mercoledì 19 ottobre 2016

Della Palestina si vorrebbe cancellata ogni memoria


Ma l'astensione italiana era un favore al Qatar in cambio di investimenti
L'emirato che punta alla direzione dell'Unesco ha già messo le mani sull'Ateneo di Tor Vergata


Unesco: Israele rispetti status quo sulla Spianata delle Moschee
Gerusalemme. L'Agenzia dell'Onu ha approvato in via definitiva la risoluzione contestata dal governo Netanyahu che denuncia la negazione dei diritti degli ebrei sul luogo santo di Michele Giorgio 
il manifesto 19.10.16
GERUSALEMME Via libera definitivo dei 58 Paesi membri del Consiglio esecutivo dell’Unesco, riuniti ieri a Parigi, alla risoluzione su Gerusalemme Est e lo status della Spianata delle Moschee presentata dai palestinesi e da alcuni Paesi arabi (Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan) e fortemente osteggiata da Israele che ha sospeso le relazioni con l’agenzia dell’Onu per l’istruzione, la cultura e la tutela del patrimonio storico-archeologico nel mondo. Rispetto al voto della scorsa settimana sul testo preliminare – 24 paesi si dissero favorevoli e 6 contrari (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda. L’Italia si era astenuta) – ieri il Messico ha cambiato idea e si è unito al gruppo degli astenuti. Questa decisione però non ha avuto alcun impatto sulla adozione definitiva della risoluzione.
Forti le reazioni di Israele che, come la scorsa settimana, accusa l’Unesco di non riconoscere i legami tra gli ebrei e il Monte del Tempio che secondo la tradizione ebraica corrisponde al sito della Spianata delle Moschee ((Haram al Sharif in arabo). Lo Stato ebraico ribadisce che il testo della risoluzione usa sempre la terminologia araba per definire luoghi che vengono chiamati in modo diverso da musulmani ed ebrei e non affronta la questione se il Muro del Pianto sia un luogo sacro per gli ebrei oppure no. Il premier Netanyahu nei giorni scorsi aveva definito «assurda» la posizione dell’Unesco che, spiegava, equivale a dire che «la Cina non ha legami con la Grande Muraglia o l’Egitto con le Piramidi».
Il paragone non regge ma le proteste di Israele stanno raccogliendo larghi consensi in giro per il mondo, anche tra i parlamentari ed esponenti politici italiani. E questo spingerà il governo Netanyahu ad intensificare le accuse contro la decisione presa dall’Unesco che, ad una lettura più attenta, ha finalità politiche e non religiose. In sintesi non mira ad affermare i diritti dei musulmani e a negare, come afferma Israele, quelli degli ebrei. Piuttosto vuole condannare le violazioni avvenute sulla Spianata delle Moschee e richiamare lo Stato ebraico al rispetto assoluto dello status quo del luogo santo che formalmente è ancora sotto giurisdizione giordana.
La risoluzione si sofferma su due aspetti. Il primo riguarda il fatto che attivisti della destra ebraica – che Israele descrive come “turisti” – sempre più spesso vanno alla Spianata delle mosche rivendicando il diritto a pregare al sito del Tempio che sorgeva in quel luogo prima di essere distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. L’Unesco perciò condanna queste presunte visite di preghiera che, peraltro, fanno salire la tensione tra ebrei e musulmani, e chiede a Israele, potenza occupante, di adottare misure per prevenire provocazioni che violano l’integrità delle moschee. Il secondo punto riguarda la denuncia degli scavi fatti e le infrastrutture costruite unilateralmente dalle autorità israeliane nell’area che riguarda anche la Spianata delle Moschee nonchè «il crescendo di aggressioni e di misure illegali contro la libertà di preghiera dei musulmani nei loro luoghi santi». L’Unesco in sintesi invoca il rispetto dello status quo concordato tra Israele e la Giordania dopo la guerra del ’67 e l’occupazione di Gerusalemme Est che, comunque, garantisce agli ebrei la possibilità di visitare il luogo santo ma non di pregarvi e riserva questo diritto ai musulmani. Status quo che nel settembre 2000, occorre ricordare, fu messo in discussione dalla famosa “passeggiata” dell’ex premier israeliano Ariel Sharon sulla Spianata che con 16 anni di anticipo rivendicava il diritto degli ebrei a pregare sul Monte del Tempio. Un gesto che innescò la seconda Intifada palestinese. Infine il documento approvato ieri dall’Unesco ribadisce che Israele è la potenza occupante a Gerusalemme est. Il testo perciò è in linea con il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu 242 e 338 votate dopo la Guerra dei Sei Giorni.
