mercoledì 19 ottobre 2016

Mosul viene gioiosamente liberata dagli americani, mentre Aleppo teme l'arrivo dei terribili russi. La pericolosa "strategia di Putin per influenzare l'Occidente"



Caccia agli irriducibili dell’Isis Su Mosul arrivano gli Apache Usa Nei villaggi dove Peshmerga e truppe irachene stanano i combattenti del Califfo Giordano Stabile Busiarda 20 10 2016
L’odore acre del petrolio bruciato si mescola a quello delle stoppie dei campi di grano. La piana fra Kalak e Mosul è un ondeggiare giallo con piccole chiazze di verde, un po’ di granturco ancora da tagliare. Dopo il ponte sul fiume Khaser, provvisorio perché quello della superstrada da Erbil l’ha fatto saltare in aria l’Isis, si cominciano a sentire le raffiche brevi e secche. I Peshmerga stanno setacciando villaggi e borgate fra Khaser e Bartella. Dopo la grande avanzata di lunedì hanno passato due brutte nottate. Le cellule islamiste rimaste indietro, imboscate nelle case sparse, li hanno colpiti alle spalle con auto kamikaze, cecchini. Ora i guerriglieri curdi cercano di stanare gli ultimi irriducibili.
Il capitano Ferman Hamit ha gli occhi rossi di chi dorme due ore per notte. La sua compagnia si è piazzata ai margini del villaggio di Sharkhouli. Il grosso dei blindati se ne sta mezzo chilometro più indietro, protetto da un incrocio e un gruppo di case distrutte. Il capitano è in maglietta, qualche suo uomo si è buttato all’ombra di un gippone e dorme con il kalashnikov a fianco. La disciplina si è un po’ rilassata. La stanchezza pesa. I blindati sono già stati circondati da muri di terra. Due grossi escavatori stanno costruendo una trincea alta un paio di metri. «Così le auto kamikaze non potranno più prenderci di sorpresa», spiega Hamit. Fa il modesto, ma poi i suoi uomini spiegano che è stato lui, l’altra notte, a fermare un’auto corazzata lanciata a tutta velocità, con il lanciarazzi: «Un colpo da 50 metri». A pochi secondi dalla morte certa.
Apache americani
L’auto, un furgoncino annerito, è ancora lì. Il cadavere del kamikaze l’hanno appena portato via. Poco distante c’è un «mostro», un pick-up corazzato con spesse piastre di acciaio saldate, catturato prima che gli islamisti potessero usarlo. Quello resisteva «anche ai razzi Rpg». Più a Sud, dove opera l’esercito regolare, sono stati gli elicotteri Apache americani a eliminare i «mostri» kamikaze. Hamit è nei Peshmerga dal 2014. Si è arruolato dopo la caduta di Mosul. Nato a Kalak, se li è visti alle porte. Quell’estate era a Falluja, tenente nell’esercito iracheno. Ora, ammette, le cose vanno bene ma due anni fa «i soldati sono scappati senza combattere». E lui ha cambiato casacca, anche se si sente «curdo e iracheno». Ha seguito un corso di addestramento con gli americani. Tecniche anti-guerriglia e anti-bombe improvvisate. Un bagaglio che ora sfrutta appieno. Perché «l’area è piena di trappole» e l’altra notte i suoi uomini «si sono trovati fra due fuochi». Per questo le case vengono perquisite una per una. E si spara al minimo rumore. Di civili non ce n’è neanche più uno.
Armi chimiche
I combattenti dell’Isis sono a meno di un chilometro, dietro una fila di capannoni agricoli dai tetti in lamiera. Appena fa buio, per non farsi illuminare, lanciano razzi. Un’altra insidia. Perché fonti di intelligence «affidabili» dicono che i jihadisti hanno accumulato a Mosul un arsenale di armi chimiche, soprattutto iprite. «Le hanno usate già 15 volte contro i Peshmerga - rivela il generale di brigata Hajar O. Ismail - e siamo sicuri che proveranno a usarle di nuovo». Probabilmente con i razzi, che hanno una portata di qualche chilometro. Il generale prevede che le operazioni di ripulitura dei villaggi dureranno un paio di settimane. Poi la battaglia dentro la città, «un paio di mesi forse». Un passo lento confermato dal portavoce dell’offensiva irachena, il generale Yahya Rasul: «Non abbiamo fretta di arrivare a Mosul». 
