giovedì 13 ottobre 2016

Il romanzo postumo di Ermanno Rea

NostalgiaErmanno Rea: Nostalgia, Feltrinelli

Risvolto
Felice Lasco torna a Napoli, nel rione Sanità, dopo quarantacinque anni trascorsi fra Medio Oriente e Africa. La madre sta morendo e lui la accudisce fino all’ultimo con tardiva ma amorosa pazienza. Poi, invece di tornare al Cairo dove lo aspetta l’amata compagna, Felice sembra obbedire al richiamo delle radici e di un destino, e resta. Resta perché in attesa dell’incontro fatale con Oreste, noto ormai come delinquente incallito. Felice racconta a un medico dell’ospedale San Gennaro dei Poveri e a don Luigi Rega, prete combattivo e maieuta, la sua storia. Ha diciassette anni, fiero della sua Gilera e della sua amicizia con Oreste Spasiano, detto Malommo, compagno di sortite per i vicoli e di piccoli scippi. Poi, imprevedibile, il delitto di un usuraio. Oreste gli sfonda la testa. Felice è agghiacciato, non tradisce l’amico ma si chiude in un silenzio pieno di angoscia finché uno zio non lo porta con sé a Beirut, dove comincia una nuova vita. Ora, dopo tanto tempo, Felice si espone alla sofferta bellezza della sua città, alla disperazione e anche al formicolare di speranze che agitano il Rione Sanità, illuminato dal testardo operare di don Rega. Come da copione, però, Oreste attende Felice perché in realtà alla Sanità il Male lavora anche contro la Storia. E non c’è riscatto veramente possibile.
Un’opera magistrale nella quale Ermanno Rea intreccia la lucidità del reale e la sensibilità drammatica della tragedia sociale. Un omaggio alla Napoli malavitosa e ribelle del Rione Sanità, ai suoi eroi, alle sue vittime.


