TRUMP E IL SEGRETO DEI LEADER POPULISTI
IAN BURUMA Repubblica 01 ottobre 2016
Al momento parrebbe che Clinton stia facendo presa sulla classe urbana, più istruita, mentre Trump attrae perlopiù uomini bianchi e meno scolarizzati, molti dei quali in passato sarebbero stati dei minatori di carbone o degli operai che davano il proprio voto ai democratici. Ciò significa che c’è un nesso tra l’istruzione, o la sua mancanza, e la propensione a farsi sedurre dal pericoloso fascino di un demagogo?
Uno degli aspetti più sorprendenti di Trump è rappresentato dal suo livello di ignoranza, e dal fatto che egli riesca a ostentarla facendola franca. Per un candidato sguaiato e ignorante, fare presa su un gran numero di persone la cui conoscenza del mondo è modesta quanto la propria è forse più facile. Tale affermazione si basa tuttavia sul presupposto che nella retorica di un agitatore populista la realtà dei fatti abbia un suo peso. Molti dei sostenitori di Trump non sembrano interessati ad argomentazioni ragionevoli, che ritengono una cosa da snob liberal. Quel che conta per loro sono soprattutto le emozioni, e le emozioni su cui i demagoghi amano fare presa sono in primo luogo la paura, il risentimento e la sfiducia. Ciò era vero anche in Germania, quando Hitler salì al potere. Inizialmente, però, la maggior parte dei sostenitori del Partito nazista non apparteneva alle classi meno istruite. In Germania il livello di istruzione era in media superiore a quello di altri Paesi, e tra i nazisti più entusiastici si contavano insegnanti, ingegneri e dottori, oltre che piccoli uomini d’affari di provincia, impiegati e coltivatori. Nel complesso, gli operai delle città e i cattolici conservatori erano meno suscettibili alle lusinghe di Hitler di quanto non lo fossero molti protestanti ben più istruiti.
L’ascesa di Hitler non può essere spiegata con un livello di istruzione basso. Nella Germania di Weimar, all’indomani della sconfitta bellica e di una depressione economica devastante, paura e risentimento erano quasi endemici. Ma i pregiudizi razziali fomentati dalla propaganda nazista non erano gli stessi che oggi si riscontrano tra molti dei sostenitori di Trump. Gli ebrei erano visti come una forza sinistra che dominava le professioni elitarie. Erano considerati alla stregua di traditori: erano loro che impedivano alla Germania di tornare grande. Mentre i sostenitori di Trump dimostrano un’ostilità analoga nei confronti dei simboli delle élite (come i banchieri di Wall Street e gli insider di Washington), la loro xenofobia è invece diretta contro i poveri immigrati messicani o i rifugiati mediorientali — visti come dei parassiti. Si tratta di persone relativamente svantaggiate che in un mondo globale e multiculturale se la prendono con chi ha addirittura meno di loro.
Negli Stati Uniti dei nostri giorni, così come nella Germania di Weimar, coloro che provano risentimento e paura nutrono talmente poca fiducia nelle istituzioni economiche e politiche da affidarsi a un leader che promette un livello di rottura massimo. Sperano che facendo piazza pulita si possa tornare ad essere grandi. Nella Germania di Hitler tale speranza era condivisa da tutte le classi sociali, nell’America di Trump è soprattutto appannaggio delle frange più svantaggiate.
Negli Usa e in Europa il mondo appare meno spaventoso alle classi più istruite e benestanti. Ovvero le classi che traggono giovamento dall’apertura delle frontiere, dal basso costo della manodopera fornita dagli immigrati, dal diffondersi dell’informatica e dalla ricchezza delle influenze culturali. Gli immigrati e le minoranze etniche che desiderano migliorare le proprie condizioni non hanno alcun interesse ad unirsi a una ribellione populista che è diretta principalmente contro di loro, ed è per questo che voteranno per Clinton. Trump deve quindi puntare sugli americani bianchi e delusi. È grave che nella società Usa tante persone sostengano un candidato così inadeguato. E questo deve avere qualcosa a che fare con l’istruzione. Non perché le persone istruite siano immuni alla demagogia, ma perché un sistema scolastico allo sfascio lascia troppe persone in una condizione di svantaggio. In passato l’industria garantiva a un sufficiente numero di individui meno istruiti dei posti di lavoro che permettevano loro di vivere decentemente. Adesso che nelle società post-industriali quei posti di lavoro stanno scomparendo, in troppi credono di non avere nulla da perdere. E se ciò è vero in molti Paesi, nel caso degli Stati Uniti è più preoccupante, perché affidando quella nazione a un demagogo ignorante non si causerebbero solo gravi danni in quel Paese, ma anche in tutti quei luoghi dove le istituzioni che ci garantiscano le nostre libertà continuano ad essere apprezzate.
( Traduzione di Marzia Porta) ©RIPRODUZIONE RISERVATA
IL REFERENDUM DELL’UNGHERIA E IL RUOLO DELL’EUROPA
SOLO una macabra farsa: questo era il referendum ungherese contro gli stranieri e contro “i diktat” di Bruxelles fortemente voluto dal premier Viktor Orbán. E tale si è rivelato. Il popolo cui amano fare appello piccoli e grandi dittatori questa volta ha preferito tacere.