I soldati sono più ottimisti: «Isis è già in fuga verso Raqqa», scherzano. Le voci sono contraddittorie. Per Baghdad la leadership ha già lasciato Mosul e «restano solo i combattenti stranieri che non possono mescolarsi alla popolazione». Altri rumours dicono che il califfo Abu Bakr al-Baghdadi è rimasto in città. Ha piazzato ai posti di comando «gli ufficiali più duri» e prepara l’Apocalisse. Ridurre Mosul a un cumulo di macerie, peggio di Falluja e Ramadi. Agli abitanti è stato ordinato di non muoversi dalle case. I depositi di munizioni, anche chimiche, sono stati dispersi negli interrati dei palazzi. Se i jihadisti si trincerano ci vorranno raid pesanti. Ma sarebbe un massacro. Anche perché pochissimi civili finora sono riusciti a scappare.
Il campo profughi
La Ong «Save the Children» ha calcolato in cinquemila, moltissimi bambini, quelli che finora sono fuggiti verso Ovest, verso le zone della Siria controllate dai curdi dello Ypg. Un viaggio «in condizioni terribili». Verso Est, Erbil, invece l’ondata ancora non si è vista. Vicino alla base militare di Khaser è quasi pronto un campo profughi, cofinanziato dall’Onu e dalla Ong «Barzani Charity Foundation». Le tende bianche e blu, dal tetto semicircolare, sono già coperte di polvere. Gli operai stanno finendo di allestire docce e bagni in comune, uno ogni quattro famiglie. «Ci aspettiamo l’arrivo di cinquemila profughi - spiega Badreddine Arki, il direttore dei lavori. Qui c’è posto per mille famiglie e quindi dovremmo reggere il flusso. Fra dieci giorni sarà tutto finito». Più o meno quando ci sarà l’assalto alle trincee della seconda linea di difesa dell’Isis, ai margini dell’abitato di Mosul. Il fumo del petrolio e dei copertoni in fiamme, una barriera per ostacolare i raid aerei, indica la linea. Il Califfo prepara un finale di ferro e di fuoco. 
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Putin rilancia il dialogo sull’Ucraina La Merkel lo sfida sui raid in Siria Vertice con Poroshenko e Hollande a Berlino. Resta l’ipotesi delle sanzioni Alessandro Alviani Marco Bresolin Busiarda 20 10 2016
Dopo 4 anni di assenza, il leader russo Vladimir Putin torna a Berlino per incontrare il presidente ucraino Petro Poroshenko, la cancelliera Angela Merkel e il presidente francese François Hollande. Un incontro - il primo del cosiddetto «Quartetto di Normandia» da un anno a questa parte – convocato per fare il punto sull’implementazione dell’accordo di Minsk siglato un anno fa, che avrebbe dovuto riportare la pace nell’Est dell’Ucraina e che non ha del tutto rispettato le attese visto che nelle zone del Donbass si registrano ancora combattimenti e scontri. 
Il primo ad abbandonare la scena è Poroshenko. Al termine dei colloqui, infatti, Putin, Merkel e Hollande si sono visti a tre per parlare di Siria. Sul tavolo l’incognita di possibili nuove sanzioni alla Russia come aveva fatto capire martedì la stessa cancelliera. Un antipasto di quello che verrà discusso al Consiglio europeo che si apre oggi a Bruxelles. 
Tra gli argomenti all’ordine del giorno dei capi di Stato e di governo del Vecchio Continente rientra anche la questione dei rapporti con la Russia, un tema messo in agenda su iniziativa dell’Italia, che aveva avanzato una richiesta in questo senso in estate, prima che precipitasse la situazione ad Aleppo. 
