martedì 4 ottobre 2016

Con i Maestri perderemo. «Finalmente la grande politica...». Settis e Napolitano se le danno di santa ragione


Scalfari Repubblica

POTERE CONCENTRATO E POTERE DIFFUSO 
NADIA URBINATI Repubblica 4 10 2016
L’OLIGARCHIA è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono, salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum » . Eugenio Scalfari, che scriveva queste parole nell’editoriale di domenica scorsa, ci stimola con la sua lapidaria catalogazione a chiederci se questa riproposizine di Robert Michels sia utile a capire ( e soprattutto a gestire) la forma di governo nella quale viviamo, il governo rappresentativo. Un governo che agli elitisti antidemocratici del primo Novecento sembrava null’altro che un’astuta riedizione dell’oligarchia appunto, con le masse illuse che bastasse votare per vivere in democrazia. Parlare di democrazia rappresentativa all’interno di questo universo concettuale, attivato proprio quando l’odiata democrazia si presentava sulla scena europea, ha poco senso. Meno ancora ne ha pensare di rubricare il governo rappresentativo come democratico. Nello schema duale proposto da Scalfari — decidere direttamente oppure essere governati da un’oligarchia — è difficile far posto al governo rappresentativo. Difficile, anche, vedere lo scivolamento del governo rappresentativo verso una concentrazione oligarchica del potere.
Però la democrazia rappresentativa non è un ossimoro. Ha un’identità e una tradizione sua specifica, con un pantheon di studiosi ( certamente diversi tra loro) di tutto rispetto, a partire da Montesquieu e Condorcet, dai Federalisti americani a J. S. Mill, autori a Scalfari familiari. Circa vent’anni fa Bernard Manin ha sistematizzato queste idee e proposto il governo dei moderni come un “ governo misto”, che tiene insieme forma oligarchica e forma democratica. L’oligarchia non è democrazia. E quando ha un fondamento nel consenso elettorale libero e ciclico può combinarsi con la democrazia ( per questo, Madison rifiutava il termine oligarchia e parlava di “ aristocrazia natuale”, per distinguerla da quella cetuale che non discende dalla selezione elettorale). L’elemento democratico non sta solo nel voto ( eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate. È il libero e plurale dibattito che dà alla selezione elettorale ( di natura aristocratica, secondo gli antichi e i moderni) un carattere democratico. Quindi la democrazia elettorale e discorsiva limita l’oligarchia, non è oligarchia. Perché è importante tenere insieme i pochi e i molti, o se si preferisce la distinzione di chi compete ( poiché per competere occorre mostrare un’identità distinguibile) con la dimensione dell’eguaglianza democratica? Tra le tante ragioni che si potrebbero addurre, una soprattutto merita attenzione: per impedire la solidificazione del potere dei selezionati; ovvero per scongiurare la formazione di una classe separata, oligarchica. La temporalità del potere ( la sua brevità di esercizio) che l’elezione immette nel sistema e la subordinazione dell’eletto ( o del candidato) all’opinione di ordinari cittadini: questo fa della democrazia rappresentativa non un ossimoro e non una malcelata oligarchia, ma un governo unico nel suo genere, che contesta l’idenficazione della democrazia con il voto diretto. E fa comprende perché nelle democrazie moderne la lotta, perenne, è sulle regole che presiedono alla formazione del consenso, all’organizzazione elettorale, e infine alla limitazione del tempo in cui il potere è esercitato. Nella tensione mai risolta fra diffusione e concentrazione del potere ( democrazia e oligarchia) sta la dinamica della democrazia rappresentativa.

LA RIFORMA RICALCA QUELLA DI BERLUSCONI 
Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale di Pisa e editorialista di (Einaudi, 2016) ci ha inviato una lettera aperta al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha accettato di rispondergli

SALVATORE SETTIS Repubblica 4 10 2016
ILLUSTRE Senatore Napolitano, ho la più grande considerazione per la Sua cultura politica e per la Sua figura, tra le poche di questi decenni che resteranno nella storia d’Italia. È proprio per questo che mi permetto di rivolgerLe rispettosamente tre domande a proposito della proposta governativa di modifica della Costituzione, sulla quale il popolo italiano si esprimerà in un referendum convocato secondo l’art. 138 della Carta.
