dell’adrenalina del successo. Il fallimento gli provoca un senso di sconforto che nei primi giorni fatica a dominare. Questo contraddice la prima regola del politico smaliziato: saper reagire alle sconfitte, digerirle e trovare il modo per aggirare l’ostacolo. A caldo, la risposta renziana al voto di domenica sono state alcune frasi di invidia verso i vincitori, i Cinque Stelle, e le loro candidate Appendino e Raggi. Nella Direzione di domani si presume che il segretario contrapporrà lo spirito aperto e ottimistico del “cambiamento” grillino alle cupezze di un rituale politico autoreferenziale che gli italiani respingono. Un modo per puntare ancora una volta su se stesso come l’unico in grado di riprendere il dialogo con gli italiani. Quello che cambierà sarà forse il tono: meno spavaldo del solito, come si conviene dopo la conta dei voti.
Sarebbe comunque un approccio insoddisfacente. Di fronte alle critiche, stavolta davvero aspre, Renzi dovrà fare molto di più: avviare un rimescolamento di carte nella segreteria, nel tentativo di coinvolgere alcuni nomi della minoranza più disposta a collaborare, e un congresso a breve scadenza, cioè dopo l’estate. Ma la vera questione riguarda la carica stessa di segretario. Nella prospettiva congressuale, se non prima, Renzi potrebbe essere indotto a lasciarla. Un passo doloroso che contraddice uno dei postulati del renzismo, la fusione fra premier e capo del partito. Il sostituto non potrà essere un suo stretto collaboratore. Più logico che sia una figura dotata di autonomia e in grado di parlare a nome della minoranza, la cui partecipazione è essenziale in vista del referendum di ottobre. Si dirà che un tale ginepraio, fatto di trattative e di “do ut des”, riconduce la politica alla dimensione un po’ esoterica che l’opinione pubblica non capisce. Ma il Pd si trova in mezzo a un passaggio cruciale della sua storia e non può sbagliare.
Del resto, se le idee di Renzi non sono ancora chiare, anche la minoranza deve individuare una rotta. Non può fermarsi all’era pre-Renzi e pensare che tutto possa tornare com’era prima, secondo la pretesa degli esiliati di Coblenza. Tanto più che a sinistra le voci sono tutt’altro che univoche. Si va dall’intransigenza assoluta di D’Alema, secondo cui la forma Boschi è incostituzionale, all’analisi di Prodi (nell’intervista a questo giornale) che ritiene indispensabile “cambiare le politiche” per evitare il rapido logoramento di chi si è presentato come il “nuovo”. E cambiare le politiche significa affrontare “le diseguaglianze perché l’ascensore sociale si è bloccato”.
In altre parole, Renzi tenterà di rilanciare il messaggio ottimistico e mediatico che fece la sua iniziale fortuna due anni fa. Con il pensiero rivolto al referendum che nel suo auspicio è il frullatore in cui si creerà un fronte trasversale del Sì capace di raccogliere molti elettori della destra o dei Cinque Stelle che domenica si sono espressi contro il Pd. Viceversa gli altri, i critici, intendono avanzare una linea socialdemocratica attenta al ceto medio impoverito e ai più disagiati. Come? Con quali risorse economiche? Guardando a quale modello in Europa? Sono domande ancora senza risposte; e qui è la perdurante debolezza della sinistra. Quanto al tema della legge elettorale, incombente sullo sfondo, è troppo presto per considerarlo già al centro dell’agenda. Vero che ieri è stata presentata alla Camera l’ipotesi Pisicchio per modificare l’Italicum. Ma il quadro è nebbioso. Sarà più limpido, anche in questo caso, a ridosso del referendum.

Pd, minoranza in pressing “Ora serve più sinistra” Renzi: stop alle correnti
Il premier: “Parliamo agli italiani, non di poltrone” Ncd: “Con il referendum finisce questo governo” di Goffredo De Marchis Repubblica 23.6.16
ROMA. Infilarsi in un dibattito sui cambi nella segreteria del Pd o sul rimpasto di governo non sarebbe una risposta alla sconfitta delle comunali. Così come parlare del referendum costituzionale di ottobre rispetto al quale, piano piano, Matteo Renzi modererà i toni apocalittici. «Dobbiamo capire come e dove possiamo fare meglio - dice il premier -. Apriamoci di più alle riflessioni e alle critiche dei cittadini ».
