martedì 7 giugno 2016

Volodija fa il suo gioco


Putin Da un lato crea il corpo di pretoriani dall’altro richiama i liberali al governo
di Paolo Valentino Corriere 23.6.16
MOSCA Se dovessimo giudicare dalla brillante esibizione di efficienza organizzativa, sicurezza di sé, sofisticazione diplomatica mista a spavalderia e capacità di attrarre il business internazionale offerte al Forum economico di San Pietroburgo, Vladimir Putin è apparso più saldo che mai al vertice della sua Russia.
Eppure, dietro l’innegabile stabilità di un leader che continua godere tassi di popolarità superiori all’80%, ansie e preoccupazioni traspaiono dalle sue più recenti scelte di politica interna.
Due decisioni soprattutto sembrano indicarlo. Sullo sfondo di un’economia in piena recessione, con il prodotto lordo contrattosi di oltre il 3% nell’ultimo anno e con lo sguardo rivolto alle elezioni della Duma del prossimo settembre, Putin si è mosso da un lato per rafforzare la sua verticale del potere, centrata sui cosiddetti siloviki , gli uomini della forza, dall’altro per mandare al Paese un segnale a suo modo riformista.
Creata per decreto presidenziale, la nuova Guardia Nazionale riporta sotto un singolo comando, che risponde direttamente al Cremlino, le diverse strutture di sicurezza. Al suo vertice è stato designato il più fedele dei siloviki putiniani, Viktor Zolotov, che chi scrive ricorda dietro a Boris Eltsin sopra il celebre carro armato nell’agosto 1991. Fra i compiti assegnati a questo vero e proprio esercito parallelo, che una volta a pieno regime potrà contare su 300 mila uomini, sono «la tutela dell’ordine pubblico, la lotta al terrorismo e all’estremismo, la protezione delle sedi del governo, l’assistenza al controllo dei confini, il contrasto al traffico d’armi e alla criminalità finanziaria».
«È chiaro che Putin voglia attrezzarsi contro eventuali movimenti di protesta, dietro i quali fra l’altro lui teme sempre regie esterne mirate a destabilizzarlo», spiega il politologo Stanislav Belkovsky. Un’analisi condivisa anche da Sergei Markov, ex deputato di Russia Unita, esperto di politica estera vicino al Cremlino, secondo il quale Putin «è convinto che ci saranno tentativi di dare una spallata al suo potere, orchestrati da Paesi stranieri, in occasione delle elezioni parlamentari e di quelle presidenziali del 2018». Da qui, la creazione della Guardia, «in grado di controllare e sopprimere ogni eventuale manipolazione del dissenso».
Più complessa la lettura di Gleb Pavlovski, ex consigliere politico di Putin nel suo primo mandato al Cremlino. Secondo lui, la formazione della Guardia è piuttosto un segnale discreto mandato all’interno, tanto alle varie strutture della forza quanto alle elites , che «negli ultimi tempi avevano manifestato una certa autonomia e alle quali Putin dice in questo modo che non ha alcuna intenzione di lasciare il potere». Fra i destinatari del messaggio, secondo Pavlovski, c’è anche l’esercito, sicuramente leale, «ma che sull’onda dei successi in Crimea e Siria, non ha mai avuto un ruolo politico così importante dai tempi di Zhukov negli Anni Cinquanta». Alleato e amico di Putin, l’attuale ministro della Difesa, Sergeij Shoygu, è in verità l’unico membro del governo russo che goda di grande popolarità.
Meno spettacolare, ma altrettanto significativa, è l’altra mossa decisa dal presidente russo, il richiamo in servizio fra i suoi consiglieri economici dell’ex ministro delle Finanze, Alexej Kudrin, a lungo considerato il campione dei riformatori. Nessuno sopravvaluta il suo ritorno. Ma, come spiega Sergei Markov, «per i loro rapporti personali, Kudrin è l’unico che può dire a Putin anche le verità più scomode».
Il problema è che quando gliele dice, almeno finora, non sembra servire a molto. Raccontano che in una recente riunione a porte chiuse del Consiglio economico, Kudrin abbia esposto una serie di proposte per rilanciare la crescita: riduzione della spesa pubblica, tagli al bilancio della Difesa, aumento dell’età pensionabile, concessioni geopolitiche all’Occidente per cercare di far abolire le sanzioni imposte dopo la crisi ucraina. «La sovranità della Russia non è negoziabile. Io la difenderò fino alla fine dei miei giorni», è stata la risposta di Putin, secondo i presenti, che evidentemente sono stati autorizzati a raccontarla.