Primo punto: la riforma che Lei oggi sostiene, e che ha sostenuto già da Capo dello Stato (al punto che il presidente del Consiglio l’ha definita “riforma Napolitano”), coincide in alcuni punti essenziali con la riforma Berlusconi-Bossi che Lei vigorosamente osteggiò con memorabili interventi, e che 16 milioni di italiani bocciarono nel referendum popolare del 2006. Analogo è il rafforzamento dell’esecutivo, in ambo i casi presentato come finalità delle modifiche. Assai simile è la metamorfosi del Senato (“federale” nel 2006, “delle autonomie” nel 2016), che in ambo i casi non esprime la fiducia al governo. Quasi identico al precedente del 2006, in questo nuovo tentativo di riforma, è il “bicameralismo imperfetto”, secondo cui ogni legge approvata dalla Camera dev’essere trasmessa al Senato, che può chiedere di riesaminarla, e deve comunque esprimersi sempre su numerose materie (artt. 55, 70, 72), nonché su tutte quelle che comportino «funzioni di raccordo» con le Regioni, i Comuni o l’Europa (art. 55). Quel che Lei, in un intervento al Senato del 15 novembre 2005, chiamò «una soluzione priva di ogni razionalità del problema del Senato, con imprevedibili conseguenze sulla linearità ed efficacia del procedimento legislativo» appare insomma assai vicino a quel che 56 costituzionalisti (tra cui 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale) hanno denunciato, nella riforma 2016, come «una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato, con rischi di incertezze e di conflitti». Di fronte a tali e tante affinità fra i due progetti di riforma costituzionale, e dato il Suo notevolissimo percorso attraverso le istituzioni, è naturale chiederLe: che cosa è cambiato in questi 10 anni perché Lei mutasse così radicalmente la Sua posizione?
Secondo punto. La proposta di riforma contiene alcune singolarità e incoerenze, fra le quali una che La riguarda anche personalmente, in quanto Presidente emerito. La riforma innova sull’elezione del Capo dello Stato, prevedendo che dal settimo scrutinio in poi bastino «i tre quinti dei votanti», cioè 220 voti sul quorum minimo di 366 (art. 64). Inoltre, secondo la Costituzione vigente (art. 67) «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione». La riforma Renzi-Boschi conserva tale funzione ai membri della Camera (art. 55), ma la toglie ai senatori, poiché (dice la relazione illustrativa) «il mandato dei membri del Senato è espressamente connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale », e perciò i senatori sono «rappresentativi delle istituzioni territoriali» (art. 57). Ma chi è stato Presidente della Repubblica, anche secondo la nuova proposta, è senatore a vita. Mi permetto perciò di chiederLe: che senso ha che Lei diventi, a norma della nuova Costituzione se approvata, rappresentante non della Nazione ma di Regioni e Comuni? Un’elezione del Presidente ad opera dei tre quinti non dell’assemblea ma dei votanti non ne inficia il ruolo di garanzia super partes? In che modo una tal riforma contribuirebbe alla dignità e autorevolezza del Capo dello Stato?
Infine: mentre Lei era ancora in carica come Presidente, un accreditato commentatore politico, Marzio Breda, scriveva sul Corriere della sera (1 aprile 2014) un articolo dal titolo “Da Napolitano un segnale sul percorso delle riforme”. In esso, citando una nota del Quirinale, Breda scrive che «la riforma per lui [il Capo dello Stato] è importante, anzi improrogabile», e va «associata alla legge elettorale ». E prosegue: «A questo proposito, basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J. P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella “debolezza dei governi rispetto al Parlamento” e nelle “proteste contro ogni cambiamento” alcuni vizi congeniti del sistema italiano». Ora, il rapporto a cui si fa qui riferimento accusa le Costituzioni dei «Paesi della periferia meridionale, approvate dopo la caduta del fascismo », di avere «caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica» perché risentono di «una forte influenza socialista» e sono «ancora determinate dalla reazione alla caduta delle dittature ». Il documento auspica che tali Costituzioni vengano prontamente modificate, e cita l’Italia come «test essenziale» in tal senso. Ma J.P. Morgan è la banca d’affari che sei mesi dopo questo rapporto dovette pagare una multa di 13 miliardi di dollari per aver venduto agli investitori prodotti finanziari pesantemente inquinati, contribuendo in modo determinante alla crisi finanziaria globale del 2008 ( Washington Post, 19 novembre 2013). La domanda è dunque: citando il rapporto J.P. Morgan in appoggio al Suo «segnale sul percorso delle riforme» Breda ha forzato la mano? Quell’analisi della banca americana può valere, come alcuni vorrebbero, come un argomento per riformare la Costituzione?
Ora che è finalmente certa la data del referendum, è urgente sviluppare la discussione sul merito della riforma e sulle sue ragioni. Una Sua autorevole risposta a queste poche domande sarebbe, io lo spero, un importante contributo in questa direzione.

