martedì 11 ottobre 2016

La finta guerra interna al PD. Lo stalker Bolaffi riesuma puntualmente lo spettro di Weimar


SE A ROMA RIVIVE LO SPIRITO DI WEIMAR 
ANGELO BOLAFFI Rep 11 10 2016
LA malattia mortale che insidia ogni costituzione è il feticismo costituzionale: l’atteggiamento di ostinata opposizione nei confronti di qualsiasi sua riforma. Anche di quelle che proprio allo scopo di salvaguardarne principi e valori ne propongano il cambiamento per adeguarla a nuove condizioni storiche. In questo senso tragicamente esemplare resta il destino della costituzione di Weimar: davvero la più progressiva della prima metà del Novecento europeo.
Il crollo della Prima repubblica tedesca, un caso di “autodissoluzione di una democrazia” che dovrebbe far riflettere quanti oggi in Italia respingono in via aprioristica l’idea stessa di una riforma della Costituzione. Una riforma, quella che sarà oggetto di referendum il prossimo 4 dicembre che riguarda, è bene ribadirlo, solo la seconda parte del testo costituzionale, quella cosiddetta organizzativa. E non certo la prima parte nella quale, per usare una notissima formulazione di Carl Schmitt, si esprime la Grundentscheidung, “la decisione fondamentale” del popolo italiano e costituisce per questo “la carta d’identità” della Repubblica. Come sottolineato opportunamente da Carlo Fusaro nel recente saggio scritto assieme a Guido Crainz intitolato Aggiornare la Costituzione (Donzelli, Roma 2016), un testo che dovrebbe conoscere chiunque voglia sensatamente intervenire nel dibattito in corso sul tema.
Certo Roma non è Weimar e la storia non si presenta mai uguale a se stessa. E tuttavia, anche per le sempre più numerose analogie tra la crisi degli anni ’20-’30 del secolo scorso e quella che oggi conosce l’intero Occidente, tornare su un passaggio chiave di quella esperienza può aiutare a dare respiro storico a un dibattito che rischia di incagliarsi in uno scontro senza confronto. Siamo negli ultimissimi mesi della agonia politica di Weimar e nell’estremo tentativo di cercare una via di salvezza per la Repubblica e le sue istituzioni democratiche venne avanzata una proposta di riforma costituzionale. A formularla fu Ernst Fraenkel uno dei massimi politologi tedeschi del XX secolo vicino alla Spd, la socialdemocrazia tedesca, con l’obiettivo, come egli stesso affermò, di porre rimedio o quanto meno di ridurre al minimo i danni causati dalla “schizofrenia politica della Repubblica”. E al tempo stesso di ridare un ruolo politico a un parlamento esautorato dal combinato disposto della legislazione emergenziale del governo “presidenziale” di Brüning e dalla convergenza strumentale delle opposizioni nazista e comunista capaci, sommando i loro voti, di far cadere qualsiasi governo ma restando tra loro ferocemente contrapposte.
La riforma mirava a introdurre una clausola limitativa delle decisioni del parlamento molto simile a quel “voto di fiducia costruttivo” che nel secondo dopoguerra ha garantito la stabilità politica e la solidità economica della Germania occidentale prima e di quella riunificata poi. «Conservatrice dovrebbe venir definita», così commentò Fraenkel nel suo splendido saggio del 1932 intitolato Riforma costituzionale e socialdemocrazia, «la posizione del raggruppamento che assume un atteggiamento negativo nei confronti di qualsiasi riforma costituzionale e ritiene la rigida osservanza della Costituzione sia la sua migliore difesa». Dopo aver polemicamente ricordato che «socialdemocrazia e Costituzione non sono fratelli siamesi » conclude: «la cieca fedeltà costituzionale per la quale è tabù ogni parola del testo scritto, fa correre il rischio che mentre questo resta immutato, della Costituzione stessa non rimanga neppure un’ombra. La fedeltà alla Costituzione non deve mai diventare feticismo costituzionale se la difesa della democrazia non vuole, alla fine trasformarsi in inconsapevole e tragica collaborazione alla sua liquidazione».
