venerdì 7 ottobre 2016

Lacan Bonazzo vota per il Renzi e difende Johnny Lecchino dagli stalinisti invidiosi e reattivi

IL “TRADIMENTO” DI BENIGNI 
MASSIMO RECALCATI Rep 7 10 2016
LA SCADENZA per il voto sul referendum costituzionale si avvicina e, come è normale, il dibattito politico si infiamma. In ogni referendum che ha marcato il passo, il paese si è inevitabilmente diviso (monarchia e repubblica; divorzio, aborto). Accade in democrazia che vi sia una maggioranza e una minoranza.
LA COSA che più mi colpisce non è quindi né l’infiammarsi del dibattito politico, nè la divisione del paese, ma un sintomo che manifesta una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra (ora pienamente ereditata dal M5S). Ne ha fatto recentemente le spese Roberto Benigni aspramente attaccato per la sua presa di posizione a favore del Sì. A quale grave malattia mi sto riferendo? Si tratta della malattia (ideologica) del “ tradimento”. Anche una parte del fronte di sinistra del No ne è purtroppo afflitta. Non coloro che ragionano nel merito dei contenuti della riforma non condividendoli (come provò a fare con cura Zagrebelsky in un recente confronto televisivo con Matteo Renzi), ma coloro che vorrebbero situare il confronto sul piano etico impugnando, appunto, l’antico, ma sempre attualissimo, tema del tradimento degli ideali.
L’accusa patologica di tradimento implica innanzitutto l’idea di una degradazione antropologica del traditore, di una sua irreversibile corruzione morale. Non un cambio di visione, non la formulazione, magari tormentata, di un giudizio diverso, non l’esistenza di contraddizioni difficili da sciogliere, non il travaglio del pensiero critico. Niente di tutto questo. Il traditore è colui che ha venduto la propria anima al potere, al regime, al sistema. È l’accusa che risuona oggi, non a caso, nella bocca di diversi intellettuali schierati per il No rivolta verso quelli che sostengono le ragioni del Sì: venduti, servi, schiavi dei “poteri forti”. Non a caso agli inizi della campagna referendaria Il fatto quotidiano ne pubblicò addirittura una lista di 250 per mostrarne l’indegnità e la consistenza risibile. L’accusa è che il traditore abbia subdolamente cambiato idea o abbia condiviso un’idea ingiusta per difendere avidamente i propri interessi personali. Il che lo rende moralmente ancora più infame. Egli ha barattato in modo sacrilego la purezza assoluta dell’Ideale con la volgarità interessata e meschina del proprio Io. Ambizione personalistica, prevalenza dell’individuale sul collettivo, incapacità di servire umilmente la Causa perché l’attaccamento “borghese” al proprio Io prevarrebbe cinicamente sul senso universale della storia e sulle sue ragioni.
Questo fantasma del tradimento non anima evidentemente solo la vita politica della sinistra — recentemente Alfano fu accusato da Berlusconi e dai suoi di alto tradimento, come Hitler accusò alcuni suoi generali dissidenti, o, per fare un esempio un po’ più modesto, la Lega inveii con il Trota impugnando le scope che avrebbero dovuto ripulire il partito dall’ombra della corruzione — . E, tuttavia, è proprio a sinistra che esso trova il suo terreno di attecchimento più fertile. Perché? Perché l’accusa di essere un traditore degli Ideali è un sintomo tipico della sinistra? Tocchiamo qui la radice profondamente stalinista di questa cultura che è dura a morire. Ogni uomo di sinistra — quale io mi ritengo d’essere — dovrebbe provare a fare sempre i conti con questa radice oscena. Dovrebbe sforzarsi, innanzitutto soggettivamente e non solo collettivamente, di confrontarsi con il suo carattere scabroso, anti-liberale e anti-libertario: dovrebbe provare a fare sempre attenzione allo stalinista che c’è in lui per lavorarci contro, per impedire che questo grave morbo lo accechi e lo condizioni nella sua azione.
La radice inconscia del fantasma del tradimento porta alle estreme conseguenze un principio che appartiene a sua volta al fondamentalismo insito nel concetto “marxista” di militanza. La Causa obbliga alla spogliazione di sé, al sacrificio assoluto della propria individualità, alla soppressione del pensiero critico come un bene superfluo e borghese. Il traditore della Causa è insopportabile perché sancisce invece il ritorno dell’Io e della sua puerile meschinità laddove l’affermazione militante del collettivo avrebbe dovuto estirparne ogni ambizione soggettivistica. Se una personalità pubblica di sinistra oggi difende le ragioni del Sì, le accuse di incoerenza (ma come? prima era per il no ed ora ha cambiato opinione?) ne ricoprano, in realtà, altre ben peggiori. È il caso tipo di Benigni: lo fa per avere contratti, soldi, potere, riconoscimenti o, peggio ancora, perché è servo della finanza, delle banche, dell’Europa dei burocrati o degli Stati Uniti imperialisti, o di chissà quale altro, non meglio identificato, “potere forte”. Lo fa, insomma, perché si è smarrito moralmente. Vizio storico, ancestrale, primario della sinistra anti- liberale, anti-libertaria e anti-riformista. È la corruzione etica a spiegare la ragione ultima del ragionamento politico, nel senso che quest’ultimo non è altro che il frutto di un calcolo cinico e puramente strumentale del “traditore”. In esso non c’è nessun senso del bene comune, nessun senso della Causa, ma solo un incontenibile protagonismo narcisistico dell’Io. Ai tempi di Stalin questo portava dritti verso il plotone di esecuzione oppure verso i campi di rieducazione (il modello maoista fu, in questo, un esempio notevole di applicazione della pedagogia autoritaria al servizio dell’ideologia). Oggi, in un sistema democratico, conduce tendenzialmente alla diffamazione. La corruzione morale non viene soppressa con la morte, ma con il linciaggio mediatico. La lista dei degenerati attende sempre di essere completata con una tessera in più.