Nelle conclusioni finali del vertice, rivelano fonti diplomatiche europee, dovrebbe entrare anche un riferimento alle relazioni con la Russia e alla crisi siriana, mentre in questa sede non dovrebbe essere citata l’ipotesi di sanzioni contro Mosca. Fonti del governo tedesco spiegano che a cena è prevista una «discussione aperta» sulla Russia. Tuttavia sulle sanzioni non arriverà «nessuna decisione», il che significa anche che l’incontro «non toglierà dal tavolo nessuna opzione», mettono in chiaro da Berlino. «Tra le opzioni sul tavolo c’è anche quella delle sanzioni e crediamo che resterà sul tavolo anche dopo il vertice», nota una fonte dell’esecutivo federale.
L’ipotesi delle sanzioni continua a dividere i Paesi membri, ma anche gli stessi governi al loro interno: mentre Merkel appare ad esempio possibilista, il suo ministro degli Esteri, Steinmeier, è scettico, in quanto convinto che non aiuterebbero la popolazione civile. E non solo: proprio ieri il capogruppo dei popolari all’Europarlamento, Manfred Weber, quello dei liberali, Guy Verhofstadt e quella dei Verdi, Rebecca Harms, hanno inviato una lettera congiunta al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, per chiedere sanzioni più dure contro Mosca. 
A Bruxelles c’è attesa per la relazione di Merkel e Hollande, che riferiranno del loro incontro avuto ieri a Berlino con Putin e Poroshenko. La cancelliera ha sempre chiarito di voler affrontare non solo la crisi ucraina, ma anche la situazione in Siria nel caso in cui fosse riuscita a concordare un simile incontro, aveva fatto sapere in mattinata il suo portavoce. Secondo il quale Merkel non ha indicato la tregua umanitaria ad Aleppo (prolungata ieri da otto a undici ore) come precondizione per il faccia a faccia. Per Berlino è fondamentale non rompere il filo del dialogo. La Russia resta «un partner strategico» con cui vogliamo e dobbiamo continuare a collaborare, ragiona una fonte del governo tedesco. La Ue, continua, è disposta a portare avanti i colloqui con Mosca, al momento «abbiamo grosse divergenze», ma «tutti hanno interesse a tornare a un rapporto migliore con la Russia». A tenere alta la tensione alla vigilia ci hanno pensato tra l’altro le accuse di Mosca al Belgio di aver condotto un raid aereo nei pressi di Aleppo nel quale sono rimaste uccise sei persone. 
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Aleppo e Mosul, due facce dello stesso conflitto. E la Turchia fa da “ponte” bellico
Medio Oriente. In Iraq governo e peshmerga avanzano più lentamente, l’Isis usa i kamikaze come difesa e i turchi mandano i caccia. In Siria la Russia propone da sola una tregua ma le opposizioni rifiutano di slegarsi da al-Nusra di Chiara Cruciati il manifesto 19.10.16
Aleppo e Mosul sono facce della stessa medaglia, quella della ridefinizione dei confini e le aree di influenza in Medio Oriente. Difficile separare la guerra civile in corso in Siria con l’operazione lanciata lunedì su Mosul: gli attori in campo sono quasi gli stessi, le conflittuali agende anche. Uno dei “ponti” tra le due città è la Turchia e l’interventismo bellico scelto da Erdogan come strategia politica.
Ieri il primo ministro turco Yildirim ha annunciato il nuovo livello raggiunto dalle truppe turche in Iraq: «La nostra aviazione prende parte alle operazioni aeree della coalizione a Mosul». Ora, dunque, non ci sono solo un migliaio di soldati a dieci chilometri dalla città ma anche i caccia. L’obiettivo è avere un ruolo di primo piano nel futuro della città, facendosi aprire la porta dalla Erbil del presidente Barzani, ed escludere le milizie sciite legate all’Iran.
Un’agenda palese che provoca la reazione del religioso sciita Moqtada al-Sadr: il leader delle Brigate della Pace ha chiamato alla protesta davanti all’ambasciata turca a Baghdad e ieri in 10mila hanno risposto all’appello. I manifestanti hanno chiesto il ritiro turco dalla base di Bashiqa e una posizione più ferma del proprio governo in merito.