Al di là delle polemiche sorte intorno al tono della risoluzione denunciato con forza da Israele, il governo Netanyahu prova ad erodere, poco alla volta, lo status quo del luogo santo, facendo leva sui sentimenti religiosi dei cittadini ebrei e sulla solidarietà che riceve dai Paesi occidentali. L’obiettivo sembra essere quello di ottenere in futuro il controllo, anche solo parziale, della Spianata nel quadro di un accordo internazionale che dovrebbe prendere il posto di quello bilaterale con la Giordania. È difficile che Amman accetti questa possibilità, visto che la monarchia hashemita si considera custode di Haram al Sharif. Più di tutto questo progetto è pericoloso in una città dove gli equilibri religiosi sono sempre molto delicati e le “visite” degli attivisti della destra israeliana sulla Spianata delle Moschee rischiano di innescare un incendio disastroso.

SU GERUSALEMME GRAVE L’ERRORE DELL’UNESCO 
ROBERTO TOSCANO 19/10/2016 Rep
La risoluzione anti-Israele un favore agli estremisti Italia si astiene, proteste
IRAPPORTI fra Nazioni Unite e Israele sono caratterizzati da una tensione permanente che in qualche occasione si trasforma in scontro aperto. Si va dalla questione degli insediamenti nei territori occupati agli interventi militari contro Gaza ai metodi usati da Israele per reprimere la rivolta palestinese. Su tutti questi temi l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si esprime periodicamente a maggioranza per condannare Israele, e soltanto i veti opposti sistematicamente dagli Stati Uniti (oltre 40 volte dal 1972 a oggi) impediscono al Consiglio di Sicurezza di approvare risoluzioni che avrebbero effetti molto più concreti che non le risoluzioni dell’Assemblea Generale.
L’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per cultura e scienza, ha adottato ieri una risoluzione dedicata alla “tutela del patrimonio culturale della Palestina e il carattere distintivo di Gerusalemme Est”.
Nei 42 paragrafi della risoluzione si denuncia il comportamento di Israele per quello che viene definito il mancato rispetto dei luoghi santi dell’Islam e per “il crescendo di aggressioni e di misure illegali contro la libertà di preghiera dei musulmani” negli stessi luoghi.
SEGUE A PAGINA 30 DE BENEDETTI E SCUTO A PAGINA 17
UN TESTO certo pesante nella sostanza, ma la vera ragione dell’inasprirsi della crisi fra l’Unesco e Israele (che ha sospeso la sua partecipazione all’organizzazione) non si riferisce tanto ai punti della requisitoria contro il comportamento del governo israeliano ma alla terminologia usata. La risoluzione riprende infatti, per definire quella parte di Gerusalemme, unicamente il suo nome musulmano, Haram el Sharif (il Nobile santuario) e non quello usato dagli ebrei,
Har ha- bayit (“Monte del tempio”). Come accade inevitabilmente nelle questioni che vedono la contrapposizione di divergenti interpretazioni storiche e di incompatibili rivendicazioni, le parole risultano più pesanti della sostanza delle cose. Se non fosse stato per questo dato terminologico Israele avrebbe reagito a questa ennesima condanna in sede Onu ribadendo le proprie posizioni — e di fatto ignorandola sostanzialmente. Questa volta però si è toccato un punto veramente irrinunciabile per gli israeliani (non solo per il governo Netanyahu) e, va aggiunto, per gli ebrei della diaspora, anche i più progressisti e aperti alle ragioni dei palestinesi. Sono pochissimi gli ultra sionisti che chiedono che il Monte del tempio venga recuperato per l’ebraismo cancellando le tracce della presenza musulmana, ma tutti gli israeliani e tutti gli ebrei considerano il Muro del pianto, che fa parte della zona presa in considerazione dalla risoluzione dell’Unesco, come il più sacro per l’identità ebraica, sia religiosa che culturale.
Come ha ricordato il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova, palesemente a disagio per la situazione, Gerusalemme deve essere vista come «spazio condiviso di patrimonio e tradizioni per ebrei, musulmani e cristiani».