«L’Italicum porta al governo del capo»
De Mita: «Bisogna tornare alla proporzionale di De Gasperi per garantire il pluralismo

Al referendum voterò contro»

intervista di Marco Demarco Corriere 5.10.16
«Le norme hanno un’anima, tanto più le Costituzioni», dice Ciriaco De Mita che è stato segretario dc, presidente del Consiglio e presidente della seconda bicamerale per la riforma istituzionale. «Vuol dire — spiega — che le norme vanno calate in una realtà mutevole e complessa, e ciò presuppone intelligenza politica, non rigidità di pensiero».
È la ragione per cui voterà No al referendum di dicembre?
«È una delle ragioni. Tuttavia, io sono per le riforme e per questo ho invitato chi ancora indulge nelle semplificazioni a riflettere, a creare le condizioni per venirne fuori».
Non ci spera più?
«Se si metteva da parte l’Italicum e ci si impegnava a correggere la riforma costituzionale forse avrebbe avuto un senso votare Sì».
Invece?
«Mi pare di capire che l’Italicum resta lì dov’è: per Renzi continua a essere un’ottima legge; mentre sulla Costituzione sento solo il vociare delle tifoserie. Se poi qualcuno prova a elaborare un pensiero, come Zagrebelsky in tv, ecco che subito viene spinto nell’angolo di un presunto conservatorismo».
Cosa c’è che non va nell’Italicum?
«Ci porta alla fine della democrazia parlamentare. Con l’Italicum eleggiamo il capo, non il presidente del Consiglio. La sera stessa del voto sapremo chi ha vinto, ma non chi ha la legittimazione del consenso popolare. Il premio di maggioranza altera la rappresentanza. Apre le porte a un governo personale. Crea un’illusione tecnicista. E chi governerà in queste condizioni poi cercherà il consenso mancante, non la soluzione dei problemi. Si veda quello che è successo a Napoli con de Magistris: eletto al ballottaggio con 278 mila voti su 788 mila».
I riformatori dicono che i poteri del presidente del Consiglio non cambiano. E che il Parlamento riacquisterà centralità.
«Il Parlamento dei nominati? Non so davvero come Napolitano possa pensarlo. In realtà, poi, noi cambiamo i poteri del premier senza toccare la norma costituzionale ma agendo su quella elettorale. Il che è peggio, perché sarebbe stato preferibile affrontare di petto il problema approntando i relativi contrappesi parlamentari».
L’alternativa sarebbe tornare alle coalizioni?
«Si dice che condizionino il governo. Ma con De Gasperi non fu così. A quel tempo erano gli obiettivi programmatici a tenere coeso il pluralismo. E l’Italia divenne la quinta potenza economica del mondo. Oggi il problema è lo stesso: occorre recuperare la pluralità politica e culturale di questo Paese».
Come?
«Con una nuova legge proporzionale che a mio avviso sarebbe più funzionale. Poi mettendo insieme, da una parte, quelli che non intendono sacrificare la democrazia parlamentare, elemento essenziale della nostra tradizione politica, e dall’altra chi — legittimamente — intende invece anteporre i desideri alle soluzioni».
Salva anche il bicameralismo?
«Giusto riformarlo, ma se la motivazione deve essere che tagliando le poltrone si risparmia, allora si abbia il coraggio di essere populisti fino in fondo. A questo punto, tagliamo tutto! Sono invece convinto che così come è stato disegnato, il nuovo Senato complicherà e non semplificherà il processo legislativo. C’era il bicameralismo e la riforma agraria fu elaborata in due mesi. Ora stento a indicare una riforma memorabile fatta in questi ultimi due anni. In futuro potrebbe essere ancora peggio».
Presidente, correva l’anno 1993, perché fallì la sua bicamerale?
«È un discorso lungo. Ma ricordo che a un certo punto, quando eravamo al nodo giudiziario, arrivò un telegramma dalla Procura di Milano: era una diffida a proseguire». 