Ma Baghdad preferisce una soluzione più morbida: una delegazione governativa volerà in Turchia nel fine settimana per spegnere le tensioni tra i due paesi. Sul tavolo delle offerte Baghdad potrebbe mettere il freno alle milizie sciite, incorporate nell’esercito e da questo stipendiate perché essenziali sul piano militare, ma problematiche su quello settario.
Ieri è stata Amnesty a tornare sugli abusi commessi contro le comunità sunnite liberate dall’Isis e finite dentro un altro incubo. Se dovesse succedere anche a Mosul, e Baghdad lo sa bene, le tensioni settarie potrebbero far crollare la speranza di mantenere intatti i confini nazionali, a favore delle forze che premono per una divisione del paese (Stati Uniti e Turchia in testa).
Sul campo, intanto, le operazioni rallentano: la 9° Divisione dell’esercito iracheno si è avvicinata alla città cristiana di Qaraqosh (da cui i residenti fuggirono in una sola notte verso il Kurdistan iracheno) e il fronte anti-Isis ha liberato una ventina di villaggi a sud, dove operano i governativi, e ad est, dove avanzano i peshmerga. Ma si trova davanti alla resistenza islamista nella periferia est di Mosul, portata avanti con una decina di attacchi kamikaze.
In città il “califfato” sta innalzando barricate e riempiendo le trincee di benzina, a cui dare fuoco per rallentare la futura avanzata governativa. Ma si prepara anche a fuggire, raggiunto il punto di non ritorno: secondo il piano della coalizione internazionale, i fronti di attacco saranno a nord, sud e est, lasciando aperto il lato occidentale. Una sorta di corridoio per la fuga, l’evacuazione dei 3-5mila miliziani presenti, che saranno naturalmente diretti verso la Siria come già accade da settimane.
La denuncia arriva anche da Damasco che accusa la coalizione di aver previsto un passaggio sicuro degli islamisti dentro il territorio siriano. Tutti verso Raqqa dove, più che ingabbiati, potrebbero essere liberi di rafforzare le difese della loro “capitale”, per la cui liberazione i progetti non sembrano concretizzarsi. Per gli attori della guerra civile siriana è più importante Aleppo, la città che deciderà il conflitto.
La Russia continua a ballare da sola: dopo il fallimentare incontro di Losanna, lo scorso sabato, Mosca ha deciso insieme a Damasco di interrompere i raid sui quartieri orientali in mano alle opposizioni: nessun bombardamento in vista della pausa militare di otto ore prevista per domani. Due gli obiettivi, dice il Ministero della Difesa russo: permettere ai civili di uscire in sicurezza dalla zona est e garantire il passaggio dei miliziani che si arrenderanno.
Mosca si fa forte dell’accordo che avrebbe raggiunto con il fronte anti-Assad (Turchia, Arabia Saudita e Qatar) perché costringa i gruppi ribelli alleati a rompere le relazioni con l’ex al-Nusra. A renderlo noto è l’ambasciatore russo all’Onu che lunedì ha riportato di un accordo tra i tre paesi, la Russia e gli Stati Uniti: «Hanno espresso la loro intenzione a lavorare con le opposizioni moderate così che si separino da al-Nusra», ha detto Churkin.
Ma ieri è giunta la reazione delle opposizioni: Ahrar al-Sham, gruppo salafita invitato al negoziato di Ginevra, e Fastaqim, parte dell’Esercito Libero Siriano, hanno rifiutato la proposta e negato qualsiasi ritiro da Aleppo. Dichiarazioni che portano l’Onu a precisare di non poter intervenire con corridoi umanitari o consegna degli aiuti visto il mancato accordo tra le parti.
Rifiutano anche Washington e Londra: Usa e Gran Bretagna hanno rigettato l’offerta russa di una pausa per riavviare il dialogo perché «troppo breve e poco credibile».

Armi chimiche e mine così l’Isis usa i civili come scudi umani per l’ultima difesa

Mosul  L’Unhcr: anche i liberatori evitino rappresaglie contro la popolazione

GIAMPAOLO CADALANU Rep 19 10 2016
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO).