Si tratta di un punto irrinunciabile non solo perché non è ammissibile non riconoscere — ovunque — la realtà plurale della cultura e della storia, ma anche perché nessuna soluzione del conflitto israeliano- palestinese può venire dalla pretesa, israeliana o palestinese che sia, di ignorare, annullare, sradicare o sottomettere la presenza dell’altro popolo.
Oggi la potenza militare ed economica dello stato di Israele viene spesso esercitata ignorando regole internazionali (come la Quarta Convenzione di Ginevra, violata dalla costruzione di insediamenti nei territori occupati nel 1967) e principi umanitari. È giusto che la comunità internazionale condanni queste violazioni e si schieri a favore del riconoscimento di uno Stato palestinese. Su questo esiste un ampio consenso della comunità internazionale — un consenso che però verrebbe meno se il riconoscimento del diritto dei palestinesi di avere un proprio stato dovesse essere associato alla negazione dei diritti di Israele, compresi quelli relativi al patrimonio culturale e religioso.
Nel promuovere e fare approvare la risoluzione i paesi musulmani — fra l’altro non certo modelli di pluralismo sia religioso che culturale — hanno quindi commesso un grave errore, fornendo argomentazioni a chi, come la destra israeliana, sostiene che l’idea dei due stati è irreale o fraudolenta, dato che è l’esistenza stessa di Israele, e non i suoi limiti territoriali o le sue azioni, ad essere messa in causa.
È interessante vedere come si è votato: si sono espressi a favore della risoluzione 24 paesi, nella maggioranza arabo-musulmani con l’aggiunta di Russia, Cina, Brasile e Sudafrica; contro, sei paesi, fra cui Usa, Regno Unito, Germania e Olanda; si sono astenuti 26 paesi. Fra questi l’Italia, che si era astenuta anche nel 2011 quando all’Unesco si era votato sull’ammissione della Palestina come paese membro.
Forse per dare credibilità alla nostra posizione (riconoscimento di uno stato palestinese; riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza) avrebbe avuto più senso votare a favore nel 2011 e contro in questa occasione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Voto dell’Unesco su Gerusalemme è scontro con Israele L’accusa: “La risoluzione nega i legami tra città ed ebrei” No di Usa e Germania, l’Italia si astiene con altri Paesi UeFABIO SCUTO Rep 19 10 2016
GERUSALEMME. Nonostante il clamore e le proteste in Israele, l’Unesco ha adottato formalmente ieri mattina una controversa risoluzione su Gerusalemme Est presentata dai Paesi arabi in nome della tutela del patrimonio culturale palestinese. Ma per Israele il testo nega il legame millenario tra gli ebrei e la città, perché pur affermando che la Città è santa per le tre religioni monoteiste, nella definizione dei luoghi viene usata soltanto la dizione araba e non quella ebraica, cosa che ha indignato quasi tutti gli israeliani. Israele, che aveva già messo i rapporti con l’Unesco su un piano inclinato da quando venne ammesso lo Stato di Palestina nel 2011, ha deciso di congelare ogni contatto.
La Città Vecchia con il suo “miglio santo” è il cuore del conflitto israelo-palestinese dal 1967: la collina è il terzo luogo più sacro dell’Islam ma è anche il luogo più sacro per gli ebrei, distrutto dai romani nel 70 d.C.. Gli ebrei si riferiscono al complesso sulla collina della Città Vecchia come il Monte del Tempio, Har HaBayit. Per i musulmani è Haram al-Sharif, il nobile santuario e comprende la Moschea Al Aqsa e la Moschea della Roccia con cupola dorata.
Un precario status quo ne regola l’accesso da allora: la Giordania continua ad amministrare la Spianata, ma Israele controlla tutti gli accessi. L’accordo prevede che gli ebrei possano andare in visita ma non pregare. Il testo approvato giovedì denuncia “l’invasione israeliana”, le incursioni sulla Spianata e le restrizioni imposte all’accesso dei fedeli musulmani. Pur essendo considerato santo per l’ebraismo, la gran parte dei rabbini vieta ai fedeli di andare sulla Spianata perché gli ebrei di oggi sono ritenuti «ritualmente impuri». Ma le continue visite di nazionalisti religiosi ebrei sono giudicate dai palestinesi una provocazione, come la famosa “passeggiata” dall’allora premier Ariel Sharon nel 2000 che scatenò la “seconda intifada”.