Sappiamo come andò a finire: la riforma non si fece e pochi mesi dopo Hitler andò al potere. Conosco l’obiezione: sarebbe davvero ingenuo e unilaterale attribuire solo alla mancata riforma della costituzione il crollo di Weimar. Ma sfido chiunque a negare che le parole del grande politologo weimariano non suonino da ammonimento anche per l’Italia di oggi. Non solo. Come giustamente ricorda Guido Crainz esaminando alcuni interventi di Pietro Ingrao e di Enrico Berlinguer tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 in tema di riforma costituzionale, «se è assolutamente improprio indicarli come padri della riforma attuale è altrettanto improprio però ignorare che i leader più autorevoli del Partito comunista ritenevano necessario già allora modificare la seconda parte della Costituzione». Non è un caso del resto che proprio in quegli anni si accese nel Pci un vivace dibattito di intellettuali che riesaminando la vicenda del “laboratorio Weimar” suggerirono, senza trovare ascolto, ai dirigenti del Pci di farsi protagonisti di una stagione di riformismo costituzionale. Le cose, purtroppo, andarono diversamente.
Per concludere: quella proposta a referendum non è sicuramente la migliore delle riforme possibili. E come potrebbe esserlo visto appunto che di una “riforma” si tratta? E poi non è forse vero che quasi sempre il “meglio è nemico del bene”? Quella proposta è una riforma che ha il merito di guardare al futuro dell’Italia alla quale, per questo, bisognerebbe dare una chance sia pure nella disincantata consapevolezza che, parafrasando quanto Churchill diceva della democrazia, «la scelta per il sì è la peggiore delle scelte possibili salvo tutte le altre».
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LE OCCASIONI PERDUTE EZIO MAURO Rep 11 10 2016
D’ACCORDO: prima sono finite le ideologie, che nella loro luce artificiale e meccanica recintavano un campo. Poi in quel campo si è arenata la politica, che non è più vista dai cittadini come lo strumento pubblico per la soluzione di problemi individuali. Infine si è smarrita la coscienza di sé, che è poi la ragione di esistere. E tuttavia resta un dubbio: era inevitabile questa deriva del Partito democratico, prosciugato di ogni sostanza identitaria come una conchiglia ormai vuota e abbandonata sulla spiaggia italiana del 2016, battuta da tutte le maree?
Probabilmente no, a patto di sapere che i partiti sono qualcosa di più di un’organizzazione di tutela di interessi legittimi che sempre li animano e di un apparato di sostegno per le leadership che temporaneamente li guidano. Hanno, soprattutto, due prolungamenti indispensabili in alto e in basso: da un lato le radici, che poggiano nella storia del Paese e nella vicenda di ceti, classi, soggetti sociali che chiedono rappresentanza ed espressione; e dall’altro lato un orizzonte che li proietta al di là del quotidiano e del contingente, soprattutto adesso che il mitico “avvenire” ha fortunatamente lasciato il posto a un più incerto ma più laico “futuro”.
UN’IDEA di Paese da difendere e da costruire, un’avventura collettiva in cui possa riconoscersi una comunità politica, ritrovando le ragioni per collegare la propria vita con la vita degli altri, riscoprendo ognuno il senso di responsabilità per un destino comune.
Questi semplici comandamenti valgono per tutti i partiti, e infatti le difficoltà sono distribuite equamente a destra e a sinistra. Ma è la crisi che non è neutrale, e nemmeno equidistante. Se è vero che accentua le disuguaglianze, che trasforma la povertà in esclusione sociale, che attacca il lavoro come strumento di crescita e di cittadinanza, che fa nascere un’inedita gelosia del welfare, che suscita paure primordiali, allora la sinistra dovrebbe capire che è investita direttamente e in pieno dalla più alta ondata del secolo e non le basta l’ordinaria manutenzione. In gioco infatti c’è lo stesso concetto di sinistra, un progetto cioè di riconoscimento, tutela ed emancipazione che unisca le opportunità e le necessità per un Paese più forte e più giusto.
Non è una sfida da poco. Si potrebbe scoprire che anche la sinistra è una creatura arenata nel Novecento, come le sue forme storiche, il comunismo, il socialismo e la socialdemocrazia. Che la caduta del muro l’ha risolta, segnando la sconfitta del comunismo, e insieme l’ha svuotata. Che la nuova solitudine repubblicana, lo smarrimento di cittadinanza, il sentimento d’impotenza democratica la stanno rinsecchendo, a vantaggio di nuove forme politiche mimetiche che eccitano la rabbia e il malcontento con un impianto culturale tipicamente di destra (una feroce gioia contro le istituzioni, una criminalizzazione dell’intera classe dirigente, un invito esplicito a non distinguere per fare di ogni erba un fascio da bruciare comunque) mascherato da linguaggi di pseudo-sinistra, in realtà da vecchio
Borghese. In sostanza il rischio è uno scostamento di classi e soggetti sociali dal sistema all’anti-sistema, con un conseguente slittamento della rappresentanza del pensiero critico, da una politica di sinistra all’antipolitica.