Il giovanotto di Al Hud fa un largo sorriso mentre mostra alle telecamere la guancia rasata di fresco. «L’Isis ci costringeva a far crescere la barba. Controllavano tutto ciò che facevamo, e chi non obbediva veniva punito. Anch’io ho subito 25 frustate. Ma adesso se ne sono andati, Alham du Lillah, grazie a Dio». L’avanzata delle truppe irachene verso Mosul ha restituito allegria alla gente dei villaggi della zona di Mosul e ridato speranza persino ai sudditi più controllati, nella capitale irachena del Califfato, di fatto prigionieri dei jihadisti e sul punto di trasformarsi in scudi umani nel momento della battaglia.
«A Mosul c’è almeno un milione e mezzo di civili, che gli uomini dello Stato islamico non lasciano partire. Sappiamo che chi tenta di fuggire viene giustiziato all’istante», conferma Karwan Baban, colonnello dei Peshmerga. L’ufficiale curdo non si fa illusioni: «L’avanzata per conquistare la città sarà dura e sanguinosa, per le forze che attaccano ma soprattutto per la popolazione ». Gli analisti militari lo raccontano da mesi: il sedicente Stato islamico ha avuto tutto il tempo di convertire la sua capitale irachena in una enorme trappola a cielo aperto e la riconquista della città, abbandonata quasi due anni e mezzo fa nelle mani degli integralisti quasi senza resistenza, richiederà ai soldati governativi un robusto tributo di sangue.
«Noi curdi arriveremo fino alle porte della città, collaborando alla riconquista dei villaggi tutto intorno», aggiunge Babar, «lo stesso faranno gli sciiti. La parte finale dell’operazione sarà affidata ai militari sunniti e alla polizia». La decisione conferma quello che anche ieri a Erbil ha ribadito Filippo Grandi, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati: sia il governo nazionale di Bagdad che quello regionale del Kurdistan hanno preso l’impegno solenne di tutelare i civili. In questo è compreso anche lo sforzo a evitare possibili abusi sulla popolazione da parte degli stessi “liberatori” sciiti, in passato – conferma anche Amnesty International – pronti a commettere violenze sui sunniti come rappresaglia per le gesta dei miliziani di Isis.
In realtà i civili di Mosul sono il grande nodo della battaglia in corso. La loro presenza in città limita moltissimo gli attacchi aerei: a Mosul non potrà ripetersi quello che è successo a Sinjar, che era stata abbandonata dagli yazidi e dopo la conquista dell’Isis era stata quasi rasa al suolo dalle bombe della coalizione, per garantire il successo all’offensiva di terra dei Peshmerga. Raid che ieri invece sono partiti grazie ai caccia turchi, un’azione contestata dal governo iracheno vicino all’Iran.
Lo scontro che si prepara nel capoluogo di Ninive sarà una battaglia urbana, gestita dagli iracheni con il sostegno tecnologico degli americani, le immagini dei droni e i sistemi di rilevamento termico. Ma sarà un’avanzata lenta e tormentata. È già arrivata anche la conferma, dai villaggi liberati e da qualche coraggioso testimone raggiunto al telefono nella città assediata, che gli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi effettivamente stanno usando la popolazione come scudi umani, facendo spostare intere famiglie nelle zone più esposte agli attacchi. Non bastava la certezza che l’Isis prima di abbandonare un territorio lo semina di trappole esplosive, in queste ore si è sparsa la voce che a Mosul possano essere conservate anche armi chimiche, probabilmente ordigni con cloro e iprite, destinati a rendere un inferno l’avanzata dei soldati governativi e allo stesso tempo rendere ancora più sanguinoso il bilancio dei civili uccisi.
L’Unhcr e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni sottolineano che anche in uno scenario ottimista, con perdite modeste, ci sarà da affrontare il “dopo”, con l’enorme quantità di sfollati. Centomila persone potrebbero lasciare Mosul per gli scontri, finendo per aggravare l’emergenza rifugiati in Siria e Turchia. Anche se la riconquista di Mosul sarebbe, come sottolineano Renzi e Obama, un passo significativo per la scomparsa del Califfato, la presenza dei civili dà una carta importante agli integralisti. L’Isis sa di non poter vincere questa battaglia, ma può rendere la vittoria altrui molto molto dolorosa.