LA RIFORMA E L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE SALVATORE SETTIS Repubblica 6 10 2016
DISTRATTAMENTE, Guido Crainz scrive su Repubblica di ieri che «si è considerato addirittura un vulnus la norma che in realtà innalza il quorum necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, portandolo dalla maggioranza assoluta ai tre quinti dei votanti, e quindi al di fuori della portata di chi governa (a meno di non ipotizzare un’assemblea letteralmente dimezzata nelle presenze, come ha fatto ieri Salvatore Settis)». Non è così. Nella Costituzione vigente, il Presidente si elegge coi due terzi dei voti degli aventi diritto (tutti i deputati e senatori) nei primi tre scrutini, con la maggioranza assoluta dell’intera assemblea dal quarto in poi. Secondo la riforma, il Presidente è eletto coi tre quinti dell’assemblea dal quarto al sesto scrutinio, coi tre quinti dei votanti dal settimo in poi (art. 83), il che vuol dire che gli assenti non si contano ai fini del risultato. Secondo l’art 64, «le deliberazioni del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti», dunque nell’assemblea che elegge il Presidente, composta di 630 deputati e 100 senatori, devono esservi almeno 366 presenti in aula. I tre quinti di 366, provare per credere, fa 220. Ergo, il Capo dello Stato potrebbe essere eletto da soli 220 votanti, e questo in un Parlamento dove, stando al vigente Italicum, il partito al governo avrà 340 seggi nella sola Camera: l’elezione pilotata del Presidente è dunque tutt’altro che «al di fuori della portata di chi governa». Crainz sembra credere che tante assenze non ci saranno mai. Ma se è così, perché prevederle in Costituzione?
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I CONFINI DEL PREMIER NON SONO DILATATI 
GIORGIO NAPOLITANO Repubblica 4 10 2016
Caro Professore, la ringrazio naturalmente per i generosi riconoscimenti rivolti alla mia persona già all’inizio della lettera: riconoscimenti peraltro introduttivi a domande insinuanti e ad aspre quanto infondate considerazioni relative al mio atteggiamento sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento.
Premetto che escludo di poter rispondere giornalisticamente su questa materia a questioni o osservazioni di singole personalità. Lo faccio qui brevemente, ed eccezionalmente, per cortesia verso il Direttore de
La Repubblica.
Ma in generale, rinvio chiunque a quanto in materia ho detto e mi riservo di dire pubblicamente, rivolgendomi alla generalità degli interessati al confronto referendario in atto.
Ribadisco qui solo che non ho mai “mutato radicalmente” la posizione che assunsi sulla “riforma Berlusconi- Bossi”: della quale d’altronde non potetti nemmeno occuparmi ampiamente, o “vigorosamente”, in quanto entrai in Senato, chiamatovi come Senatore a Vita dal Presidente Ciampi, appena in tempo per pronunciare un sintetico intervento alla fine della discussione e alla vigilia del voto finale, il 15 novembre 2005. Una lettura non unilaterale e strumentale di quel mio testo mostra chiaramente che considerai essenzialmente come “inaccettabile”, di quella legge di riforma, il “voler dilatare in modo abnorme i poteri del primo ministro”, con un evidente “indebolimento dell’istituto supremo di garanzia, la Presidenza della Repubblica”. Del che non vi è traccia nella riforma attuale.
Diversi punti poi toccati dalla sua lettera, e sollevati da altri, hanno già ricevuto puntuali risposte da parlamentari autorevoli che sono stati gli effettivi protagonisti della definizione della legge, articolo per articolo, su cui il Parlamento si è espresso a larga maggioranza anche in Senato. Lei ne ha certamente preso nota, studiando e citando anche qualche fonte non italiana.
In quanto a me non sono, com’è ovvio, come Senatore di Diritto e a Vita, rappresentante elettivo della nazione, ma mi sentirò pienamente a mio agio anche nel nuovo Senato grazie a titoli di rappresentanza che mi sono stati conferiti con l’elezione a Presidente della Repubblica e con il successivo status attribuitomi dall’art. 59 della Costituzione.
Infine, per quanto mi riguarda, più in generale ho esposto organicamente le mie posizioni e i miei argomenti di carattere storico-istituzionale nell’ampio intervento in discussione generale alla I Commissione del Senato il 15 luglio 2015 (e nella dichiarazione di voto resa in Aula il 13 ottobre 2015). Sono certo che lei — nella lodevole grande attenzione che ha riservato a queste questioni, pur lontane dal campo di ricerca e di insegnamento in cui ha saputo eccellere — abbia letto attentamente il testo di entrambi quei miei interventi, peraltro facilmente a tutti accessibile. Per ausilio pratico, gliene invio comunque copia.