La Napoli del riscatto per l’ultimo Rea
Un’amicizia nel Rione Sanità, un delitto (forse) senza castigo. E una città che vuole ricominciare di Corrado Stajano Corriere 13.10.16
È l’ultimo ritorno nella sua Napoli amata e disamata questo libro, Nostalgia , che esce ora e che Ermanno Rea, morto a Roma proprio un mese fa, non può vedere. Per tutta la vita aveva pensato a quella storia che in un tempo lontano era successa nel Rione Sanità dove da bambino aveva vissuto lunghi periodi nella casa dei nonni, in via dei Cristallini, proprio nel cuore del quartiere, una strada lunga come una lama affilata. Era nato poco lontano, in piazza Cavour 8, conosceva bene la Sanità e quella vicenda sanguinante che era venuto a sapere, espressione di tutto un modo di vivere. Doveva raccontarla, un giorno, diceva a se stesso, anche per liberarsi dell’antica angoscia. Ma tra timori e desideri, viaggi, lavoro e altri libri che l’avevano preso aveva sempre rimandato. Fino all’ultimo.
Nostalgia , «il dolore del ritorno», è ora quasi il sigillo doloroso di quel che accadde, di grande forza narrativa, dove il passato si mescola al presente, dove realtà e immaginazione si sommano con naturalezza. Il romanzo è differente, anche nello stile, dagli altri suoi romanzi. Non c’è traccia in Nostalgia di personaggi dal fascino misterioso di Francesca, protagonista del suo capolavoro, Mistero napoletano , l’amore indicibile, la donna romantica che si uccide lasciando come testamento una poesia di Rilke, Alcesti ; non c’è neppure traccia di personaggi realisti come Vincenzo Buonocore, protagonista della Dismissione , l’operaio sofferente che lavora a smontare l’Ilva di Bagnoli a cui aveva affidato la vita.
Il libro racconta la Napoli più cruda e ferina, ai piedi di Capodimonte, la Kasbah della metropoli, costruita su grotte, anfratti, androni oscuri, catacombe, strapiombi di tufo, «bassi fatti apposta per ingoiare chi fugge». È chiamata anche la Valle dei morti, era, o forse è ancora, tra criminalità e degrado, uno dei posti più derelitti d’Europa. Dove talvolta spuntano, chissà come, misteriose isole di giardini incantati. E dove, quasi un ossimoro, nacque Totò, il tragico buffone, e dove Eduardo De Filippo ha ambientato tante delle sue Cantate e anche Il sindaco del Rione Sanità .
Che cosa accadde nel quartiere a turbare la fantasia dello scrittore? Il libro racconta la storia di due ragazzi, Oreste, detto Malommo, e Felice, nati negli anni Cinquanta del secolo passato. I guanti e le scarpe di lusso erano a quel tempo la ricchezza di chi lavorava alla Sanità, apprezzati in tutto il mondo fino al crollo provocato dalla seriale moda cinese che spense nei vicoli le luci delle lavoranti a domicilio. La madre di Felice era una guantaia raffinata ed elegante, «la signora», veniva chiamata. I genitori di Oreste erano di un’altra qualità, se la cavavano rubacchiando, litigavano, soprattutto. La madre del ragazzo era una «vaiassa», come vien chiamata a Napoli la donna che urla.
I due sedicenni cominciavano presto a impratichirsi nell’arte dello scippo. Felice era un motociclista provetto. «Si’ nu dio! Nisciuno corre comm’a te!». Sulla sua Gilera 125 si sentiva davvero un dio. Ma quella moto era il suo tesoro. Per gli scippi i due ragazzi rubavano Vespe, Lambrette con targhe contraffatte che poi gettavano nei dirupi. Felice era il pilota, Oreste, alle sue spalle, il ladro provetto nel rubare, con le sue mani a uncino, borse, borsette, ciò che capitava.