NOI, ESTENUATI ALLA META 

MICHELE AINIS 7/10/2016 Rep
IL REFERENDUM? Per mettere pace ci vorrebbe un reverendum, con l’aspersorio e l’acqua benedetta. Nel frattempo si litiga su tutto, anche sul nome del litigio, sull’intitolazione del quesito che leggeremo nella scheda elettorale.
SICCOME da qui al voto mancano ancora due mesi, siccome ogni giorno divampano incendi tra i due fronti, è il caso d’avanzare un paio di domandine. Primo: ma è normale tutto questo accanimento? È andata così pure le altre volte o c’è invece un elemento straordinario nel nuovo referendum? Secondo: quale sedativo potrà sedare gli animi? Giacché il 4 dicembre non finirà la storia dell’Italia; però questa lunga zuffa — ha osservato Mario Calabresi — rischia d’incenerire qualsiasi possibilità di dialogo, lasciandoci viandanti in un paesaggio di macerie.
Non che ogni scontro d’opinioni costituisca una sciagura. Anzi: i conflitti sono il sale della democrazia, a differenza dei regimi autoritari, che li mettono a tacere con la forza. Non per nulla la Costituzione stessa regola il conflitto tra i poteri dello Stato. Come regola, d’altronde, il referendum, che è conflitto senza vie di mezzo, senza compromessi: o sì o no, nessuno spazio per il nì. Tanto più ove non sussista un quorum per la validità del referendum, come in questo caso. La notte del 4 dicembre ci saranno un vinto e un vincitore, non un risultato nullo, anche se andassero alle urne 6 italiani su 60 milioni. Ovvio perciò che i favorevoli e i contrari si spendano senza risparmio d’energie, tanto non c’è un tempo supplementare da giocare.
Un po’ meno ovvio, viceversa, è che i bollori si trasformino in carte bollate, in una pioggia di querele e di ricorsi giudiziari. Che in attesa del referendum l’attività legislativa sia sospesa, dalla legge sulla concorrenza alla riforma della prescrizione, dall’introduzione del reato di tortura alle nuove regole sulle adozioni. E che ciascuno prefiguri la vittoria altrui come un’apocalisse, un finimondo. Negli altri due referendum costituzionali fin qui celebrati — nel 2001 e nel 2006 — non si respirava questo clima da tregenda. Stavolta sì. Ecco: perché?
Lì per lì, saremmo tentati di rispondere che è colpa d’una campagna referendaria cominciata troppo presto, destinata a finire troppo tardi. Dalla primavera all’inverno, quanto basta per incrudelire gli animi. Ma non è così, basta fare un po’ di conti. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu approvata in Parlamento l’8 marzo; il referendum si tenne il 7 ottobre; trascorsero perciò 213 giorni fra il voto dei parlamentari e il voto dei cittadini. Invece la Devolution ricevette il suo battesimo il 16 novembre 2005; venne sottoposta agli elettori il 25 giugno 2006; ergo in quel caso la campagna referendaria si prolungò per 221 giorni. E adesso? La riforma Boschi è stata timbrata dalle Camere il 12 aprile di quest’anno; il referendum si terrà il 4 dicembre; dunque lo spazio temporale s’allunga fino a 236 giorni. Un paio di settimane in più rispetto alle occasioni precedenti, ma dopotutto è poca cosa. Non può essere questa la ragione della frattura verticale che sta dividendo gli italiani.
Difatti la ragione è un’altra, così visibile da riuscire invisibile, come la «Lettera rubata» di Allan Poe. E sta nel fatto che per la prima volta il referendum cade durante la legislatura che ha varato la riforma, mentre impera la stessa maggioranza, lo stesso esecutivo. Sia nel 2001, sia nel 2006 si svolsero elezioni politiche, fra l’approvazione della riforma costituzionale in Parlamento e la sua sottoposizione a referendum; e con le elezioni cambiò la faccia dei governi. Nel 2001 sostituendo al gabinetto Amato un esecutivo Berlusconi; nel 2006 sostituendo Prodi a Berlusconi. Sicché in entrambi i casi la campagna referendaria cominciò, di fatto, soltanto dopo il turno elettorale; e la tensione politica si scaricò sulle elezioni, non sul referendum. Sterilizzandolo, o almeno depurandolo dalle sfide di partito.
Stavolta capita il contrario. Ecco perché gli aspetti politici prevalgono sul merito costituzionale del quesito, perché ne va di mezzo la sopravvivenza del governo, se non della legislatura. Una contaminazione che non fa bene alla politica, che fa malissimo alla Costituzione. Morale della favola: hanno ragione i belgi. La loro Carta (art. 195) prescrive infatti la dissolution automatique delle Camere, quando decidono d’aprire un procedimento di revisione costituzionale. In pratica, con quella decisione il Parlamento del Belgio si suicida. Noi invece, a quanto pare, al suicidio preferiamo l’omicidio.