Quei tunnel sotto la scuola dove i ribelli contendono la Città Vecchia al regime

Aleppo I russi sospendono i bombardamenti un passo verso la tregua umanitaria
ALBERTO STABILE Rep
ALEPPO. Il soldatino lealista, un coscritto di vent’anni con gli occhi chiari degli alawiti e le maniere gentili ereditati da una famiglia borghese, sposta una pietra che nasconde un buco sul muro diroccato e, nello specchio piazzato strategicamente per guardare fuori senza essere visti, ecco riflettersi l’immagine della vallata, le case di fronte, deserte, e sopra le case ecco sventolare le bandiere nere di Jabhat al Nusra. La differenza, rispetto a qualche mese fa, è che, adesso, i governativi hanno preso il controllo di Feràfira, il quartiere che domina il lato sud della Città Vecchia, mentre i ribelli jihadisti sono dovuti arretrare di un centinaio di metri.
È una guerra di posizione quella che si combatte, metro dopo metro, dentro le mura della Città Vecchia, l’antico Suq delle meraviglie, forse il più bello del Medio Oriente, sovrastato dall’inespugnabile Cittadella. Soltanto che, anziché nelle rispettive trincee, come succedeva nella Prima Guerra mondiale, le due schiere nemiche sono sparse e annidate fra le rovine di questo gioiello urbanistico dell’antichità, che venne dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità e la guerra civile siriana ha ridotto ad un ammasso di macerie taglienti e maleodoranti.
Qui, nel silenzio cimiteriale che avvolge le lunghe strade dove si aprivano le porte di migliaia di botteghe e le sontuose piazze dove si affacciavano i palazzi dei Pashà, i governativi da un lato e i ribelli dall’altro possono sentirsi muovere, respirare. Ed è stato, infatti, grazie ad un lieve rumore che affiorava dal sottoterra, il rumore come di un leggero scavare, che i soldati lealisti si sono messi in allarme. Una piccola telecamera collegata ad una sonda fatta scendere nel sottosuolo ha confermato i sospetti: i jihadisti stavano preparando una sorpresa, un attentato gigantesco.
Fino ad un paio di mesi fa, a Faràfira, le due linee nemiche erano distanti soltanto la larghezza della strada che attraversava il complesso della scuola “Abdel Amid Zarawi”, edificio scolastico ricavato da un’antica chiesa sconsacrata. Nella parte antica della scuola si erano asserragliati i ribelli, in quella ristrutturata più di recente, i militari fedeli ad Assad.
«Abbiamo teso un agguato a quelli che lavoravano di sotto – racconta l’ufficiale che ha guidato la battaglia – ma si sono rintanati nuovamente nel tunnel. A quel punto non avevamo altra scelta che farlo saltare». A guardare nel cortile della scuola-chiesa sembra che un terremoto abbia sconvolto l’edificio, lasciando al posto del portico e delle aiuole un ammasso di pietre, travi, terriccio.
Nel corpo a corpo che ne è seguito, i ribelli, colti di sorpresa, hanno subito forti perdite. La battaglia è durata due mesi, e si è conclusa una decina di giorni fa. Per i governativi il successo è stato duplice. Oltre a conquistare il quartiere di Faràfira, dalla preziosa posizione strategica, i militari lealisti hanno acquisito una certezza sul campo di battaglia: la guerra di posizione che si è sviluppata in Città Vecchia non si combatte soltanto casa per casa, strada per strada, al livello superiore, ma è uno scontro che straripa inevitabilmente anche nella miriadi di sotterranei, condotte, cisterne, gallerie scavati per collegare palazzi, moschee e chiese di una Città vecchia strabiliante tanto sopra quando sotto le sue fondamenta. Non a caso sono stati fatti saltare altri due tunnel.
Nella giornata in cui abbiamo potuto visitare il sito di quest’ultima battaglia, sui tetti della Città Vecchia, un gruppo di generali russi sempre più interni ai vari scenari del conflitto svolgeva un dettagliato sopralluogo.