La risoluzione adottata ieri era passata in Commissione giovedì scorso con 24 voti a favore, sei contrari e 26 astensioni. Contrari Usa, Gran Bretagna, Lituania, Olanda, Germania ed Estonia, l’Italia come altri Paesi Ue si era astenuta. Un testo che ha visto anche la direttrice dell’Unesco Irina Bokova prendere le distanze da alcuni passaggi.
La risoluzione non avrà un impatto diretto su Gerusalemme ma certamente ha approfondito le tensioni all’interno dell’Unesco, dove – come nell’Onu in generale - gli israeliani vedono un radicato pre-giudizio anti-Israele. La disputa di lunga data è legata anche al rifiuto di Israele di concedere visti agli ispettori Unesco per venire a verificare e valutare il livello di conservazione dei luoghi santi di Gerusalemme dichiarati Patrimonio Universale dell’Umanità.
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Unesco, l’ira della comunità ebraica “Grave l’astensione dell’Italia” 

L’Ucei dopo la risoluzione su Gerusalemme: ci porta fuori dalla storia 

Alessandro Di Matteo  Busiarda
Per gli ebrei è il «Monte del tempio», per i musulmani è luogo dal quale Maometto fu assunto in cielo, per i cristiani il luogo della sepoltura di Gesù: l’area sacra di Gerusalemme è da sempre un luogo simbolo per tutte e tre le religioni monoteiste, ma ieri l’Unesco ha deciso con una risoluzione di ricordare solo il nome arabo di quel fazzoletto di terra che ospita in pochi metri quadrati moschee, chiese e muro del Pianto. Scelta che ha scatenato l’inevitabile reazione di Israele e che ha aperto anche un ‘caso Italia’, visto che il documento presentato dai palestinesi insieme ad Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan, è stato approvato con il voto contrario di Usa, Germania, Gb, Lituania, Estonia, Olanda e con l’astensione del rappresentante italiano.
Nella risoluzione, che condanna Israele su vari temi, si utilizza la terminologia araba di «Moschea di Al-Aqsa» e di «Haram al-Sharif» ma non il termine ebraico Har HaBayit. Il Muro del Pianto, poi, è descritto usando la dizione araba. «Assurdo – ha detto Benyamin Netanyahu – è come dire che la Cina non ha legami con la Grande Muraglia». E anche la direttrice generale dell’Unesco Irina Bokova ha criticato la decisione : «Negare, nascondere o voler cancellare una o l’altra delle tradizioni ebraica, cristiana o musulmana significa mettere in pericolo l’integrità del sito».
Ma l’astensione italiana ha provocato anche la reazione indignata di Noemi Di segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane nata a Gerusalemme. «E’ gravissimo che questo accada senza l’opposizione dell’Italia, la cui politica estera non può certo essere dettata dal caso, dalla superficialità o, peggio ancora, dall’opportunismo. Non ci meravigliamo allora se il domani porta con sé atti e fatti di odio e sangue». Una durezza finora mai usata dalla Di Segni, che ha una storia di sinistra, nei confronti del governo italiano. « L’Unesco si pone fuori dalla storia e scrive, con pesanti responsabilità dell’Italia e gli altri Paesi astenuti e favorevoli, una delle pagine più gravi della storia».
Un chiarimento al governo lo chiede anche il dem Emanuele Fiano: «Non ha senso negare l’ebraicità del muro del Pianto. Chiederò a Renzi e Gentiloni di parlare della questione, sono certo che si cercherà il modo per tornare indietro da questa posizione». Anche per Maurizio Lupi (Ap) la mozione è «assurda e grave ed è grave che l’Italia non si sia opposta». Maurizio Gaspari, Fi, chiede: «Ma Renzi e Gentiloni che hanno da dire?». Il quotidiano il Foglio, intanto, ha promosso una manifestazione per mercoledì prossimo sotto la sede romana dell’Unesco: «Sarà il nostro muro del Pianto». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Luoghi santi contesi Monte del Tempio per gli ebrei, Spianata delle Moschee per gli arabi
Storia, mito e guerre di religione  di Davide Frattini Corriere 20.10.16
I l naso rivolto all’insù, gli occhi spalancati, lo sguardo commosso verso le pietre più contese tra le pietre contese di Gerusalemme. Yitzthak Yifat tiene l’elmetto tra le mani, assieme ai commilitoni ha combattuto per le strade della Città Vecchia, è tra i primi israeliani ad arrivare davanti al Muro del Pianto: è il 7 giugno del 1967, i macigni incastrati uno sopra l’altro puntellano da un paio di millenni la speranza e la volontà degli ebrei di tornare a pregare qui, ormai sorreggono anche la Spianata delle Moschee, il terzo luogo più sacro per l’islam.