«La nomina di Kudrin è soprattutto un fatto d’immagine — dice Pavlovski —, in vista delle elezioni Putin deve creare un blocco al vertice che mostri di operare con successo, perché in questo momento non ha molto da presentare al Paese. Per quanto suggestivo e simbolico, il concerto a Palmira di Valery Gergiev non può bastare. Il punto è che Putin è in conflitto tra valori e paure, tra la sua innata propensione alla stabilità, la sua paura del caos e la consapevolezza che le riforme siano necessarie, visto che è lui stesso a ripetere in continuazione che c’è la crisi e bisogna fare qualcosa».
Eppure, non si intravedono all’orizzonte vicino grandi sommovimenti sociali. Lo escludono anche gli esperti indipendenti del Centro Levada: «Il boom consumistico è finito — dice il direttore Lev Gudkov —. Non c’è più l’ottimismo del 2008, quando la crisi fu pesante, ma lo Stato aveva le risorse per compensare il calo dei livelli di vita. Nell’ultimo anno il potere d’acquisto è diminuito di un altro 10% e non è successo nulla. La gente si adatta e riduce i consumi». Markov parla di «nuova normalità». Putin ha un’altra definizione per questa capacità di sopportazione del popolo russo, quella che il suo filosofo di riferimento Lev Gumiliev, il figlio di Anna Akhamtova e Nikolai Gumiliev, chiamava passionarnost . La forza di una nazione, ha detto una volta, «non si misura dal suo potenziale economico, ma dalla sua forza di volontà, dalla sua energia interna», la passionarietà appunto.
È un cemento formidabile, ma che sia sufficiente è tutto da vedere. Da buon giocatore d’azzardo, Vladimir Putin spera che la storia gli regali altre carte da giocare, come quella della Siria lo scorso autunno, per rinsaldare il patto con i russi, anche se sono più poveri. Il piano, secondo Pavlovski, è chiaro: «Essere rieletto nel 2018 e rimanere al Cremlino fino al 2024». Ma fino ad allora, gli imprevisti possono essere tanti. Non è di buon auspicio, per esempio, l’eventuale divieto agli atleti russi di gareggiare alle Olimpiadi: «Tocca lo sport come veicolo dell’orgoglio nazionale, uno dei pilastri del sistema». Poi ci sono le elites , non solo gli oligarchi, oggi schierate fedeli e obbedienti dietro lo Zar, ma pronte come sempre nella Storia russa a coglierne ogni segno di debolezza. «In certi ambienti, parlare sia pure in linea teorica di un dopo Putin non è più un tabù». Basterà la Guardia Nazionale a mettere a tacere ogni tentazione?

IL DILEMMA DI PUTIN E L’OMBRA DI COSTANTINO 
ALBERTO MELLONI 12/6/2016 Restampa
FRA STASERA e domattina Vladimir Vladimirovic Putin deve decidere che parte vuole avere nella chiesa: lunedì mattina il sinodo della chiesa russa deve decidere se aderire alla richiesta di rinvio del concilio panortodosso che deve aprire i suoi lavori a Creta giovedì, avanzata “spontaneamente” dalla chiesa bulgara; o se dare il via libera al concilio che per la prima volta dopo oltre dodici secoli vede riuniti tutti i patriarchi della ortodossia e per la prima volta da sempre vede sedere a quel tavolo conciliare, rigorosamente rotondo, anche i patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Decide Putin. Sa benissimo cosa è in gioco per lui sul piano internazionale. Il presidente russo ha mandato a Roma due figure di caratura maggiore che gli possono spiegare cosa potrebbe accadere nei rapporti con Roma, e dunque con l’Occidente, se il gioco di rialzo della tensione dovesse sfuggire di mano alla Russia e alla chiesa russa. Sia Sergey Razov (che ha in curriculum una lunga missione a Pechino e che è stato viceministro degli Esteri, ambasciatore presso il Quirinale da tre anni), sia Alexander Avdeev (dallo stesso momento ambasciatore presso la Santa Sede, ambasciatore a Parigi e poi viceministro della Cultura quando il cardinale Betori, con l’assistenza diretta e discreta di Napolitano e Renzi, portarono in Battistero a Firenze una icona di Rublev che non aveva avuto culto da un secolo) sono stati accreditati anche per seguire un percorso di comunione che, dopo Cuba, attende conferme simboliche, teologiche e politiche di portata maggiore. Col papato di Francesco e nella segreteria di Stato di Parolin l’antica tentazione di usare le tensioni fra il patriarcato di Mosca e il patriarcato ecumenico di Costantinopoli sono state espunte in modo metodico: Roma vuole essere parte di un processo di comunione della ortodossia per motivi teologici, riguardanti la natura e la riforma del ministero petrino. Putin è stato all’altezza di questa sfida e qualcosa di più del suo beneplacito ha favorito quello storico primo passo. I tempi del secondo passo dipendono in realtà dal concilio di Creta: Roma — la Antica Roma, come si dice in Oriente — non potrebbe che tirare tutte le conseguenze di un gioco che facesse effettivamente saltare il concilio che l’ortodossia prepara da mezzo secolo e che la “sinassi dei patriarchi” (la riunione dei 14 capi delle chiese autocefale e dei patriarcati) ha convocato nel 2008 e fissato da pochi mesi, spostandone la sede da Istanbul a Creta, proprio per non esporre il concilio alla crisi politica fra Turchia e Federazione Russa.