Al premier serve un’idea per salvarsi dal duello rusticano sul referendum
Invece di un confronto sulla riforma della Carta, prevale la logica della resa dei conti
Di conseguenza cresce l’incertezza tra gli elettori e il premier si sente accerchiato dalle critiche
Palazzo Chigi deve abbandonare i toni ansiogeni e puntare su un messaggio di maggiore credibilità
di Stefano Folli Repubblica 7.10.16
C’è un’alternativa alla prospettiva di due mesi di rissa elettorale come quella a cui assistiamo in questi giorni? La risposta sprezzante del sottosegretario Lotti strettissimo collaboratore di Renzi - alle critiche di D’Alema induce a pensare che no, questo sarà lo stile della campagna fino al 4 dicembre.
Sotto questo aspetto, il paragone è scoraggiante. La Costituzione del 1948 fu la cornice di un paese che seppe riconoscersi in alcuni valori fondamentali nonostante le drammatiche lacerazioni politiche dell’epoca. Oggi, viceversa, più che una discussione pubblica sulla riforma della Carta, prevale la logica della resa dei conti. La costante delegittimazione dell’avversario, tipica degli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, prosegue e si trasferisce sul terreno referendario. Chi la pensa in modo difforme deve essere degradato nel fuoco della polemica. Un giudizio negativo sulla riforma nasce dal rancore di chi non ha ottenuto “una poltroncina di consolazione”. E chi invece difende il testo costituzionale lo fa per consolidare un gruppo di potere in vista di miscelare politica e affari.
Si capisce che inasprire un tale clima - come avviene da più parti - rischia di trasformarsi in un esercizio devastante. Perché il duello rusticano non si svolge solo all’interno del Pd. In realtà si proietta verso le future elezioni politiche: come se il referendum fosse solo il primo tempo di una partita che si concluderà con il rinnovo del Parlamento, inteso come l’ordalia finale fra il “partito di Renzi” e l’arcipelago dei suoi nemici più o meno organizzati. Resta da capire chi può trarre giovamento da questo clima esasperato. Forse solo i movimenti anti-sistema, i Cinque Stelle o come si chiameranno di qui a un anno, che hanno l’opportunità di far dimenticare i pasticci di Roma indicando una volta di più i limiti delle classi dirigenti e di un certo “establishment”. C’è da dubitare che a trarne vantaggio possa essere il presidente del Consiglio, soprattutto se egli non riuscirà a cancellare quell’immagine di solitudine, o meglio di isolamento, che si è diffusa nelle ultime settimane. Un’immagine più apparente che reale, figlia del nervosismo.
Renzi reagisce indulgendo un po’ troppo spesso alla polemica quotidiana - lui direttamente o i suoi collaboratori - quando invece dovrebbe affidarsi a un tono più alto, in sintonia con l’ambizione riformista della nuova Costituzione. In fondo, se il premier non sa resistere alla tentazione di battersi in prima persona, nonostante la promessa di non “personalizzare” il confronto, dovrebbe ricordare che spetta a lui riconciliare gli italiani e far sì che domani la Carta fondamentale sia percepita come tale da tutti: dai vincitori come dagli sconfitti del 4 dicembre. Invece i piani continuano a mescolarsi e la campagna elettorale sembra quella del “partito di Renzi” contro tutti.
Di conseguenza cresce l’incertezza. I sondaggi sembrano ancora poco favorevoli al Sì e inoltre a Palazzo Chigi si preoccupano per lo stillicidio degli attacchi ricevuti dall’interno e dall’estero, sia sulla politica economica sia sulla stessa qualità della riforma. La sensazione dell’accerchiamento è in buona misura infondata, ma è pur vero che qualche errore poteva essere evitato. In primo luogo l’uscita sul ponte di Messina che ha fatto cattiva impressione in diverse capitali europee, non solo a Londra. Sull’altro piatto della bilancia, all’Italia viene oggi riconosciuta dalla Commissione europea la “flessibilità” richiesta per il terremoto e gli immigrati: e questa è un’ottima notizia per i conti pubblici, utile anche a rasserenare i rapporti fra Roma e l’Unione.
Renzi è ancora in grado di vincere il referendum, ma i suoi toni ansiogeni fin qui non lo hanno aiutato. Come probabilmente non lo aiuta la mancanza di una seria iniziativa per cambiare la legge elettorale. Per sua fortuna, due mesi sono lunghi: c’è tutto il tempo per correggere una campagna elettorale partita con il piede sbagliato. Il che significa trovare un’idea (magari più di una) in grado di restituire al messaggio governativo un’impronta di ottimismo fondato sul realismo e la credibilità.