Beppe Vacca, per il Sì
«D’Alema è mio fratello ma sulla riforma sbaglia, non rafforza il premier» intervista di Monica Guerzoni Corrriere 3.10.16
ROMA «Finalmente la grande politica...». Filosofo del diritto e presidente dell’Istituto Gramsci, Beppe Vacca è stato deputato del Pd e dirigente dei Ds e ora, da sinistra, guida il fronte del Sì nel Lazio.
Napolitano ha bacchettato Renzi per i «molti errori» che hanno favorito il No.
«L’errore di aver personalizzato troppo non lo ha fatto solo lui, ha cominciato l’opposizione».
Non fu Renzi a legare il suo destino politico alla riforma?
«È stata l’opposizione a farne un referendum sul governo, poi Renzi ha fatto più uno e in questo ha sbagliato».
Il Sì è in tempo per recuperare?
«La vera campagna è appena iniziata. La strategia che unisce tutti i No è portare gli italiani a votare sul proponente, anziché sulla proposta».
La vostra contromossa?
«Spiegare le ragioni del Sì. La riforma allarga la partecipazione democratica, garantisce maggiore efficienza del Parlamento ed elimina la legislazione concorrente tra governo centrale e Regioni».
Il taglio dei costi della politica la convince?
«È un argomento demagogico, infatti non lo proponiamo come fondamentale. Spiegando bene i punti della riforma io spero che si riesca a rimuovere la campagna del No per accrescere il disgusto dei cittadini nei confronti della politica».
Vogliono abbattere Renzi?
«Non sono mica stupidi! Lavorano per far scendere il quorum, così in campo restano solo gli anti premier... Ma io vedo un inizio di mutamento. Se l’elettore si interessa e discute del merito, capirà che il dominus del referendum è lui».
Fa bene il leader del Pd a cambiare l’Italicum per tentare di ricompattare il partito?
«È giusto cercare un punto di intesa, anche se i tempi prima del 4 dicembre non ci sono. Per me il Parlamento come è stato ridisegnato dalla riforma è compatibile con qualsiasi legge elettorale».
Per Bersani il Paese è sull’orlo del burrone...
«Io ho fatto parte della minoranza e se condividessi uno solo dei loro argomenti non avrei accettato di coordinare il Sì nel Lazio».
Non si esagera nel dire che è la riforma cruciale degli ultimi vent’anni?
«Il Paese ne ha bisogno dagli anni 80, per il rapporto tra politica interna e internazionale».
Rafforza troppo i poteri del premier?
«Manco per niente. Come fa il capo del governo a prendersi tutto, se il quorum per eleggere le istituzioni di garanzia viene rafforzato?».
Che impressione le fa trovarsi dalla parte opposta di Massimo D’Alema?
«È mio fratello minore. Ma, personalizzando la sfida sul governo, sta dando una mano a Renzi».

Per il Sì Perché non sarà una dittatura della maggioranza
di Giovanni Sabbatucci La Stampa 3.10.16
Mancano ancora due mesi al referendum sulla riforma della Costituzione. Ma già con l’inedito confronto televisivo fra Matteo Renzi e Gustavo Zagrebelsky – il politico puro e l’alto magistrato impegnato in politica, il giovane comunicatore e l’autorevole studioso – il dibattito tra favorevoli e contrari è entrato nel vivo; e ha suscitato echi importanti, facendo emergere non solo strategie politiche fortemente divaricate, ma anche approcci culturali diversi e difficilmente conciliabili in tema di democrazia.
Mi ha colpito – e non credo abbia colpito solo me – una frase pronunciata da Zagrebelsky nel corso del dibattito trasmesso da La7. L’ex presidente della Corte costituzionale ha in sostanza criticato l’uso di termini come «vincitore» o «perdente» a proposito di una consultazione elettorale. Sottesa a questo apparente paradosso è l’idea che, in un quadro di collaborazione virtuosa fra diverse forze politiche, tutti abbiano qualcosa da guadagnare cooperando al bene comune. Di più: che il Parlamento sia essenzialmente un luogo di discussione, più che di deliberazione; e che lo stesso governo debba anteporre la ricerca del consenso più ampio all’efficienza realizzativa. Siamo, come si vede, agli antipodi rispetto allo stile e al modo di operare del presidente del Consiglio.