Decide Putin, di sé e del concilio. A meno che quello di lunedì non sia un set che proprio Vladimir Vladmirovic ha allestito per fare pesare il profilo “costantiniano” a cui ambisce e non da oggi. Nel cerimoniale televisivo del suo primo giuramento presidenziale aveva disseminato il set di riferimenti alle icone di Costantino (l’imperatore venerato come santo in oriente): gradini, inquadrature, profili che, quando curai per i tipi di Treccani i tre volumi su Costantino usciti nel centenario del cosiddetto “editto di Milano”, consentivano di dire che il mito dell’imperatore cristiano era entrato intatto nell’era televisiva. Gestendo le immagini con quella che a noi poveri figli della barbarie carolingia sembra un calcolo e che in Oriente è un istinto spirituale, Putin voleva fin da allora accreditarsi come un protagonista della storia della chiesa: e, se lo sia costruito o no, questa domenica deve decidere in che modo scrivervi il suo nome. Far dire di Putin che all’appuntamento con la storia mostrò di essere un autocrate bizzoso che perde l’occasione storica di favorire un moto conciliare dalle conseguenze incalcolabili e si schiera coi fondamentalisti ortodossi che maledicono la peste ecumenica, che paventano l’invasione di un’etica libertina in cui l’Oriente avrebbe non molto da imparare, e che guardano con qualche invidia al fondamentalismo islamico. Oppure proporsi davvero come una icona neo-costantiniana che permette al concilio di iniziare e di segnare una tappa nella lenta ricostruzione della comunione dei patriarchi, delle chiese, dei cristiani.
Se lo farà, potrà pensare di aver rubato la scena, al patriarca ecumenico Bartholomeos, la cui santa pazienza nella cucitura del miracolo conciliare non cessa di stupire chi non ne conosce lo spessore spirituale; ma alla fine avrà permesso proprio a quella santa pazienza di ottenere il suo scopo: che non è quello di fare del trono di Andrea una specie di mini-papato d’Oriente, ma di aver mostrato “verbis et operibus” anche al successore di Pietro e ai suoi fratelli vescovi che la sinodalità è la via dell’unità.
“La lotta per il concilio”. Così si intitolava il primo volume della storia del concilio di Trento di Hubert Jedin e così il suo miglior scolaro, Pino Alberigo, aveva scritto del Vaticano II. Si trattava della conferma empirica di qualcosa che accompagna le doglie di ogni grande concilio: perché ogni concilio che non sia mero congressicolo religioso, nasce solo davanti ad un conflitto vero. Dove si palesano motivate resistenze a passare dalla porta stretta del consenso invece che dalla larga porta dell’autorità. Dove entrano in gioco visioni del passato e del futuro e questioni che vengono esposte al vento infuocato dello Spirito che abbatte e che crea. Quella che si combatterà questa notte fra il Cremlino e il patriarcato sarà un pezzo della più classica lotta per il concilio: Pentecoste è giovedì.