FORSE ha fiutato l’inganno e ha evitato di acclamare l’uomo forte di Budapest. Ma il danno resta per l’immagine di quel Paese e per il destino futuro dell’Europa. La grande speranza si è rivelata una fugace illusione: avevamo creduto che la caduta del Muro di Berlino se non proprio la “fine della storia” avesse, almeno in Europa, segnato la fine dell’età dei muri e dei reticolati di filo spinato. E invece sta accadendo esattamente il contrario. Quella che una volta tra ammirazione e sospetto veniva chiamata Mitteleuropa sembra tornata preda di antichi fantasmi e di pulsioni identitarie nell’illusione di trovare risposte alle sfide del mondo globale in una inattuale autarchia economica e spirituale.
I governanti dei Paesi dell’Est Europa capeggiati proprio da Orbán credono possibile dare risposta alla sfida planetaria rappresentata dalla migrazione di popolazioni in fuga dalle guerre del Medio Oriente, o dalla miseria del continente africano, ricostruendo quella che, per più di mezzo secolo, era stata causa delle loro sofferenze: una nuova cortina di ferro. Un passo dopo l’altro, una crisi dopo l’altra, dunque, l’Europa procede spedita verso la sua disunione politica e culturale: come capitò ai sonnambuli che scivolarono senza neppure averne consapevolezza nella Prima guerra mondiale, gli europei potrebbero uno di questi giorni scoprire di aver superato il punto di non ritorno verso uno storico fallimento. Un fallimento che appare tanto più paradossale in quanto i governi dei singoli Paesi cercano risposte nazionali, o peggio ancora nazionaliste, a sfide che essi stessi definiscono di natura globale e condannano in tal modo i propri Paesi e l’intera Europa ad un declino irreversibile.
Oggi, come accadde negli anni ’20-’30 del Novecento, assistiamo infatti allo scontro di “due Europe”: quella che crede che sia possibile governare le metamorfosi in atto nel segno della giustizia sociale, della libertà e dell’universalismo dei diritti. L’altra che, invece, fa politica con la paura e l’odio e insinua la velenosa convinzione che sia possibile impedire l’irruzione del mutamento innalzando Muri e chiudendo i confini nazionali.
Sappiamo come andò a finire allora. Non è del resto un caso che, da buon conoscitore della storia europea, Helmut Kohl nel discorso tenuto nell’ottobre del 1993 dinnanzi all’Assemblea nazionale francese avesse messo in guardia gli europei ricordando loro che «gli spiriti maligni non sono stati banditi per sempre dall’Europa» e ammonendo che «ad ogni generazione si pone di nuovo il compito di impedire il loro ritorno, di superare i pregiudizi e di far cadere i sospetti ».
La previsione fatta dal Cancelliere dell’unificazione tedesca appare drammaticamente confermata da quanto accade oggi in tutto il Vecchio Continente, dalla Brexit all’anarchia spagnola. E soprattutto dall’enorme potenziale di consenso che movimenti xenofobi e populisti riescono a catalizzare anche in Paesi di antica civiltà giuridica e storica tradizione di universalismo politico com’è il caso della Francia.
La verità è che in quel Paese come in molti altri, Italia compresa, si contrappongono, provocando una crescente conflittualità politica e spirituale che supera la classica contrapposizione tra destra e sinistra, due “visioni del mondo”. Una è convinta non solo della possibilità di governare la dimensione di questo esodo carico di tragedie, ma anche che questo fenomeno rappresenti un obbligo morale e al tempo stesso una opportunità per il futuro che altrimenti la demografia condannerebbe a un declino irreversibile. L’altra è una “visione del mondo” dominata da dubbi e paure, da pregiudizi ma anche da timori diffusi tra le parti più deboli, socialmente e culturalmente, delle società europee sulla possibilità di riconquistare o quanto meno di difendere determinati livelli di sicurezza sociale. Come pure i valori tradizionali che guidano il funzionamento della vita quotidiana, minacciati dalla sensazione di non essere più padroni del proprio destino di cui è metafora la crisi della sovranità sui confini nazionali.
Oggi è molto difficile formulare una ragionevole previsione sui destini d’Europa o addirittura di quello che abbiamo imparato a indicare, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, come l’Occidente. Non sappiamo se le istituzioni dell’Unione europea reggeranno l’urto del terribile ciclo elettorale che vedrà coinvolti nei prossimi dodici mesi — nel settembre del 2017 si svolgeranno le elezioni in Germania — praticamente tutti i principali Paesi del Vecchio continente. Né quale America uscirà dal confronto tra il feroce populismo di Trump e l’occidentalismo tradizionale ma dallo scarso carisma di Hillary Clinton.
Certo tutto sarebbe diverso se l’Europa fosse in grado di esprimere una politica, se sapesse e potesse parlare con una sola voce. Se: ma non è così. Le democrazie europee strette in una implacabile tenaglia, da un lato le questioni globali e dall’altro la necessità di conquistare legittimità politica parlando un linguaggio locale, tra dover elaborare un “nuovo racconto” che tenga conto delle mutate condizioni geo-politiche e geo-economiche del pianeta-mondo dell’età globale e dover dare ascolto alle attese spesso corporative di cittadini protagonisti di cicli elettorali sempre più brevi, rischiano il corto circuito. Se da qualche parte in Europa c’è qualche leader capace di impedire che essa faccia bancarotta una seconda volta nel giro di un secolo, è questo il momento che si faccia sentire.
Hic Rhodus, hic salta. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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