Ieri mattina, improvvisamente, il panorama della guerra nei quartieri orientali è cambiato. Non più la terra scossa dai boati poderosi delle bombe, non più il cupo, rombo degli aerei, non più le colonne di fumo che si alzavano dopo ogni schianto. La Russia e la Siria hanno deciso unilateralmente di sospendere i bombardamenti su Aleppo Est, a partire dalla dieci del mattino, come misura “di buona volontà”, secondo il portavoce del Cremlino, in vista di una “pausa umanitaria” di otto ore che dovrebbe scattare giovedì 20.
Evidentemente, anche a giudizio di Putin, che oggi vedrà a Berlino Merkel e Hollande anche per parlare di Siria, quello che si sta facendo per riallacciare in filo spezzato del dialogo è troppo poco per usare la parola “tregua”. Tuttavia, le aspettative sono grandi. Quello che interessa alla Russia, innanzitutto, è mettere in piedi un meccanismo che permetta di separare i combattenti del Fonte al Nusra, oggi rinominatosi Fronte per la Conquista del Levante, e i loro affini, dai ribelli cosiddetti “moderati” appoggiati dagli Stati Uniti e dai loro alleati nella regione. L’altro obbiettivo non meno importante è riallacciare il filo del negoziato con gli Stati Uniti dimostrando di poter alleviare le sofferenza della popolazione civile di Aleppo Est. Ma le organizzazioni umanitarie che dovrebbero essere mobilitate per la riuscita dell’iniziativa russa hanno fatto sapere che, finora, non hanno ricevuto nessuna delle garanzie essenziali richieste in una operazione così difficile e rischiosa.

lo stato islamico si trasforma per superare le sconfitte militari 
Lorenzo Vidino  Busiarda
Le ultime notizie da Iraq e Siria fanno giustamente pensare che la parabola dello Stato Islamico sia in fase calante. L’imminente avanzata su Mosul, ultima delle città irachene ancora controllata dal Califfo, e in Siria la perdita di Dabiq - luogo della battaglia finale tra Bene e Male nella simbologia dello gruppo - fanno intravedere, pur tra mille incertezze, la fine del Califfato come entità territoriale. Mille fattori, da alcuni puramente locali ad altri dettati dai giochi delle grande potenze mondiali, influenzeranno quello che succederà nei territori attualmente controllati dal Califfo dopo la sua caduta. Ma una cosa sola pare certa: almeno nel breve termine vedremo un periodo di caos su tre livelli: locale, regionale e globale.
A livello locale, è difficile pensare che la perdita di territorio equivalga alla totale evaporazione dello Stato Islamico. In una sorta di 8 settembre in salsa mediorientale molti dei suoi soldati si toglieranno la divisa e getteranno le armi, e molti di loro non sfuggiranno a sanguinose ritorsioni. Ma è molto probabile che il gruppo ritornerà a essere quello che era agli albori, e cioè una letale forza insorgente che, pur non riuscendo più a controllarlo, insanguinerà il territorio con attacchi terroristi e azioni mordi e fuggi. Sfruttando le tensioni settarie che persisteranno anche dopo la fine del Califfato, i miliziani dello Stato Islamico proveranno a destabilizzare le regioni che le già deboli e frammentarie truppe della quanto mai eterogenea coalizione anti-Isis avranno recuperato.
Come già evidente, altri soldati del Califfato lasceranno Siria e Iraq. Alcuni si ripareranno negli Stati delle regione, Turchia, Giordania e Libano in primis. Non è difficile prevedere il potenziale sconquasso che porteranno nei già fragili equilibri locali. Altri reduci cercheranno di replicare l’esperienza dello Stato Islamico in territori dove altri gruppi jihadisti sono attivi e dove i governi locali stentano ad esercitare un seppur minimo controllo: Libia, Yemen, Somalia, Sahel, Sinai.
Altri ancora torneranno nei propri paesi di origine. Solo alcuni tra gli ex foreign fighter del Califfato decideranno di imbracciare le armi anche una volta tornati a casa. Ma se anche solo una minoranza tra le decine di migliaia di jihadisti di ritorno lo facesse le conseguenze sarebbero devastanti. Si stima, per esempio, che circa settemila tunisini abbiano combattuto in Siria. Cosa succederebbe se anche solo duemila, dopo anni di esperienza sui campi di battaglia siriani, decidessero di attaccare il debole equilibrio democratico di quello che è considerato l’unico successo della cosiddetta Primavera Araba? O che impatto avrebbe sulla Russia il ritorno dei circa tremila militanti ceceni e caucasici, assetati di vendetta contro Putin per il suo supporto al regime di Bashar al-Assad?