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Netanyahu-Putin, il risiko delle alleanze
Il premier vuole garanzie sulle mosse di Iran ed Hezbollah Mosca rafforza i legami con Israele e i sunniti egiziani e sauditi

di Giordano Stabile La Stampa 7.6.16
Un tank catturato 34 anni fa dai siriani e che ora Vladimir Putin restituisce a Israele perché i famigliari dei soldati dispersi e mai tornati a casa abbiano almeno qualcosa su cui pregare. Un accordo economico sulle pensioni degli immigrati russi arrivati nello Stato ebraico prima del dissolvimento dell’Urss. E soprattutto un patto sempre più stretto sulle «zone di influenza» in Siria con la garanzia dello Zar a Benjamin Netanyahu che gli Hezbollah libanesi non prenderanno il controllo del confine davanti alle alture del Golan.
Il terzo vertice a Mosca fra il presidente russo e il premier israeliano, in meno di un anno, sigilla un’intesa strategica ma anche personale. Non si chiameranno ancora fra di loro con i vezzeggiativi Vava e Bibi, ma Putin e Netanyahu, accompagnato dalla moglie Sara, hanno dimostrato di capirsi e rispettarsi, nonostante si trovino sui fronti opposti nella guerra civile siriana e nel Grande gioco in Medio Oriente. Con Mosca che ha i più stretti alleati nell’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco, mentre lo Stato ebraico considera gli ayatollah iraniani «più pericolosi dell’Isis».
Putin non vuole rimanere inchiodato a una sola alleanza. Ha ottimi rapporti con l’Egitto sunnita di Abdel Fatah Al-Sisi e anche con la monarchia saudita. Due partner chiave per Israele in questo momento. E tratta lo Stato ebraico da potenza leader regionale. I quattro incontri in nove mesi, se consideriamo anche il bilaterale a Parigi durante il summit sul clima, coincidono con l’intervento in Siria, che Mosca ha in qualche modo concordato con gli israeliani.
Prima ancora che con il Pentagono, l’aviazione russa ha creato una «war room» con quella israeliana, per evitare «incidenti» nei cieli siriani. Nell’ultimo viaggio, ad aprile, Netanyahu ha ammesso che i jet israeliani avevano compiuto «decine di raid» contro gli Hezbollah. E Putin non ha mostrato nessun imbarazzo. Il tema più impegnativo, anche al summit cominciato ieri sera e che proseguirà oggi, sono proprio le milizie sciite. Bibi vuole garanzie sulla fascia di territorio accanto alle alture nel Golan, teme «un altro fronte terrorista», dopo quelli con Hezbollah nel Sud del Libano e con Hamas nella Striscia di Gaza.
L’influenza di Mosca su Damasco e su Teheran è tale da poter immaginare un veto dello Zar al dispiegamento di Hezbollah. E anche sulla vendita all’Iran dei sofisticati missili anti-aerei S-300, in grado di fermare i jet dell’aviazione con la stella di Davide, Putin sembra tenere in considerazione le obiezioni di Netanyahu. La consegna va a rilento, con la scusa di ritardi nei pagamenti.
Putin tiene conto anche degli sviluppi interni a Israele. Con l’ingresso di Avigdor Lieberman nel governo, gli ebrei russi in Israele, quasi un milione, hanno un peso decisivo. Ed ecco che arriva l’accordo per concedere pensioni, pagate in parte dalla Russia, agli immigrati arrivati prima del dissolvimento dell’Urss che finora non ne avevano diritto. Un regalo all’elettorato di Lieberman e un sostegno a Netanyahu, che così rispetta i patti con il nuovo partner.
Ma il gesto che va al cuore di tutti gli israeliani è la restituzione del tank catturato in Libano dai siriani e poi regalato da Hafez Assad all’Urss ed esposto al museo di Kubinka. Non è un reperto bellico o una preda di guerra. È l’ultimo ricordo tangibile per i familiari dei tre carristi dispersi nella battaglia di Sultan Yacub del 10 giugno 1982, dove morirono 30 loro commilitoni, e mai tornati a casa. La restituzione del tank equivale quasi a quella dei corpi e mostra sensibilità verso il più alto valore per gli israeliani: il rispetto per i caduti. Putin l’aveva promesso a Netanyahu e ha mantenuto il patto.