Questa concezione «debole» e non competitiva della democrazia non è nuova né isolata. Si riallaccia per un verso al filone liberale ottocentesco (Tocqueville) che metteva in guardia contro il pericolo di una «dittatura della maggioranza»; e può essere fatta rientrare per altro verso nella categoria politologica della «democrazia consociativa»: una democrazia fondata sulla rappresentanza proporzionale (e contrapposta al bipolarismo del «modello Westminster»), buona per governare società attraversate da fratture troppo profonde. Certo il modello non è estraneo alle tradizioni del nostro sistema politico, da sempre poco aduso alla competizione e all’alternanza. Quel che non è chiaro è come tutto questo possa applicarsi alla situazione italiana di oggi e in particolare alla scelta sulla riforma costituzionale. La tesi dei sostenitori del no, secondo cui il «combinato disposto» fra le due riforme, costituzionale ed elettorale, contiene i germi di una piegatura autoritaria e oligarchica del sistema, poggia su basi francamente deboli. A meno che non si pensi, con Zagrebelsky, che la prospettiva di un governo di legislatura in cui l’esecutivo possa contare su una solida maggioranza sia cosa in sé pericolosa e non rientri invece nella sana fisiologia di un sistema parlamentare, in cui esecutivo e legislativo sono uniti da un forte vincolo fiduciario in quanto entrambi legittimati dallo stesso voto popolare (chi volesse separarli o distinguerli più nettamente, dovrebbe optare per il presidenzialismo all’americana).
Non è solo un problema di teoria politica. Chi a sinistra oggi si oppone, per paura del temibile «combinato disposto», a un sistema elettorale come l’Italicum, che consente di dar vita comunque a una maggioranza scelta dagli elettori mediante ballottaggio, dovrebbe spiegare con quali alleanze pensa poi di poter governare il paese: non con Berlusconi (visto che basta qualche contatto impuro con spezzoni del centro-destra per far gridare al trasformismo); non con i Cinque stelle, che di coalizione non vogliono nemmeno sentir parlare e preferiscono lucrare sul logoramento dei partiti concorrenti. In realtà chi invoca il compromesso, pensa a qualche ulteriore concessione alla minoranza del Pd in tema di riforma elettorale. E’ possibile, anzi probabile, che a questo si arrivi. Che Renzi sia disposto a sacrificare qualche pezzo anche importante del suo pacchetto di riforme per salvarne ciò che considera essenziale. Ma allora smettiamola di parlare di «dittatura della maggioranza».

Alberto Asor Rosa, un netto No al referendum
«Un progetto pericoloso. Troppo peso al governo con la nuova Carta» intervista di Daria Gordinschy Corriere 3.10.16
ROMA «Non sono un costituzionalista, quindi i miei apprezzamenti hanno ben poco di tecnico…». Prima di cominciare a parlare del suo netto No al referendum del 4 dicembre, precisa questo Alberto Asor Rosa, storico della letteratura, saggista, alle spalle un passaggio alla Camera per il Pci alla fine degli anni 70.
Giorgio Napolitano sabato ha dichiarato che, se vincesse il Sì, il Parlamento tornerebbe «un luogo degno».
«Ha deciso di sostenere a spada tratta la causa del Sì. E mi permetto di dire che forse sarebbe stato più conveniente un atteggiamento di maggior distacco da parte di un presidente emerito della Repubblica che ci rappresenta tutti. Ha voluto rappresentare soltanto una parte dei cittadini: avremmo auspicato non vedere mai una cosa così».
Tenendo da parte gli aspetti tecnici, perché è contrario alla revisione costituzionale?
«È evidente che è stata voluta per trasferire il più possibile dal Parlamento al governo il potere di scelta. È il progetto di Matteo Renzi. E, in un’Italia che è soggetta a convulsioni politico-istituzionali di ogni genere, è molto pericoloso. A maggior ragione vista la connessione perversa della riforma con l’Italicum, che tende anch’esso ad accentrare potere nelle mani del governo, di un solo partito e di un solo leader».
Adesso Renzi afferma di volere modificare il sistema di voto.
«C’è motivo di dubitarne. Come tardivamente richiesto dalla minoranza del Pd, la modifica andava fatta prima del referendum. E sarebbe stato un argomento quasi vincente nelle mani del presidente del Consiglio per far prevalere il Sì. Se non lo ha fatto, c’è da pensare che non lo farà».
C’è stata un’eccessiva personalizzazione di questo referendum?
«Per inequivocabile responsabilità del fautore della riforma, cioè Matteo Renzi, si è spostata l’attenzione sulla permanenza nel ruolo di una singola persona».
Poi però anche molti avversari gli sono andati dietro.
«La responsabilità storica è di Renzi. Ma certamente gli oppositori hanno acconsentito anche loro a trasformare il referendum in un fatto politico-elettorale. E così, qualunque sarà il risultato della consultazione, potrebbe esserci il rischio di uno scollamento istituzionale».
Dunque, che fare?