Oreste, figlio di un ladro che non aveva fatto carriera, voleva diventare un grande della malavita. Sentì un giorno che era arrivata l’occasione. Propose al suo coetaneo di entrar di notte nella casa di un noto strozzino, Gennaro Costagliola, per rubargli i soldi e i gioielli custoditi in un nascondiglio di cui era riuscito a conoscere i segreti. Felice era titubante, silenzioso: «Feli’, te sì ’ncagliato?». L’amico finì per acconsentire. Andò tutto alla malora. Felice restò ad attendere nello studio dello strozzino, Oreste entrò nella camera da letto dove erano custoditi i beni da rubare. Gli era stato assicurato che Costagliola quella notte l’avrebbe passata lontano da casa. Era nel suo letto, invece. Felice vide Oreste uscire dalla stanza con le mani sporche di sangue, aveva ucciso lo strozzino con una statuetta di bronzo. Felice volle andare a vedere guidato da una torcia, «con il cuore che batteva lento e lontano». Costagliola «aveva la statuetta di bronzo ancora accanto alla testa fracassata: la morte splendeva come una fiaccola, inconfondibile nella turpe impudicizia del lago di sangue che continuava a spandersi intorno al suo capo».
Il delitto fa da cesura alla vita di Felice. Rea, con sapienza e ironia, affida il racconto a un cardiologo in pensione, l’io mascherato dello scrittore che con le turbe del cuore ebbe grande dimestichezza.
Dopo la notte del delitto Felice non mangiava più, non dormiva, la depressione l’aveva strozzato. Era innocente, ma non del tutto di quella morte, complice, piuttosto, come dimostrare a un giudice che era stato Oreste a impugnare la statuetta? La sua esistenza era finita, pensava, con lo spauracchio della prigione. A salvarlo arrivò uno zio, imprenditore a Beirut, che lo convinse a partire con lui, l’avrebbe fatto lavorare nelle sue aziende che costruivano dighe, viadotti. Felice si convinse, andò nel Libano e poi in Egitto, in Liberia, nel Botswana, uno Stato dell’Africa del Sud, sposò Arlette, divenne un bravo imprenditore. Passarono quarant’anni. Ma Felice non aveva dimenticato la notte dello strozzino. Un tormento. Le ferite profonde, anche se vecchie, seguitano a sanguinare. Decise di tornare. Il Rione era per lui un tarlo roditore. Felice andava a cercare la sua adolescenza. Un ispettore generale, come Ermanno Rea che ritrova alla Sanità la Storia, la sua e quella della città dov’è nato, l’archeologia, la geografia, i Borboni, Gioacchino Murat, l’amata Napoli 99 eternamente sconfitta.
Felice vuol rivedere, chissà perché, il suo antico amico-gemello, Oreste, diventato un gran boss della delinquenza, un duro che controlla bande criminali di taglieggiatori, ricettatori, la prostituzione, e vive come un pascià in una gran casa di lusso. La vicenda finisce in una nuova tragedia.
Con inescusabile ignoranza culturale e arretratezza civile e politica il risvolto editoriale di Nostalgia scrive che il libro è «un omaggio alla Napoli malavitosa e ribelle del Rione Sanità, ai suoi eroi, alle sue vittime».
In realtà Ermanno Rea, alla fine della vita è tornato al Rione Sanità per raccontare non soltanto la Napoli nera, ma anche l’altra Napoli, quella che ha voglia e necessità di ricominciare, nonostante i laceranti dolori: il segretario della Sezione comunista Rashid Kemali che si batte nel nome della legalità sepolta; Adele, la ragazza dei bassi oscuri che è riuscita a laurearsi in Storia dell’Arte, «la prima archeologa nata per partenogenesi da un grande sito archeologico (...) lasciato imputridire nell’incuria più assoluta». E, soprattutto, padre Rega, prete dei poveri e degli esclusi, parroco di Santa Maria della Sanità, il Monacone, che è riuscito a creare una comunità di ragazzi, a dargli coraggio e dignità, a inventare per loro opere e giorni, togliendoli dal ghetto della malavita. Un prete che crede ancora nei rapporti umani e nei saperi che possono dar fiato al fare onesto.
È anche il Rione del riscatto possibile quello narrato da Ermanno Rea, la sua è una scrittura limpida e fluida, che nasconde con maestria il furore. Non c’è solo camorra e malavita alla Sanità. Lo scrittore credeva nel detto inventato da qualcuno, «Lasciateci almeno la speranza nella speranza».