Il fascino di Putin in Europa
di Cesare Martinetti La Stampa 21.5.2016
I generali della Nato che dalla base polacca di Redzikowo scrutano l’orizzonte e si dicono pronti a sparare nel caso Mosca decida l’attacco all’Estonia, non hanno capito che Vladimir Putin, senza sparare un colpo, è già tra noi. Nel consiglio regionale veneto, per esempio, che l’altro giorno si è autoproclamato soggetto di politica estera ed ha riconosciuto la Crimea ritornata russa due anni fa con il primo colpo di mano alla sovietica dopo l’89.
O nei ricchi finanziamenti al partito di Marine Le Pen. Nell’appoggio all’estrema destra austriaca che domenica può arrivare al vertice della repubblica. Nel sostegno diretto o indiretto a tutti i movimenti antisistema che stanno proliferando nell’Unione europea, dall’ungherese Orban, agli spagnoli di Podemos ai tedeschi dell’AfD. Vladimir Putin è ormai un leader globale post novecentesco e cioè oltre la destra e la sinistra.
Intanto dal Veneto leghista ha incassato un riconoscimento straordinario dal suo grande sostenitore Matteo Salvini. Finora l’avevano fatto soltanto Corea del Nord, Siria, Zimbabwe, Uganda, Kirghyzstan. Naturalmente nessuno stato dell’Unione europea e tantomeno nessuna regione. Una provocazione per ottenere la cancellazione delle sanzioni di cui si sta discutendo il rinnovo. Gli elettori del pragmatico leghista Luca Zaia, governatore del Veneto, premono su regione e governo. Secondo il conteggio della Cgia di Mestre, le sanzioni sono costate circa 3,6 miliardi di euro in mancate esportazioni: 1,18 miliardi alla Lombardia, 771 milioni all’Emilia Romagna, 688,2 milioni al Veneto.
Un pezzo significativo di mondo economico che dopo il referendum in cui gli abitanti della Crimea hanno in gran maggioranza detto sì ai russi, non capisce le ragioni di tanto accanimento ideologico che da parte di americani, baltici e polacchi in questi due anni ha di gran lunga sopravanzato i toni da Guerra Fredda usati dai russi. Non sanno e non gli importa un granché del destino storico e simbolico dell’Ucraina che ha ricevuto così il secondo schiaffo dall’Europa, dopo il no del referendum olandese. Il presidente Poroshenko ha protestato, ma chi si interessa più di cosa accade laggiù? E nel Donbass si spara ancora?
Ma se la pressione dei veneti è certamente giustificata (molti in Francia e Germania la penseranno come loro) e il danno economico indiscutibile, le cose in politica estera sono più complicate. Nel reportage di Monica Perosino dalla base Nato polacca pubblicato su la «Stampa» di domenica scorsa, si respirava un clima di rilancio della guerra di propaganda da parte occidentale del tutto asimmetrica rispetto alle abili mosse di Putin. Ma davvero qualcuno pensa che possa invadere uno Stato Baltico? Il capo del Cremlino sta usando da tempo ben altre armi sulla vecchia Europa, un soft power aggiornato ai tempi. Basta leggere su internet il sito «it.sputniknews.com» («è solo l’inizio», diceva ieri a proposito del voto veneto) dove rimbalza una propaganda molto meno grossolana del passato. Anche l’incontro a Cuba tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill (molto fedele al Cremlino) è servito alla causa. E ora in molti ambienti ultraconservatori cattolici, in Francia ma anche in Italia, si guarda a Putin come il difensore della cristianità e il vero leader alternativo alla «dittatura» dell’Unione europea. Non si sa quanto fosse chiaro tutto questo ai leghisti veneti che dopo aver celebrato il guitto scomparso Lino Toffolo hanno riconosciuto la Crimea. Ma di certo, come dice sputniknews, è un passaggio che complica la partita.

La Russia di Putin avversario strategico dell’occidente?
di Ricardo Franco Levi Corriere 9.6.16
«Dietro alla scrivania, sotto l’aquila dorata a due teste della Russia su uno scudo rosso, sedeva il Presidente: pallido, il volto esangue, gli zigomi alti, gli occhi freddi, minacciosi, di un azzurro chiaro… “Il mio primo dovere è difendere la Russia impedendo l’accerchiamento da parte della Nato. E il modo per farlo è di impadronirci dell’Ucraina orientale e degli Stati baltici”». «Una dura donna d’affari salita al vertice in un mondo di uomini, era stata l’anno prima la sorprendente vincitrice delle elezioni presidenziali. Elegantemente vestita, i capelli tinti di biondo, sottolineava la propria femminilità indossando una gonna. “Questa non è la prima volta nella storia che la libertà dell’Europa dipende dalla determinazione del presidente degli Deputy Supreme Allied Commander Europe Stati Uniti… Potete fare affidamento su di me. Ma anche la Nato deve fare la propria parte”».