«Bisogna spostare il dibattito sul merito della riforma. Anche se Renzi, che è una figura di estrema mediocrità politico-culturale, tende a focalizzare tutto su se stesso giocando su un abbassamento generale del tessuto politico e culturale italiano».
Daria Gorodisky

Il vantaggio del No: al Sud avanti di 16 punti
Tra chi vota FI il 40% è per la riforma Ma un elettore su due ancora non sa cosa farà di Nando Pagnoncelli Corriere 3.10.16
La lunghissima campagna referendaria che ha preso avvio nel mese di gennaio, a due mesi dal voto, presenta una situazione di grande incertezza e continua a essere caratterizzata da un modesto livello di conoscenza della riforma votata dal Parlamento.
Solo un cittadino su 10, infatti, dichiara di conoscere nel dettaglio i contenuti della riforma costituzionale, il 44% la conosce a grandi linee, il 38% ne ha sentito vagamente parlare e l’8% non sa nemmeno che ci sarà un referendum.
Rispetto al sondaggio realizzato nel luglio scorso, gli italiani che ne sanno qualcosa aumentano solo di 3 punti (da 51% a 54%): è un dato sorprendente, tenuto conto che i mezzi di informazione ogni giorno ci parlano del referendum. Ma ne parlano prevalentemente riportando più il rumore di fondo (le polemiche e i conflitti tra i due schieramenti), mentre l’approfondimento del merito della riforma è merce rara, probabilmente perché risulta ostico agli elettori.
Quanto agli orientamenti di voto si registra una flessione di due punti del fronte del Sì (da 25% a 23%), la stabilità di quello del No (25%) e l’aumento sia degli indecisi (da 7% a 8%) che degli astenuti (da 42% a 44%). Per effetto di questi cambiamenti il No prevale sul Sì, ma la distanza non è significativa e si mantiene nell’ambito dell’errore statistico. Escludendo dal computo indecisi e astensionisti, oggi il No si attesta al 52% e il Sì al 48%.
È interessante osservare gli orientamenti nei differenti elettorati. Iniziamo dalla partecipazione alla consultazione: i più mobilitati appaiono gli elettori del Pd (tre su quattro dichiarano di volersi recare alle urne), mentre tra gli elettori di M5S, Lega, Forza Italia e i centristi circa due su tre intendono votare.
Gli elettori del Pd, inoltre, si mostrano più coesi di quanto si potesse immaginare, tenuto conto del duro scontro tra maggioranza e minoranza del partito: il Sì prevale largamente (81% a 19%). Anche tra gli elettori centristi il Sì è in testa, ma in misura meno netta (59% a 41%). Tra gli elettori dei partiti d’opposizione prevale il No ma è interessante osservare che circa uno su cinque tra i grillini (19%) e i leghisti (21%) e ben il 40% tra i sostenitori di Forza Italia voterebbe Sì. D’altronde, alcuni dei temi della riforma incontrano una sensibilità diffusa anche tra chi osteggia il governo.
L’orientamento di voto appare molto diversificato nelle diverse aree geografiche del Paese: nelle regioni del Nord ovest e in quelle del Centro Nord prevale il Sì, nel Nordest prevale di poco il No mentre nelle regioni del Centro Sud e nelle Isole il No ha un vantaggio piuttosto ampio.
Quando si entra nel merito della riforma, enunciando i sette principali punti in cui si sostanzia, il grado di accordo per ciascun aspetto considerato prevale sempre sul disaccordo, talora in misura molto netta come nel caso della riduzione dei senatori (62% i favorevoli, 20% i contrari), della fine del bicameralismo paritario (51% contro 24%), la soppressione del Cnel (49% contro 18%). Il vantaggio è più contenuto solo nel caso delle modalità di elezione del Senato: 39% i favorevoli alla scelta contestuale al voto regionale, 31% i contrari che preferirebbero poter scegliere con un voto di preferenza.
L’accordo medio espresso per i sette punti della riforma è pari al 48% ma quando, successivamente, agli stessi intervistati si chiede di esprimere il favore per la riforma nel complesso, il consenso è più basso: il 42% si dichiara molto o abbastanza d’accordo, perché la personalizzazione e l’orientamento politico prevalgono sul merito delle questioni. D’altra parte, come già evidenziato, per il 53% degli interpellati gli italiani voteranno pensando di approvare o bocciare il governi Renzi.
Il premier sta riducendo la personalizzazione del referendum. Sembra una scelta saggia. In uno scenario tripolare, infatti, la personalizzazione può risultare una strategia ad alto rischio perché i due elettorati antagonisti sono indotti ad allearsi contro il premier, indipendentemente dal merito del referendum, per «dare una spallata» al governo.