L’addio di Rea al cuore della Sanità
Il quartiere napoletano è la scena del romanzo postumo “Nostalgia”

VALERIA PARRELLA Rep 13 10 2016
Il nuovo libro di Ermanno Rea si affaccia al mondo come fa Oreste, detto Malommo, dopo il caffellatte della mattina, aprendo la finestra sul quartiere Sanità. Ha appena assassinato un suo compagno di infanzia, Felice Lasco, partito dal quartiere quarant’anni prima, e tornato per caso. Non si sta svelando nulla del sottile giallo psicologico sotteso all’intero libro, perché è proprio da qui che esso principia: dalla fine. Il libro si nutrirà della ricostruzione di questo primo movimento, la ricostruzione
della nostalgia offerta dal titolo e cercata, invocata dalla vittima. Felice Lasco è un uomo che deve riappropriarsi del suo passato anche se questo nostos è perigliosissimo, anche se il suo presente è altrove, in Nord Africa, in Egitto. Il recupero affannato del passato, la ricerca e i suoi effetti, Felice Lasco li deposita nella poltrona in penombra di un nuovo amico, di cui si fida e che, come nella migliore tradizione romanzesca europea, sarà colui che raccoglie la testimonianza e si offre di tradurla in letteratura.
Quindi si affaccia, Ermanno Rea, occhi celesti, liquidi, attenti, irrequieti, gli occhi di un reporter: si affaccia, saluta i suoi lettori dall’io narrante di questo romanzo che esce domani postumo: un medico anziano in pensione. Un cardiologo, uno che deve curare i cuori e che vive da sempre nel quartiere che d’un tratto, alla fine dei Vergini, di là la Sanità, di qua i Cristallini, si bipartisce proprio come le due parti del cuore (Aristotele non era forse convinto che il cuore fosse la sede della memoria, da cui la radice di
cor- cordis nel lemma ricordare?). Un cardiologo, ateo, comunista, che instancabilmente fa del suo lavoro una missione, che da ragazzo la tira tardi nelle sezioni di partito, e da lì dà il suo contributo affinché le cose cambino, si “rivoltino” come i guanti che nel quartiere trovavano la più prestigiosa delle sue manifatture. Le rivoluzioni per definizione non hanno una misura dentro di sé: o sono o non sono e quando sono, allora esse valgono tutto, non esistono rivoluzioni piccole: esistono destini che si mettono del tutto in gioco. Qui, in questo quartiere amatissimo, realtà disomogenea, in perenne mutamento e movimento, disordinata e gloriosa, la rivoluzione che il cardiologo compie sotto la guida del suo capo spirituale, il compagno Rashid Kemali, è quella di dare diritti sindacali a chi lavora i guanti. Guanti che vengono poi spediti in tutto il mondo, che vestono dita e mani dei principi di mezz’Europa, a partire da quella corte francese murattiana che taglierà la Sanità in due con un ponte soprelevato, spostando la città più in alto e lasciando quella parte a languire lì sotto, impaludata. Un quartiere, quello raccontato da Rea, che riesce a tenere assieme tutto: i celebri riverberi del “Sindaco” edoardiano, il luccicore dei racconti di Marotta, certo curiosare di Anna Maria Ortese al di qua di via Foria e poi: e poi la fame, la miseria, la povertà degli animi, la malnutrizione dei nuclei famigliari senza acqua corrente, e i comunisti che negli anni Settanta corrono, vigilano, aiutano, insomma: fanno i comunisti: sono tra la gente, lì dove la gente deve sapere e vedere che esiste un sogno. Poi gli anni passano, le concerie chiudono, il malaffare diventa più dell’affare, la Sanità torna a essere interessante per i giornalisti e i reporter perché diviene un terreno di scontro della camorra, ci si muore, nella Sanità, per un agguato, anche per sfortuna, anche se quell’agguato non è diretto alla vittima. Il cardiologo si affaccia e vede la realtà che cambia, si avvilisce, soffre, poi torna a rallegrarsi, di quell’allegria amara che solo la gente del meridione davvero esperisce: perché se il compagno Kemali muore e la sezione di partito scompare — come scompare il partito e la sua Idea, come scompare il sogno — arriva una nuova guida spirituale a raccogliere i destini della gente, a condurre i ragazzi verso un’alternativa, insomma non solo a porsi la domanda, ma anche a fornire una risposta. Stavolta è un parroco, che nel libro si chiama don Luigi, e che nella realtà poi esiste, come davvero è esistito Kemali (Rea fa così e così si farà qui: dei morti si dice il nome vero, dei vivi si usa un altro nome: entrambi gli espedienti sono forme di rispetto). I napoletani lo sanno, e quella parte di Italia che è attenta al suo tempo lo sa: che nella chiesa ”del monacone” c’è un posto dove si sperimenta una banda come quella di Abreu, che a un passo dal cimitero delle “Fontanelle” c’è un luogo incubatore di vita.
Ermanno Rea è morto un mese fa, così risulta difficile assai leggere il titolo del suo ultimo libro e non riferirlo al sentimento doloroso che nasce nel lutto. Si cerca di raccontare il libro perché la permanenza tra i vivi degli scrittori, la loro “immortalità”, passa attraverso quelli, ma si preferirebbe farlo davanti a un bicchiere di vino, in presenza. Non si può, dunque resta Nostalgia, resta la domanda che offre l’immagine di copertina, una fotografia neorealista di Mimmo Jodice: cosa di quella bambina sperduta nel tufo, e cosa di quei bambini ancora più bambini di lei? Di chi la responsabilità? Chi saprà accoglierla? Che poi sono le domande che Rea ha sempre posto, nei suoi libri e nei suoi reportage, nel suo lavoro di fotografo e nella sua missione politica e la cui risposta (o per lo meno la sua ricerca) affida come missione a chi resta. Ut vivat.
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Morto lo scrittore napoletano Ermanno Rea
Avvenire 13 settembre 2016

È morto Ermanno Rea, lo scrittore che raccontò il “Mistero napoletano”
È morto nella sua casa romana. Aveva 89 anni
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Addio a Ermanno Rea, lo scrittore che raccontò il 'Mistero Napoletano'
E' morto nella sua casa romana, aveva 89 anni. Fra i lavori, "La dismissione" sull'Ilva di Bagnoli
di STELLA CERVASIO Repubblica
Ermanno Rea morto. Addio allo scrittore napoletano: ci lascia il romanzo "Nostalgia" in libreria a ottobre
Fuffington