In ritardo perenne con la storia (i conti col comunismo in Italia sono stati risolti per delega con il crollo del Muro, e manca ancora un pubblico bilancio) per una volta la sinistra del nostro Paese era in anticipo sulla cronaca. Il Pd, infatti, era nato prima che questi fenomeni di disgregazione del sistema politico e del meccanismo di rappresentanza si evidenziassero. Il profilo era l’unico possibile per un Paese che aveva nel Pci un partito che era durato troppo a lungo, senza saper risolvere il problema della sua identità autonoma, e nel Psi una forza che era durata troppo poco, suicidandosi con le tangenti e facendo mancare in Italia quel pesce pilota riformista che sotto nomi diversi concorre da decenni a governare le altre democrazie occidentali. Ecco dunque con il Pd la scelta di disegnare quel profilo riformista tipico di una sinistra di governo moderna e occidentale, innervata dalle due grandi tradizioni socialcomunista e cattolico-democratica.
Pochi anni dopo quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l’identità incerta: un capolavoro. Le tradizioni sono state cancellate dallo stesso segretario nella mistica dell’”anno zero” e della rottamazione, come se il renzismo fosse una forma politica nuova e non una legittima interpretazione della forma-partito che esisteva prima e che — almeno in teoria — dovrebbe continuare ad esistere anche dopo. Soprattutto, come se i partiti fossero modelli da indossare secondo le stagioni e le mode, e non realtà presenti e riconoscibili nella storia del Paese, purché il leader sappia rivestirsi della maestà di quella storia complessiva, interpretandola poi secondo il proprio carattere e la propria visione politica. L’orizzonte è stato invece tarpato dagli avversari interni di Renzi, disinteressati a usare il Pd come uno strumento comune per battaglie condivise, preferendo interpretarlo come un’arena permanente dove duellare ogni volta con il premier, affermando la propria identità nel duello e non nelle idee, perché l’idea di fondo è l’illegittimità di questa leadership.
Il risultato è evidente. Il Pd è un soggetto politico dimezzato con le due metà brandite l’una contro l’altra in una guerra di posizioni che l’elettore segue con scarso interesse. Anche perché il Pd nonostante tutto in Parlamento è ancora la forza di maggioranza relativa e come dimostra la vicenda dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale avrebbe la possibilità (ma più ancora il dovere) di giocare ogni partita semplicemente come spina dorsale del sistema politico e istituzionale, soggetto del cambiamento. E invece il Pd ha rinunciato al privilegio di questa responsabilità, preferendo giocare ogni volta due partite contrapposte, come sul referendum. Ci voleva tanto a capire in tempo utile che bisognava partire dalla ricerca concreta e testarda di un’unità del partito su un’ipotesi di modifica della legge elettorale, da portare poi all’esame delle altre forze politiche, riducendo il conflitto sul referendum? Non si è nemmeno provato, fino ad oggi, perdendo tempo e accumulando ruggine interna, fino all’invalidità permanente del Pd. Sprecando così un’opportunità clamorosa, in questa fiera perenne delle occasioni perdute.
La destra che si riorganizza, i populismi arrembanti, non contano più e non fanno nemmeno suonare l’allarme: se non ciechi, Dio rende almeno sordi coloro che vuole perdere. Insieme con loro, perde il Paese che ha già visto consumarsi una tradizione politica e una lingua comune, in un deserto di cultura politica. Adesso rischia di consumarsi la funzione stessa della sinistra. Proprio mentre intorno tutto è destra, vecchia e nuova. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il partito al canto del cigno 
Marcello Sorgi Busiarda 11 10 2016
La crepa che s’è aperta nel Pd e rende più incerto l’esito del referendum, dal momento che il partito avrebbe dovuto essere (e non sarà) il traino del «Sì», per una volta è soprattutto politica, e non, o non esclusivamente, connessa al groviglio di odii e risentimenti personali che da sempre dividono i Democrat. 
S’è capito benissimo ascoltando il dibattito che per tutto il pomeriggio s’è svolto al Nazareno, nel quale, dopo la relazione con cui Renzi ha formalizzato la sua apertura ad eventuali modifiche dell’Italicum, s’è affacciato chiaramente il fantasma del proporzionale. Cioè, per intendersi, l’esatto contrario dei sistemi maggioritari su cui s’è retta per oltre un ventennio, con tutti i suoi limiti, la Seconda Repubblica, consentendo ai cittadini di scegliersi direttamente i governi, poi rivelatisi non sempre in grado di governare.