È un cambio della narrazione renziana, una strategia dell’ascolto finora poco praticata e dà anche l’immagine di un Paese che non è solo storie positive o successi. «Una discussione vera non sarà rimpiazzata dalla classica polemica sulle poltrone in segreteria o sul gioco delle correnti per tornare alla guida del partito. Non credo ai caminetti, anzi spalanchiamo le porte, altro che caminetti», avverte il premier.
Le correnti però si muovono. Cene, pranzi, riunioni in vista della direzione Pd di domani. E non solo nel partito di Largo del Nazareno. Martedì sera si sono visti i parlamentari di Area popolare (Ncd e Udc), il gruppo di Angelino Alfano. L’esito del vertice è sintetizzato nelle parole del capogruppo Maurizio Lupi: «Non passeremo all’appoggio esterno ma con il rerefendum il governo istituzionale finisce ». Quindi a ottobre ci sarà un «tagliando », nel quale entreranno il risultato della consultazione popolare, le modifiche all’Italicum e gli schieramenti per le future elezioni politiche. Stavolta ha l’aria di essere una sfida seria e non un nuovo penultimatum degli alfaniani perchè la scadenza è chiara e decisiva.
Ma di referendum e legge elettorale Renzi non parlerà o parlerà pochissimo nella direzione Pd. Non sono questi i temi su cui è maturato il cattivo dato delle comunali. Semmai occorre concentrarsi sulla «disuguaglianza», sulle periferie, sul malessere sociale, sulla crescita, si legge nella e news del premier. In pratica, confermando la valenza nazionale al voto di domenica cui aveva già accennato e prendendosi in carico le sue responsabilità.
Non è un caso che la sinistra interna si sintonizzi sulla stessa frequenza. Vuole lo scontro sul medesimo terreno di gioco. Oggi si riunisce la corrente di Bersani. Invita amministratori sconfitti e amministratori vincenti per raccontare le difficoltà del Pd sul territorio. La riunione si trasformerà in un duro attacco al renzismo e non sul versante delle poltrone o dei temi istituzionali. «Ci vuole una svolta a sinistra », dice il leader della minoranza Roberto Speranza. Dopo l’assoluzione totale all’incontro parteciperà anche Vasco Errani. Tra i neo sindaci parlerà il sindaco di Fiano Romano Ottorino Ferilli, cugino dell’attrice Sabrina che a Roma ha votato Virginia Raggi. IL succo vuole essere che il Renzi premier e il Renzi segretario hanno sbagliato tutto o quasi, sul modello dell’intervista di Romano Prodi a Repubblica.
«Esiste tante gente che non si sente fuori dalla crisi, Renzi invece gli racconta che la crisi è finita - argomenta Speranza -. Sotto i 25 anni il 40 per cento dei ragazzi continua a non avere lavoro e questo in parte spiega perchè il Pd ha perso tanti voti. Il Paese sta meglio, come racconta Palazzo Chigi? Evidentemente no».
La minoranza si è riunita ieri a pranzo con Pier Luigi Bersani. «Facesse quello che vuole sulla segreteria, sui rimpasti. Non ce ne importa nulla - insiste Speranza -. Ci importa molto di più l’immagine di un governo che è più vicino alle llobby anzichè ai cittadini come dimostra il voto sul referendum antitrivelle».
Parole che diventeranno il centro della riunione di oggi e l’arma da usare contro Renzi domani alla direzione del Partito democratico. Tutto è ora in movimento intorno al premier. Non soltanto la sinistra interna composta in larga parte da ex dirigenti dei Ds. La componente ex popolare del Pd fa altrettanto. Si riunisce, si consulta ed è la promotrice dell’idea di “spersonalizzazione” della partita di ottobre «perchè la riforma della Costituzione è più importante di tutto». Più esplicita la linea del deputato Giuseppe Lauricella, tra gli artefici delle proposte per cambiare l’Italicum, messa nero su bianco in una comunicazione interna: «Tra cambiare Renzi e non cambiare la Costituzione, io scelgo la prima ipotesi». 

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