Mancano nove settimane al voto e la partita è davvero aperta: la distanza tra No e Sì è minima e gli indecisi saranno determinanti. Tra questi ultimi la metà circa (47%) pur dichiarando di voler andare a votare non sa esprimere un parere sulla riforma, il 32% si dichiara favorevole e il 21% contrario.
In questo scenario è auspicabile che il confronto, spesso influenzato dagli allarmi evocati — da una parte, nel caso di affermazione del No, le catastrofiche conseguenze sul piano economico-finanziario, politico e sociale; dall’altra, se vincesse il Sì, la concentrazione dei poteri, l’attentato alla democrazia e alla libertà dei cittadini — e dal tifo da stadio, si trasformi in una sana dialettica sui contenuti effettivi. Il dibattito televisivo su La7 tra il premier Renzi e il professor Zagrebelsky va in questa direzione: è stato un contraddittorio utile e molto civile che ha consentito agli ascoltatori di approfondire le ragioni a favore e contro la riforma.
E un confronto argomentato e pacato potrebbe favorire una maggiore mobilitazione dei cittadini, oggi ferma al 56%. È un dato che fa riflettere perché si tratta di un referendum sulla Costituzione, e la Costituzione è di tutti, indipendentemente dalle opinioni sulla riforma.

Italicum, ora la lite nel Pd si sposta sul ballottaggio
Il premier non vuole abolirlo, ma scrive a Cuperlo per riaprire il confronto “Al referendum ci giochiamo i prossimi venti anni. Il 29 uniti in piazza” Ma i bersaniani dicono no: per noi l’accordo è possibile soltanto sul turno unico I sondaggi del leader: “Adesso è testa a testa, un terzo vota Sì, un terzo No, un altro terzo è indeciso” di Goffredo De Marchis Repubblica 3.10.16
ROMA. Adesso il braccio di ferro si sposta sul ballottaggio. La minoranza del Pd infatti non si accontenta dell’apertura del premier sulla modifica dell’Italicum. «Noi diciamo no al doppio turno. La nostra proposta è il turno unico», sentenzia il bersaniano Miguel Gotor. Renzi per il momento non ribatte , aspetta la direzione del 10 per scoprire le carte (anche quelle degli altri), vuole verificare che non si consumi una spaccatura all’interno della sinistra (e non a caso cerca il dialogo con Cuperlo). Ma conferma che la proposta del Pd ci sarà e andrà in aula alla Camera prima del voto sul referendum costituzionale. Insomma, non sta facendo melina.
Detto questo, qualche idea sulle correzioni accettabili ce l’ha. Non condivide l’idea dei bersaniani del turno unico. «La strada può essere il ballottaggio di coalizione, un’alleanza che si realizza al secondo turno.
Così al primo ogni partito esprime le proprie potenzialità», spiega ai collaboratori. Se c’è una soluzione diversa che garantisce la governabilità verrà presa in considerazione. Ma quello è il paletto, intorno al quale può trovare il consenso di Franceschini, Orfini, Orlando, Martina. Se la minoranza resta fuori dal gioco, sia in direzione e soprattutto in Parlamento, secondo i renziani, si capirà meglio il loro gioco. «Che significa votare No al referendum a prescindere dalla legge elettorale», spiega un deputato fedele al premier. Comunque, un tentativo di confronto prenderà forma nei prossimi giorni. Il vicesegretario Lorenzo Guerini sentirà Roberto Speranza e anche gli altri partiti. Perchè la proposta dem arrivi con l’appoggio di uno schieramento il più ampio possibile. Malgrado il niet, scontato, di Renato Brunetta: «Dell’Italicum se ne parla dopo il 4 dicembre, punto».
Renzi però è soprattutto interessato a creare un clima diverso nel suo partito, in vista proprio della data del referendum. Ha scritto sull’Unità una lettera aperta a Cuperlo per dirgli che «saremo, ne sono certo, dalla stessa parte anche dopo il 4 dicembre, come auspichi». E per fargli sapere che lunedì prossimo in direzione si discuterà «di tutto, anche di Italicum». L’appuntamento del 29 ottobre a Roma per una manifestazione sull’Europa deve vedere il Pd unito, spiega il premier-segretario. «Un Pd dove ci si confronta, si litiga, si vota ma senza guru che decidono per noi». Che alla scuola di formazione del Pd ieri mattina, ai ragazzi, ha confermato la portata storica del referendum: «È la partita dei prossimi 20 anni, possiamo e dobbiamo vincerla. Al momento c’è un testa a testa. Un terzo dei cittadini vota Sì, secondo i sondaggi, un terzo vota No e un terzo sono gli indecisi».