Contro questo meccanismo, che ha nell’Italicum una delle sue applicazioni, frutto di un compromesso e di un tentativo di migliorare il Porcellum dichiarato incostituzionale, la minoranza bersaniana, che non aveva votato la nuova legge elettorale in Parlamento, s’è spinta ad annunciare che voterà «No» alla riforma costituzionale il 4 dicembre. 
Nel tentativo di dare «rappresentanza» - è la parola chiave adoperata da Roberto Speranza, l’ex capogruppo dei deputati che proprio per non approvare l’Italicum si dimise - a quella parte della sinistra che con i partigiani dell’Anpi, l’Arci, le associazioni antimafia e altri pezzi della società civile sono già schierati contro Renzi.
Qui la discussione interna al partito del premier è arrivata a un punto di svolta. Perché la minoranza non ha chiesto solo di correggere questo o quel punto dell’Italicum, che piuttosto vorrebbe interamente riscritto. Ma di dare legittimazione a chi vuole opporsi nelle urne, alla legge elettorale e alla riforma costituzionale insieme, approfittando della prima occasione disponibile, appunto il 4 dicembre. Un ragionamento come questo - Speranza non ha parlato di numeri, ma la minoranza da tempo ne dispone - poggia sulla valutazione, emersa da recenti sondaggi, secondo la quale il 36 per cento dell’elettorato Pd, più di un terzo, in valori assoluti il 12-13 per cento del totale dei voti degli elettori, è ormai risolutamente per il «No». E questo 12-13, sommato al 4-5 che sta fuori del partito, alla sua sinistra, guarda caso fa il 16-17 per cento che il Pds, erede, dopo il cambio del nome, del vecchio partito comunista, prese nel ’92, nell’ultima occasione in cui si votò con il proporzionale.
In altre parole, se al referendum Renzi e il «Si» saranno sconfitti, e perfino se la Corte Costituzionale, quale che sia il risultato, riscriverà l’Italicum, per esempio rendendo obbligatorio il premio di maggioranza per le coalizioni, e non com’è adesso solo per il partito vincente, il Pci, o come si vorrà chiamare, è pronto a rinascere a sinistra del Pd. Va da sé che per Bersani, Speranza, Cuperlo e tutti coloro che si preparano a far campagna per il «No» insieme a D’Alema, che li aveva preceduti su questo fronte, sarebbe più adatto il proporzionale, che gli consentirebbe più comodamente di riorganizzarsi in proprio, sapendo che su questo terreno troveranno disponibili in Parlamento tutti o quasi gli altri partiti, incapaci di collaborare, ma pronti a unirsi in nome del sistema che nella Prima Repubblica garantiva governi brevi e facili da sostituire, alleanze mutevoli e occasionali e una sorta di diritto al trasformismo.
Dunque il percorso è chiaro. Chiarissimi anche l’obiettivo e le vittime designate: Renzi, il suo governo e la sua riforma. Il Pd, per come lo si conosceva, da ieri non c’è più. Quel che resta da vedere è se con la - assai meno probabile, dopo quel che è accaduto, ma non del tutto impossibile, non si sa mai con i referendum -, vittoria del «Sì», dopo il Pci vedremo rinascere la Dc.
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Italicum, la proposta Renzi è una trappola Direzione Pd. Il segretario alla minoranza: facciamo una commissione per studiare le modifiche alla legge elettorale, ma dopo il referendum. Mi chiedete l'autocritica sulla fiducia? Siamo alle allucinazioni, è stato giusto metterla
Andrea Fabozzi Manifesto 11.10.2016, 23:59
Matteo Renzi maltratta la minoranza Pd come poche volte in passato – e sì che tenero non è mai stato – poi la blandisce con una proposta di mediazione. Che è l’ultima, avvertono i suoi pretoriani presentando l’offerta come un dono prezioso. In realtà è un imbroglio: sia la legge per l’elezione dei senatori, sia soprattutto le modifiche alla legge per l’elezione dei deputati – l’Italicum – sono rimandate a dopo il referendum. Renzi lo dice chiaramente nell’introduzione: la proposta è quella gracilissima di una commissione di studio. Ma anche questa «ovviamente non possiamo farla durante la campagna elettorale. La faremo dopo il referendum, entro la fine dell’anno». Franceschini, cogliendo qualche tentennamento nella minoranza, mischia un po’ le carte: cominciamo subito, troviamo un’intesa in tempi brevi sulle modifiche all’Italicum. Renzi però anche nelle conclusioni è chiarissimo: «Non basta trovare la quadra nel Pd. Bisogna andare a vedere cosa pensano gli altri partiti, si potrà fare nelle due settimane successive al referendum».