Letteratura in lutto, morto Ermanno Rea
Simone Savoia Giornale Mar, 13/09/2016 

Il dolore del ritorno finisce in agguato
Il romanzo postumo da Feltrinelli. Estremo appello ai valori morali e civili, «Nostalgia» di Ermanno Rea, mette in scena la Napoli del rione Sanità: grembo materno di Felice-Odisseo e teatro caotico di storie, sentimenti e «malommini»
Graziella Pulce Alias Manifesto 12.2.2017, 19:54
A poche settimane dalla morte di Ermanno Rea è arrivato nelle librerie il suo ultimo libro, Nostalgia (Feltrinelli, pp. 275, € 18,00), un romanzo che è anche un estremo appello ai valori morali e civili. In copertina una fotografia di Mimmo Jodice: in primo piano tre bambini che emergono da un vicolo che dietro di loro si fa buio. Volti, vesti e sguardi ne raccontano la povertà ereditata in sorte. Ed è già la Napoli labirintica, in cui la primordialità selvaggia della forza si accompagna a una dolcezza dolente.
Nostalgia, ovvero dolore del ritorno, come già Odisseo, che viaggia per terra e per mare, ad espiazione di una colpa lontana. E come per Odisseo, la colpa, il viaggio e il ritorno sono ascrivibili più al fato che a una scelta individuale. Felice, tornato nella sua Napoli, al rione Sanità, viene freddato da qualcuno che per quarantacinque anni lo ha atteso e ne ha pianificato con cura l’esecuzione. La narrazione procede a ritroso: l’agguato in un vicolo, poi la rievocazione di una storia lontana, una storia che vede due adolescenti, Felice e Oreste (opportunamente soprannominato Malommo), amici fraterni, complici di scippi e furti, un furto che finisce col morto, e la fuga di Felice, dapprima in Libano, nella Beirut agiata, poi in Africa: Egitto, Nigeria, Botswana; quindi il ritorno e il conto con la malavita ancora da pagare, come un peccato originale atavico mai cancellabile. Solo che l’eroe in questo caso non attua la vendetta, ma la subisce.
La scrittura di Rea è densa come sempre e va a costruire per il lettore una rete di significati e di connessioni che vengono in luce via via, rivelando quanto di irrisolto e misterioso sia nel cuore del racconto. Ci sono i fatti, che stanno lì in evidenza, con la vendetta, piatto freddo di quarantacinque anni, con un’amicizia innestata sulla connivenza e alimentata nel contesto di una disposizione gerarchica che Felice ha sempre riconosciuto e subìto nei confronti di Oreste. Il teatro è un luogo d’eccezione, il rione Sanità, di cui vengono rievocate storie e sentimenti; un quartiere che sembra rimasto immutato a chi vi si immerge di nuovo dopo mezzo secolo. E ha davvero i tratti omerici questo mondo sospeso nel tempo, nel quale trovano la propria missione figure fulgide: Rashid Kemali, medico libico che ha fatto di Napoli la propria città, figura storica del Pci locale e uomo di inesauribile carità e umanità; don Luigi Rega, parroco di Santa Maria della Sanità, nel quale si riconoscono i tratti di padre Antonio Loffredo, grande amico di Rea e di Kemali; e il narratore, Nicola, un medico, che raccoglie le confidenze e i ricordi di Felice e degli altri personaggi, un aedo dotato di una personalità sua propria (comunista ateo e animato da uno spirito umanitario votato alla comprensione e alla compassione).
La Sanità, «la figlia prediletta del Caos», è il grembo materno dal quale si è fatalmente attratti, impossibile da abbandonare o dimenticare, come leggiamo nelle pagine conclusive del romanzo. Come Odisseo, Felice desidera il ritorno perché deve riprendere se stesso e riscattarlo da Malommo, che lo ha manovrato come un pupazzo. Ma una volta tornato, il passato «gli si rovescia addosso rabbioso come una muta di cani randagi» e l’uomo corre incontro alla morte cui era riuscito a sottrarsi per quarantacinque anni. Felice, a dispetto della lettera che scrive alla sua donna, sa di dover morire: il peso della sua colpa – ammesso che di colpa si possa parlare – esige che affronti da uomo forte le sue paure.
Nessuna prospettiva salvifica e nessuna ipotesi di speranza siglano questo romanzo che ricostruisce un cinquantennio di storia napoletana e italiana. La narrazione di Rea non lascia adito a dubbi: la Sanità è la figlia di un caos che ha genitori nelle speculazioni dell’alta finanza, nella Chiesa pavida e accomodante (come avevamo letto anche ne La fabbrica dell’obbedienza), nella politica che scende volentieri a compromessi. Contro tutto ciò si ergono Kemal, padre Rega (in cui si cela il cognome dell’autore) e lo stesso narratore, convinti che lo sviluppo di un’autentica fraternità possa costituire le basi per la ricostruzione del tessuto civile della città. Essi si muovono nel rione con lo spirito pacato e indomabile dei guerrieri che sanno di combattere per una causa giusta: in questo caso mantenere limpida la memoria di un amico innocente, stritolato dai meccanismi della prepotenza criminale.

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