Che Yifat, oggi ostetrico e ginecologo, ripeta in pubblico «se serve per la pace, dobbiamo restituire quello che ho aiutato a conquistare» non basta a sciogliere le tensioni e le violenze pietrificate in questi metri quadrati.
La Sura 17 del Corano racconta della notte in cui Maometto fuggì sulla bestia mitologica chiamata Buraq alla «moschea più lontana» dove guidò in preghiera un gruppo di profeti prima di ascendere in cielo. Nel 691, quasi sessant’anni dopo la sua morte, il califfo Abd Al-Malik ibn Marwan diede ordine di costruire una moschea sulla roccia al centro del monte a 740 metri sul livello del mare.
Nella tradizione ebraica quella roccia è il punto d’incontro tra il Cielo e la Terra, è la rupe a cui Abramo ha legato Isacco, è il basamento del Primo e del Secondo Tempio, che venne distrutto dai romani nel 70. Quando in questi giorni Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, ha polemizzato con i diplomatici che hanno sostenuto la risoluzione dell’Unesco — «cancella la nostra storia» — li ha invitati a visitare l’Arco di Tito a Roma: sul marmo è inciso ed esaltato il saccheggio di Gerusalemme, il bottino di guerra che comprendeva anche la menorah a sette bracci. Il candelabro a olio acceso dai sacerdoti per illuminare il Secondo Tempio è ancora il simbolo di Israele.
È il Saladino — dopo aver ripreso la città agli ottantotto anni di dominio crociato nel 1187 — a fondare il Waqf, l’organizzazione islamica che gestisce i luoghi sacri. Più devoti che archeologi, questi guardiani oltranzisti hanno mantenuto l’incarico sotto gli ottomani, i britannici, i giordani e adesso gli israeliani. Perché Moshe Dayan, nominato ministro della Difesa poco prima della Guerra dei Sei giorni, era «riluttante — racconta Uzi Narkis, uno degli ufficiali che ha combattuto con lui — a infilarsi nella Città Vecchia, dentro le mura vedeva un mosaico minaccioso di moschee e chiese, di infiniti problemi religiosi». Così il generale dalla benda nera sull’occhio sinistro vuole liberarsi di quello che ha appena liberato dal controllo giordano: considera — e lo scrive — il Monte del Tempio «un luogo storico e del passato per gli ebrei, mentre è per i musulmani una questione di culto». Decide di lasciare l’amministrazione della Spianata delle Moschee al Waqf e definisce le regole di quello che resta tuttora lo «status quo»: gli ebrei possono visitare l’area ma non pregarvi, Israele è responsabile per la sicurezza della struttura.
Al matrimonio di Tzipi Hotovely, giovane deputata del Likud e viceministro nel governo di Netanyahu, Yehuda Glick si è presentato un paio di anni fa con in tasca il dono più prezioso per lui e per i festeggiati: la terra raccolta sul Monte del Tempio. La sposa condivide con Glick un paio di convinzioni incendiarie quanto la barba e i capelli rossi del rabbino: gli ebrei devono tornare a pregare tra le moschee sulla Spianata, i palestinesi non avranno mai uno Stato. Glick — ferito nell’ottobre del 2014 da un estremista arabo che gli ha sparato al petto — e parlamentari della destra come Moshe Feiglin agitano i gruppi radicali ebrei che vogliono modificare gli accordi stretti da Dayan con la Giordania. Gli attivisti più ostinati cercano di aggirare i controlli della polizia israeliana, provano a indossare lo scialle e a intonare i salmi rituali in mezzo ai musulmani inginocchiati.
Qualunque provocazione viene interpretata dai palestinesi — e dalla comunità islamica nel mondo — come una mossa da parte del governo israeliano per riprendersi i luoghi sacri. Le smentite di Netanyahu — ha ordinato ai deputati del Likud e ai ministri di non visitare la Spianata — non bastano a spegnere le teorie della cospirazione che servono a trasformare lo scontro tra i due popoli in conflitto religioso. 

Caro Presidente, il voto all’Unesco ha ferito gli ebrei 
Noemi Di Segni Busiarda 21 10 2016
Illustre Presidente Mattarella, 
il momento della sua partenza per l’attesa visita in Israele, la prima nel suo mandato di Presidente della Repubblica, è ormai vicino.