SE IL REFERENDUM SPACCA IL PAESE STEFANO RODOTÀ Repubblica 7 10 2016
ha deciso di ospitare in questo spazio interventi pro e contro la riforma costituzionale in vista della scelta del 4 dicembre. Un confronto aperto martedì scorso dall’editoriale del direttore Mario Calabresi al quale hanno già contribuito Giorgio Napolitano, Salvatore Settis, Roberto Esposito, Michele Ainis e Massimo Recalcati
GUARDANDO alle discussioni sul referendum costituzionale, sembra ogni giorno più difficile segnare un confine tra politica e antipolitica, stabilire dove finisce l’una e comincia l’altra. Un manifesto come quello che chiede ai cittadini “Vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”, incorpora clamorosamente l’antipolitica, le attribuisce una legittimazione che finora le era mancata. Ma quali rischi accompagnano questa legittimazione in un periodo in cui è forte la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, grande il loro bisogno di partecipazione, sempre più intensa la ricerca di modalità di rappresentanza diretta?
È sempre più evidente che la lunga, e per molti versi violenta, campagna elettorale, tutt’altro che conclusa, ha già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco riconoscimento di principi comuni. E gli interventi continui, e assai spesso aggressivi, del presidente del Consiglio certo non contribuiscono a crearne le condizioni. Il rischio è che, quale che sia l’esito del referendum, una parte significativa dei cittadini possa non riconoscersi nel risultato del voto. Bisogna ricordare che ai tempi dell’Assemblea costituente la preoccupazione era stata proprio quella di non dividersi, tanto che fu possibile un accordo sui temi fondamentali malgrado la guerra fredda e l’estromissione dal governo di comunisti e socialisti.
Il legame stretto tra la legge elettorale, l’Italicum, e la riforma costituzionale aveva suscitato legittime preoccupazioni per le forme di concentrazione di potere che avrebbe determinato, cambiando in maniera significativa gli stessi equilibri istituzionali. Le modifiche all’Italicum, più ventilate che tradotte in impegni effettivamente vincolanti e alle quali si era riferita la minoranza del Pd, condizionando ad esse il suo consenso, non potrebbero comunque avere l’effetto di rendere accettabile la riforma.
È persino imbarazzante, per la pochezza dei contenuti e del linguaggio, leggere il testo al quale è stato consegnato il compito impegnativo di riscrivere ben quarantatré articoli della Costituzione. L’intenzione dichiarata è quella di semplificare le dinamiche costituzionali, in particolare il procedimento legislativo. Ma per liberarsi dal tanto deprecato bicameralismo paritario si è approdati invece a un bicameralismo che generosamente potrebbe esser detto pasticciato. Neppure gli studiosi più esperti sono riusciti a dare una lettura univoca del numero delle nuove e diverse procedure di approvazione delle leggi. Ma l’attenzione critica si è giustamente rivolta anche alla composizione del nuovo Senato, che sembra essere stata concepita per renderne quanto mai arduo, e per certi versi impossibile, il funzionamento. Il compito affidato ai nuovi senatori, infatti, è assai difficile da conciliare con il loro primario compito istituzionale. Si tratta, infatti, di consiglieri regionali e sindaci. E proprio il ruolo assunto in particolare dai sindaci nell’ultimo periodo, divenuti determinanti per il rapporto tra cittadini e istituzioni, rende inaccettabile o concretamente impossibile una loro presenza attiva e informata come senatori. Non potendo svolgere una vera e incisiva funzione istituzionale, i nuovi senatori frequenteranno Palazzo Madama come una sorta di dopolavoro?

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