mercoledì 19 ottobre 2016

Gli intellettuali italiani e la necessità sociologica di servire: i casi Salvati e Orsina


LA FIDUCIA DA RICOSTRUIRE DOPO IL REFERENDUM 
MARC LAZAR Rep 19 10 2016
DOMENICA scorsa Eugenio Scalfari ha giustamente rilevato la preoccupazione dei «poteri forti» per l’esito del referendum del 4 dicembre, dovuta a tre grandi ordini di ragioni. Innanzitutto, quanto accade in un Paese dell’Unione Europea ha ormai conseguenze più o meno dirette per tutti gli altri: si parla infatti di europeizzazione della politica. In secondo luogo, questa preoccupazione degli europei nasce soprattutto dall’esperienza. Un referendum offre ai cittadini l’opportunità di lanciare un messaggio, che a volte non ha alcun rapporto con la questione da dirimere. Possono approfittarne anche per esprimere la loro insoddisfazione generale per il governo in carica, o al contrario per sostenerlo. Ad esempio, nel 2005 il massiccio no dei francesi al referendum sulla costituzione europea era espressione della loro volontà di punire il presidente della Repubblica Jacques Chirac. E se nel giugno scorso i britannici hanno optato per la Brexit, lo hanno fatto contro David Cameron. Perciò l’esito dei referendum è spesso incerto: oggi più che mai il comportamento degli elettori è imprevedibile. Si ha la percezione che l’eventuale vittoria del no possa comportare un rischio di instabilità politica in Italia: questo il timore dell’Europa, nella fase critica che sta attraversando. Le cancellerie e gli ambienti finanziari, preoccupati per la situazione delle banche italiane, preferiscono la stabilità, quale che sia, all’incertezza. Ma non è affatto detto che il sostegno dei poteri forti sia un vantaggio per Renzi. Al contrario, nel contesto di un’opinione pubblica in rivolta contro quei poteri, tentata oltre tutto da un ripiegamento sulla dimensione nazionale, in Italia come dovunque in Europa, ogni sospetto di intrusione dall’”estero” è ritenuto inammissibile da un gran numero di elettori.
Ma esiste anche un altro motivo che spiega l’interesse degli europei — o quanto meno, di una parte di essi — per il referendum italiano: in questo voto si cristallizza un interrogativo ricorrente, divenuto ormai incalzante, sul divenire della democrazia italiana; e al di là delle sue particolarità, su quello delle nostre democrazie in generale. Lo attesta il confronto teorico, su queste stesse pagine, tra Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky sui rapporti tra democrazia e oligarchia; e lo dimostrano tutte le controversie suscitate dal referendum (non solo sulle disposizioni previste nella legge e sottoposte al suffragio degli elettori, ma anche sull’Italicum) e quelle centrate sulla figura del presidente del Consiglio. I suoi avversari lo accusano di aver ecceduto nel personalizzare questo voto: un argomento discutibile — anche se Renzi ha indubbiamente commesso un errore tattico nel modo in cui lo ha presentato — poiché fin dal suo arrivo a Palazzo Chigi il premier aveva detto chiaramente che la riforma istituzionale e quella della legge elettorale costituivano gli elementi essenziali del suo progetto. Nello schieramento del no, alcuni costituzionalisti e personalità eminenti si limitano a motivare il loro dissenso con argomenti di diritto pubblico. Ma in gran parte, gli oppositori vorrebbero innanzitutto sbarazzarsi una buona volta del presidente del Consiglio. Dal canto loro, i professori e gli esperti che invitano a votare in favore della riforma la difendono nel merito, sottolineando tutti i vantaggi istituzionali che a parer loro ne deriverebbero all’Italia. Ma anche tra chi ha fatto quest’ultima scelta, molti sperano implicitamente che una vittoria del sì rafforzi il prestigio e i margini d’azione del presidente del Consiglio e segretario del Pd. Perciò il risultato del referendum, positivo o negativo che sia, avrà un impatto sul destino personale di Matteo Renzi. Tuttavia in questa vicenda l’oggetto della discussione, la posta in gioco è qualcosa di ancora più profondo. Chi si oppone alla riforma da sinistra denuncia il rischio di favorire in Italia una deriva autoritaria, sia nell’immediato con Renzi, sia dopo di lui con un altro premier. Dietro quest’argomento si profila lo spettro della Storia, la paura di un ritorno del fascismo, già mobilitata al tempo di Bettino Craxi, accusato di cesarismo, e di Silvio Berlusconi, considerato come una minaccia alla democrazia. Tra gli antifascisti c’è chi diffida profondamente degli italiani, ritenendoli privi di una vera cultura civica, alla ricerca di un salvatore e pronti a consegnarsi al primo venuto che prometta mari e monti. I sostenitori della riforma respingono queste accuse, negando qualunque rischio di una deriva del genere; e pur ammettendo che il potere del presidente del Consiglio sarebbe indubbiamente rafforzato, osservano che resterebbe comunque inferiore a quello di altri capi di governo europei — per non parlare dei poteri del presidente francese, vero monarca repubblicano. A parer loro, l’Italia soffre soprattutto dell’incapacità di decidere, e più generalmente dell’assenza di governabilità.
In questo dibattito c’è forse qualcosa di ambiguo. Agli osservatori stranieri, e soprattutto ai francesi, il rischio di autoritarismo appare infondato, e riflette più che altro un grande pessimismo sulla maturità democratica degli italiani. D’altra parte, c’è da chiedersi se il rafforzamento dell’esecutivo risolverebbe in via definitiva il deficit di governabilità. Anche questo è discutibile, dato che in Italia come altrove viviamo una situazione contraddittoria. Da un lato, i popoli aspirano ad avere un leader capace di agire, in questo periodo di grandi incertezze e sconvolgimenti. Dall’altro, vorrebbero poter controllare questo leader e partecipare da vicino ai processi decisionali. L’autorità non è più solo verticale ma anche orizzontale, dato che associa molteplici attori e protagonisti. E questo è forse uno dei maggiori interrogativi, lasciato un po’ in ombra in questo momento. L’Italia, al pari di altri Paesi europei, non soffre solo di una crisi istituzionale, ma anche di una crisi della società politica nel suo complesso, caratterizzata segnatamente dalla profonda diffidenza di vasti settori della popolazione nei confronti delle élite dirigenti. La sera del 4 dicembre, che la vittoria vada al sì oppure al no, l’imperativo sarà quello di ricostruire la fiducia.