Alla vigilia di questo importante appuntamento, vorrei condividere in questo messaggio i nostri sentimenti di ebrei italiani, cittadini che credono nella pace e nel progresso.
La sua visita si annuncia intensa e carica di significati, volta a riaffermare la storica amicizia che lega lo Stato ebraico all’Italia, ai suoi rappresentanti, al suo popolo, alla sua cultura. 
Italia e Israele, sono oggi al fianco in molte sfide. Collaborano strettamente sul piano istituzionale, e questo viaggio ne è la più alta conferma, ma la cooperazione si estende anche in molti altri campi.
Un flusso continuo di persone, idee e progetti che rafforza un comune impegno al servizio dell’intera collettività e del suo benessere economico, intellettuale, spirituale. Un vissuto plurimillenario, che tra ebraismo e cristianesimo, tra Gerusalemme e Roma, due capitali della civiltà mediterranea, testimonia un confronto vivo, talvolta contrastato, ricco di storia, di vicende, di speranze talvolta tradite, di conquiste che hanno spesso un risvolto quasi miracoloso.
Per questo gli ebrei italiani, e con loro tutti i cittadini che si riconoscono nel primario valore che è la verità vissuta, che agiscono in buona fede e trasparenza, che credono e accordano la loro fiducia alle massime istituzioni democratiche, sono sconcertati e feriti dal comportamento tenuto in questo mese di ottobre dalla rappresentanza diplomatica italiana all’Unesco. 
Sulla base di una proposta di alcuni Paesi arabi, e con un’alzata di mano di altri che vi hanno aderito, è stata negata l’identità ebraica di Gerusalemme e dei suoi storici luoghi di preghiera e raccolta, di pianto e feste, di inno alla vita e alla libertà ritrovata. Diverse le civiltà del passato che hanno violato e distrutto il nostro Tempio. Diverse le ragioni che nei secoli hanno fatto percorrere ai pellegrini la lunga distanza dai remoti luoghi di provenienza. Come non comprendere che oggi gruppi estremisti e aggregazioni di ogni genere, che di civile nulla detengono, cercano la distruzione e l’annientamento? Come accettare che l’Unesco, agenzia preposta allo sviluppo della cultura, si esprima in tal modo?
Per ben due volte, a distanza di pochi giorni, nonostante chiari segnali d’allarme, il rappresentante italiano ha scelto attraverso l’astensione di rimanere in silenzio. Un silenzio che dimentica le raffigurazioni riportate sull’Arco di Tito. Un silenzio assordante. Un silenzio che concorre ad un negazionismo contro il quale oggi tutti alziamo la voce. 
Illustre Presidente, tra qualche giorno lei avrà modo di visitare Gerusalemme, di camminare lungo le vie in cui ogni pietra dichiara come la città sia la capitale del risorto Stato di Israele e la casa di tutti coloro che amano la pace, di varcare la soglia dei luoghi sacri alle grandi religioni monoteiste, di vedere davanti ai suoi occhi scorrere la vita quotidiana degli abitanti di questa città che non conosce eguali. 
Potrà facilmente constatare come ogni luogo di Gerusalemme, capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele, parli una lingua plurimillenaria. La lingua dell’identità, della spiritualità, del più autentico rispetto dell’altro.
Tra le centinaia di dediche, di rappresentazioni artistiche, di canzoni religiose, epiche, più allegre e più tristi dedicate nei secoli a Gerusalemme, Le cito quella sul Kotel (parole di Yosi Gamzu), che con la sua musica struggente insegna che al di là di quanto si sente e si vede, al di là di come si è vestiti conta quanto si è donato e sacrificato nei millenni ed ancora oggi: «Esistono pietre con un cuore umano e uomini con cuore di pietra», troppo vero.
Illustre Presidente, le scrivo perché gli ebrei italiani restano fiduciosi che dall’alto del suo prestigio il Quirinale possa risvegliare un orientamento di saggezza ed equilibrio, l’unico che possa rappresentare i sentimenti di tutte le identità e di tutti i cittadini, e affermare i nostri più importanti valori costituzionali.
Non abbiamo altro da chiedere che tenere in alto l’onore dell’Italia e garantire al nostro Paese un ruolo da protagonista nell’immenso lavoro di costruzione della pace che ci deve vedere tutti impegnati.
Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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