Raccontata col piglio di un thriller di Frederick Forsyth o di Tom Clancy, 2017, War with Russia , appena pubblicato in Inghilterra da Coronet, è la storia di una catastrofica guerra resa possibile dall’incapacità della Nato e dell’Occidente di resistere a un’aggressione della Russia con l’invasione prima dell’Ucraina, poi dei Paesi baltici.
Un romanzo giallo come tanti altri, si dirà. Se non che l’autore è sir Richard Shirreff, un generale britannico a quattro stelle, sino a due anni fa il militare europeo più in alto in grado nella Nato, secondo al solo comandante supremo e, come tale, testimone e partecipe delle riunioni di più alto livello dove si decidevano le politiche di sicurezza e difesa dell’Occidente.
E per quanto in 2017, War with Russia gli scontri e i combattimenti siano scritti e descritti con l’immediatezza, la precisione e il pathos che solo chi li ha vissuti in prima persona possiede (i duelli aerei tra russi e americani valgono il migliore dei film di guerra), sono proprio le pagine sulle riunioni nel quartier generale della Nato a Bruxelles, al numero 10 di Downing Street, al Pentagono, alla Casa Bianca che offrono i più penetranti elementi di interesse, di curiosità, di conoscenza.
Lasciamo al lettore — è difficile pensare che il libro possa sfuggire all’attenzione degli editori italiani — il piacere di scoprire la trama del romanzo. Qui merita di riportarne e sottolinearne la tesi di fondo. L’invasione e la successiva annessione della Crimea, il sostegno della Russia ai separatisti della regione orientale e poi l’invasione dell’Ucraina, l’annuncio nel marzo 2014 dell’intenzione di riunire le popolazioni russofone sotto le bandiere della Madre Russia, fanno della Russia il nostro avversario strategico, in rotta di collisione con l’Occidente.
Di fronte a questa minaccia è essenziale mantenere forze militari — carri armati, aerei, artiglieria, navi, uomini sul terreno — in grado non solo di respingere ma, prima ancora, di scoraggiare un eventuale attacco. È solo il possesso e il mantenimento in piena efficienza di robuste forze convenzionali — il contrario di quanto segnalato con il ritiro dell’ultimo carro armato americano dalla Germania un mese dopo l’invasione della Crimea — che offre la speranza di non dover mai ricorrere all’opzione finale: l’arma nucleare.
Ma, se siamo arrivati a questo punto, la responsabilità — ricorda lo stesso Sir Richard Shirreff — non è solo della Russia di Vladimir Putin, è anche nostra, dell’Occidente. Dopo avere allargato la Nato ai paesi dell’Europa Centrale, ai Balcani e ai Paesi baltici, con la promessa di un ingresso nell’Alleanza estesa all’Ucraina abbiamo reso concreta la possibilità e acuito la storica paura di un accerchiamento militare in una Russia che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il caos degli anni Novanta, stava ricostruendo la propria potenza e recuperando il proprio orgoglio nazionale.
Ricercando, in un arco che può andare dal Baltico sino alla sponda sud del Mediterraneo, le ragioni, le occasioni e gli strumenti di un dialogo e di una collaborazione con Mosca, spettano, dunque, alla politica il compito e il dovere di rendere meno angosciosa la prospettiva di una sicurezza affidata al solo equilibrio degli arsenali militari.Intanto, leggiamo con attenzione questo libro coraggioso, tempestivo e importante.