Le  conseguenze del biviosulla costituzione 
Giovanni Orsina Busiarda
Questo articolo è diviso in due parti. Nella prima sostengo che al referendum costituzionale del quattro dicembre non è affatto improbabile che prevalga il no. 
Nella seconda cerco di mostrare perché sarebbe opportuno che vincesse il sì.
Perché no.
Immaginiamo che, come la Gallia di Cesare, l’Italia elettorale sia divisa «in partes tres»: l’elettorato partitico, quello politico e quello impolitico. La mia tesi è che voteranno no il primo e il terzo, e che il risultato complessivo sarà quindi negativo. L’elettorato partitico - popolato da quanti ancora ascoltano le indicazioni del «Palazzo» - dovrebbe votare più no che sì, visto che sono per il no la Lega, Forza Italia, il Movimento 5 stelle, la minoranza dei Democratici e le sinistre. Ossia la maggioranza, almeno nei sondaggi. Gli elettori del secondo gruppo - dotati di cultura politica ma autonomi dai partiti - sono con ogni probabilità i più preoccupati per la scarsità e mediocrità delle alternative all’accoppiata riforma costituzionale-governo Renzi. È possibile immaginare allora che, almeno fra loro, il sì sia in maggioranza.
Ma la «madre di tutte le battaglie» è quella per il terzo elettorato, l’impolitico, di gran lunga il più vasto, ormai. Fra questi, ho l’impressione che il no sia in vantaggio. Un po’ perché il rottamatore Renzi, dopo due anni e mezzo di governo, è già finito rottamato. Per molti non è più una forza di rinnovamento, ma la quintessenza dell’establishment autoreferenziale che l’elettorato impolitico detesta sopra a tutto. E la riforma costituzionale, allora - poiché, anche al di là degli errori di Renzi, non può che apparire come la «sua» riforma -, è diventata la riforma dell’establishment.
Ancora di più, tuttavia, credo che fra gli impolitici prevarrà il no perché costoro non hanno alcun desiderio che la politica si risollevi. Gli «im»-politici, in realtà, sono in maggioranza «anti»-politici. Sono persuasi di non poter comunque ottenere nulla dalle istituzioni. E usano il voto non in vista d’un qualsivoglia risultato, ma per sfogare le proprie frustrazioni. Per infierire su quella che, fin dai tempi di Tangentopoli, è diventata il bersaglio per eccellenza: la classe politica, appunto. Votando no alla riforma, gli antipolitici inchioderebbero definitivamente i politici al ruolo di capro espiatorio. E durerà grande fatica il governo a convincerli che il vero voto antipolitico è il sì.
Perché sì.
È a partire da queste considerazioni che dobbiamo chiederci se il no convenga davvero all’Italia. Nel 2016 qualsiasi ragionamento sulle istituzioni non può che avere come obiettivo prioritario il recupero, almeno parziale, dell’elettorato impolitico. Se una parte così rilevante degli italiani continua a votare per irritazione, «contro», a dispetto, è impensabile infatti che la politica possa mai riconquistare un minimo di efficienza e prestigio. La domanda fondamentale che dobbiamo porci, allora, è: abbiamo maggiori chance di riassorbire l’antipolitica col sì o col no?
La riforma Renzi (costituzionale ed elettorale) è concettualmente vecchia. Appartiene ai primi Anni Novanta, quando l’acquisizione d’una democrazia maggioritaria e bipolare ci sembrava un passaggio necessario e sufficiente verso la piena modernizzazione del Paese, e l’unico antidoto possibile alla crisi della politica esplosa con Tangentopoli. La fase attuale, d’altra parte, non ha prodotto un «suo» modello istituzionale. O meglio: lo avrebbe prodotto se l’utopia grillina della democrazia diretta non fosse, appunto, un’utopia. Che per altro il Movimento, giorno dopo giorno, sta facendo vigorosamente a brandelli. La nostra scelta non può allora che cadere su uno dei due modelli «vecchi»: quello maggioritario e bipolarista che, in maniera assai imperfetta, scaturisce dalla riforma costituzionale e da quella elettorale. E l’ancor più antico modello proporzionalistico che sempre più si configura come l’approdo più probabile in caso di vittoria del no.
È ovvio che, nell’attuale situazione di frammentazione politica, imporre il maggioritario significa compiere una forzatura notevole. Ed è altrettanto evidente che potrebbero approfittarne soggetti politici la cui capacità di governare l’Italia è per lo meno dubbia, e i cui valori sono discutibili. Tuttavia, per quanto io mi sforzi, non riesco a vedere come la credibilità e l’efficienza della politica - nei tempi assai duri che ci aspettano - sarebbero mai ristabilite da un ritorno al proporzionale. Il cui risultato non potrebbe che essere una contrapposizione altamente disfunzionale, e sul medio periodo potenzialmente letale per il prestigio delle istituzioni, fra un’ammucchiata centrista di tutte le forze «responsabili» - trasformistica, rissosa, inamovibile - da un lato, e un paio di partiti anti-establishment, vociferanti e irresponsabili, dall’altro. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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