L’enfasi sul quesito arriva anche da Milano dove si è riunita la Sinistra per il Sì, il comitato che fa capo a Orfini, Martina, Fassino e Finocchiaro. Con il referendum, dice il ministro della Giustizia, «faremo il Pd. Siamo nati per chiudere la transizione». Eppure con la minoranza le barricate sono sempre alte. «Ogni giorno i pentiti» dell’Italicum dentro e fuori il PD aumentano di numero- sottolinea Federico Fornaro -. Una proposta adesso ha tutto l’aspetto di uno sterile diversivo propagandistico».
Il Pd respinge anche la polemica contro Napolitano per le sue parole sul Parlamento «ridotto uno straccio». «Chieda scusa o lasci il Senato», intima Brunetta. Gli ribatte il capogruppo dem Rosato: «L’ex presidente ha sempre difeso le istituzioni».

D’Alimonte: premio di coalizione ok, ma guai a toccare il ballottaggio
“Se vince il no al referendum si torna al proporzionale”
intervista di Carlo Bertini La Stampa 3.10.16
«Se vince il no al referendum, di certo si torna al proporzionale e ad una instabilità peggiore di quella della prima repubblica, se vince il Sì, molto dipenderà dal giudizio della Consulta». Parola di Roberto D’Alimonte, esperto di sistemi elettorali e ispiratore dell’Italicum.
Professore, secondo lei fa bene Renzi a mettere in palio Italicum con una proposta entro ottobre per provare a salvare il referendum?
«Dipende, l’Italicum può esser modificato, anche col premio alla coalizione, si possono cambiare i capilista bloccati, ma non si deve cancellare il ballottaggio. Rispetto alla riforma costituzionale, la legge elettorale è uno strumento più potente per cambiare le cose, perché favorisce la stabilità e la responsabilità dei governi. Napolitano e altri chiedono l’abolizione del ballottaggio, ma Renzi spero che non lo conceda. Sarebbe un grave errore, perchè non si favorisce la stabilità dei governi. E un segno di debolezza evidente, sarebbe come rinnegare un progetto in cui ha investito la sua carriera, un sistema in cui i cittadini scelgono i governi, così come scelgono i sindaci e i governatori».
E quindi cosa potrebbe proporre Renzi?
«Fra le possibili modifiche che potrebbe proporre senza snaturare l’Italicum e senza rinunciare al doppio turno c’è quella del provincellum, collegi uninominali su base provinciale. Modifiche che cambiano il meccanismo di selezione degli eletti, sostituendo i capilista bloccati e il voto di preferenza».
E dare il premio di maggioranza alle coalizioni e non ai partiti cosa può comportare?
«Un ritorno ai veti e ricatti dei piccoli partiti. I grillini griderebbero alla manipolazione delle regole del gioco in corsa, questa modifica sarebbe vista come strumento per impedire la loro vittoria. Però se questo fosse il prezzo da pagare per vincere il referendum, così sia. Ma temo non sia sufficiente ad accontentare i sostenitori del no. Che vogliono la cancellazione del ballottaggio, quello è il vero obiettivo».
L’Italicum rischia la vita solo se Renzi perde il referendum?
«Se vince il no ci sarà una nuova legge proporzionale. Il tipo di correzione dipenderà dalle trattative e si concentrerà su tre fattori: la soglia di sbarramento per accedere alla ripartizione dei seggi, un eventuale premietto di governabilità, ma non di maggioranza. Il terzo è la dimensione delle circoscrizioni in cui verranno assegnati i seggi. Anche Berlusconi nelle condizioni in cui è il centrodestra sa che con un sistema proporzionale Forza Italia diventa l’ago della bilancia. Per questo, chi vota no, vota per far tornare in gioco Berlusconi. Il Pd così non potrebbe fare un governo senza Forza Italia. Il rischio è che non lo riesca a fare anche con Forza Italia.».
Il Mattarellum 2.0 di Bersani assicura un vincitore certo la sera del voto?
«La sinistra Pd chiede il ritorno ai collegi e il turno unico, via impraticabile sul piano parlamentare perché non ha una maggioranza che la sostenga al di là delle chiacchiere. Non solo non favorisce la stabilità dei governi, ma può provocare distorsioni della rappresentanza molto più gravi dell’Italicum».
Possibile che vincano i grillini con il proporzionale? Magari arrivando primi ma senza poi governare con nessuno?
«Esatto. Uno scenario possibile è che arrivino primi e per sedersi sulla riva del fiume ad aspettare i cadaveri dei partiti tradizionali che passano. Tutti scenari futuribili, ma la cosa certa - non probabile, ma certa - è che col proporzionale si torna a governi di coalizione. Una totale instabilità e per questo i mercati sono preoccupati». [car.ber.]

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