Renzi, dalla Russia con timoreIl premier scappa dai ballottaggi e va da Putin per il disgelo: le sanzioni non siano automatiche. Ma nello stesso giorno L’Ue le rinnova. Le imprese italiane firmano accordi per un miliardo. Ma Mosca evoca una nuova guerra fredda
Domenico Cirillo Manifesto ROMA 18.6.2016, 23:59
Eni, Saipem, Finmeccanica, Cassa depositi e prestiti, Fincantieri. Pizzarotti costruzioni, Tecnimont: con i manager di queste imprese pubbliche e private Matteo Renzi si è presentato a San Pietroburgo, saltando le ultime 48 ore di campagna elettorale. L’International economic forum che si tiene nell’antica capitale degli zar non è esattamente un vertice mondiale di primo piano – l’Italia è il paese ospite di questa edizione – l’altro capo di stato intervenuto a fare compagnia a Renzi è stato il presidente del Kazakistan Nazarbayev. Padrone di casa Vladimir Putin, che prima ha elogiato il premier italiano – «gli italiani devono essere orgogliosi di lui, è un grande oratore» – poi è passato rapidamente al sodo. «Abbiamo la conferma dell’interesse italiano a collaborare con le aziende russe, l’Italia è il nostro quinto partner commerciale, l’interesse è reciproco e al centro dei contratti rimane l’energia».
Centralità intuibile dall’elenco delle aziende invitate, malgrado Eni abbia dovuto subire la recente rinuncia da parte dell’Europa e della Russia al gasdotto South Stream. Renzi ha fatto i conti con i giornalisti italiani al seguito: «Abbiamo firmato undici accordi per circa un miliardo di euro, si tratta di intese che spalancano le porte a partnership che valgono almeno quattro miliardi». Ètoccato a Putin annunciare un accordo con l’Agenzia spaziale italiana: nel 2017 un cosmonauta italiano parteciperà a una missione spaziale con i russi.
Ma le aziende italiane, tra le più penalizzate dalle sanzioni incrociate tra Unione europea e Russia a seguito della crisi in Ucraina, sono interessate soprattutto a intercettare il clima di disgelo nelle relazioni. E così Renzi ha potuto fare la dichiarazione politicamente più impegnativa del forum: «Le misure restrittive non devono rinnovarsi in maniera automatica come se fossero normale amministrazione – ha detto – deve esserci un dibattito all’interno del Consiglio europeo». A San Pietroburgo è intervenuto anche il presidente della Commissione europea Jean Claude Junker, che ha detto che Russia ed Europa «hanno bisogno di ricostruire il loro rapporto». Eppure proprio ieri il Consiglio europeo – in coincidenza con il vertice sulla Neva, con Renzi e Junker ospiti di Putin – ha deciso di annunciare che le misure economiche restrittive (che sarebbero scadute a fine luglio) sono state prorogate fino al 23 giugno del 2017.
Putin si è detto disponibile a un allentamento unilaterale delle sanzioni da parte della Russia, «ma solo se ci convinceremo che non verremo ingannati un’altra volta». Renzi ha detto che l’Italia chiederà ai partner europei «di esaminare lo stato dell’arte degli accordi di Minsk, che vanno implementati da parte degli amici europei, degli amici russi e anche degli amici ucraini». Cioè si tratterà di vedere se Kiev sta rispettando le promesse per superare la crisi nata in Crimea; Putin continua a chiedere ai leader europei di insistere con gli ucraini perché facciano la loro parte. E, malgrado il clima disteso, il presidente russo non ha rinunciato a qualche avvertimento pesante: «Se continuiamo a spaventarci l’un l’altro e la Nato continua a dover avere un nemico per giustificare la sua esistenza, non posso escludere che si ritorni alla guerra fredda». Al che Renzi è saltato su a dire che «la parola guerra fredda non può stare nei vocabolari del terzo millennio, è fuori dalla storia e dalla realtà. Russia ed Europa devono tornare a essere ottimi vicini di casa».
Renzi ha anche parlato del referendum in Gran Bretagna e dell’Europa in genere: «Così non va, o cambia o è finita». «Non sono così pessimista – ha detto Putin – l’Europa non finirà mai comunque vadano le cose». «Vedete, è più europeista di me», si è inserito Renzi. Ma il ragionamento del presidente russo alludeva all’influenza degli Stati uniti sull’Unione europea. «Noi siamo interessati a un’Europa forte – ha detto infatti – quando il partner è debole bisogna sempre temere che arrivi qualcuno a rovinare il lavoro fatto fino a quel punto».
Renzi è ripartito per l’Italia senza dedicare una sola parola ai ballottaggi di Roma, Milano e Torino, dai quali si è tenuto lontano intenzionalmente. Sperando così di non danneggiare i candidati del Pd. Il suo solo rammarico è stato quello di non aver potuto seguire la partita della nazionale di calcio. È stato Putin a informarlo, durante i lavori del forum, del gol di Eder.

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