«È solo un passo», dice Gianni Cuperlo. «Non basta», dice Roberto Speranza. Ma la minoranza, bersaniani e cuperliani, alla fine non partecipa al voto, come tradizione. Non vota contro e in questo modo potrà partecipare alla commissione per le modifiche all’Italicum. Ci saranno quattro esponenti della maggioranza renziana (Guerini, Orfini e i due capigruppo) più uno della minoranza «scelto da loro. Ma possiamo fare anche due non c’è problema». Dovranno andare a sentire gli altri partiti «anche il M5S», fare un po’ di ammuina. Nessun mandato preciso, nessuna proposta del segretario del partito che quando ha voluto imporre l’Italicum ha messo la fiducia. Al contrario mandato ampio a discutere di tutto: «Ballottaggio sì o no, premio di maggioranza sì o no, collegi, liste bloccate o preferenze». In pratica si potrebbe ricominciare da zero. E lo si dovrà fare necessariamente solo se vincesse il no. Intanto Bersani e Speranza devono decidere come votare. Anzi, hanno già deciso, voteranno no. Renzi ha fatto la sua mossa per togliergli «l’alibi», parola scelta per mortificare ulteriormente la posizione della minoranza.
L’altra offerta di «mediazione» è altrettanto ingannevole. Riguarda il sistema di elezioni dei senatori, che secondo la riforma costituzionale è così complicato da essere quasi impossibile. Si prevede insieme che i nuovi senatori non siano eletti dai cittadini ma dai consiglieri regionali, ma anche che siano scelti secondo le indicazioni dei cittadini. Fu questa la (confusa) mediazione che convinse la minoranza Pd a votare a favore della riforma (voti determinanti al senato), e per questo 24 senatori della minoranza (primo firmatario Fornaro) hanno presentato da nove mesi una proposta che prevede due schede per i cittadini in occasione del rinnovo dei consigli regionali. Ignorata fin qui, ma adesso Renzi dice che è pronto a prenderla come testo base, ovviamente dopo il referendum. Perché, spiega – e questa volta è vero – la presidenza del senato non ammette che si discuta una legge di attuazione di una modifica costituzionale ancora eventuale. Solo che nulla avrebbe impedito alla maggioranza del Pd, se veramente ci avesse creduto, di farla sua già da tempo o di cercare un’intesa con gli alleati. La verità è che con questa riforma trovare un sistema di elezione dei senatori che tenga conto della volontà dei cittadini sembra un’impresa impossibile; è destinato a fare strada il sistema «provvisorio» che affida la scelta esclusivamente ai consiglieri regionali.
Al punto in cui siamo, Renzi non poteva sperare di conquistare il Sì di Bersani e dei suoi – lo stesso Sì che hanno detto, ha ragione su questo il segretario, per tre volte alla camera e tre volte al senato, salvo rarissime eccezioni. Riuscirà però a dare la sensazione che dell’Italicum si può discutere, discutere soltanto fino al referendum. Dopo è un altro mondo. Eppure Renzi ha mostrato i segni di qualche preoccupazione. Non solo nel body language, e non solo perché ha eccezionalmente letto un testo invece di parlare a braccio. Ma anche perché ha caricato al massimo sui rischi di un’eventuale vittoria del No, mettendola al pari di una vittoria di Trump, della Brexit o di un successo di Orban. Poi ha attaccato i suoi avversari interni: «Polemiche autoreferenziali», «mancanza di coerenza», «non ho vissuto un solo giorno senza attacchi». E ha paventato, in caso di sconfitta, la «fine del Pd».
E alla fine risulta più duro di Speranza e probabilmente anche di Cuperlo l’intervento del ministro Orlando, leader dei giovani turchi alla ricerca di una terza via tra maggioranza e opposizione. «Il segretario non deve usare l’argomento che occuparsi della legge elettorale è parlar d’altro, mi aspettavo aperture più consistenti, sull’Italicum è giusto dire che si è cambiato idea perché allora il tripolarismo non era così consolidato». Nella replica, le uniche precisazioni di Renzi sono per lui: «Non è vero, il tripolarismo c’era anche quando abbiamo fatto l’Italicum. Il ballottaggio lo abbiamo previsto per questo». Perché al segretario l’Italicum piace. Adesso vuole solo far finta di cambiarlo.

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