Da questo ipotetico ma alquanto concreto scenario non è esclusa nemmeno l’Europa. Alcune stime parlano di ottomila foreign fighter europei. Alcuni verranno uccisi nelle ultime battaglie del Califfato. Altri sceglieranno di continuare il proprio jihad in altri scenari mediorientali. Ma tanti torneranno in Europa. Tra questi molti saranno arrestati in Turchia o appena metteranno piede in territorio Schengen. Ma, come gli attentati di Parigi e Bruxelles, compiuti da attentatori che in gran numero erano entrati in Europa evadendo il controllo dell’intelligence europea, hanno dimostrato, i confini del nostro continente sono facilmente penetrabili. Che siano parte di un commando mandato dalle gerarchie dello Stato Islamico o che agiscano autonomamente, si può certo ipotizzare che molti ex foreign fighter porteranno con loro il conflitto una volta tornati. Vendicare la caduta del Califfato sarà la forza motivante per molti jihadisti europei, siano essi di ritorno dal Califfato o semplici simpatizzanti autoctoni.
Lo Stato Islamico quindi, anche se dovesse perdere tutto il territorio che ora controlla, non si scioglierà come neve al sole ma cambierà tattiche ed ambito geografico (rimanendo ovviamente attivo anche online). I territori che controllava e molti altri nella regione rimangono afflitti da drammatiche dinamiche di conflitti settari, malgoverno, povertà, fanatismo religioso e contrastanti interessi geopolitici. Se è giusto accogliere la possibile caduta di Mosul come una buona notizia, non ci si deve fare troppe illusioni su quello che verrà dopo.
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Le cupole di Putin all’ombra della torre Eiffel La strategia del Presidente russo per influenzare l’Occidente Leonardo Martinelli  Busiarda
La Torre Eiffel, la Senna che scorre lì davanti, i bateaux-mouches che si succedono uno dietro l’altro: ecco la Parigi da cartolina. Ma nell’inquadratura di tante foto scattate dai turisti in arrivo da tutto il mondo vanno ormai inserite anche cinque cupole a bulbo, rigorosamente dorate: quelle della nuova cattedrale ortodossa, in bella vista a poche centinaia di metri dal monumento simbolo della ville lumière. Qui, in quello che le malelingue chiamano «Kremlin-sur-Seine», dovevano palesarsi oggi Vladimir Putin e François Hollande, a inaugurare quello che all’ambasciata russa definiscono pomposamente «Centro spirituale e culturale ortodosso».
Niente da fare: Hollande per una volta si è impuntato, rifiutando di partecipare alla cerimonia, ora che i caccia russi bombardano Aleppo e la popolazione civile. Putin, stizzito, ha deciso di cancellare la trasferta. Intorno al complesso, in realtà, ci sono ancora le transenne tipiche di un cantiere. Alcuni operai assicurano: «L’esterno è pronto: all’interno, invece, i lavori sono indietro». Il prossimo 4 dicembre il patriarca Kirill (che ha definito Putin «un miracolo di Dio») dovrebbe venire a celebrare la prima cerimonia «ma per terminare i 3mila metri quadrati di affreschi e mosaici commissionati ad artigiani russi – assicurano fonti vicine all’ambasciata - ci vorranno almeno due anni». Il progetto vuole offrire ai russi di Parigi un luogo di culto legato all’autorità politica di Mosca. Per progettare il nuovo centro (comprende anche un auditorium, una scuola franco-russa, una caffetteria, per il momento vuoti) il Cremlino, che ha finanziato tutto (150 milioni di euro finora), non ha badato a spese, ricorrendo all’archistar Jean-Michel Wilmotte.
Hollande si è rifiutato di metterci piede, ma lo Stato francese ha fatto di tutto perché le cinque cupole dorate si stagliassero sotto il cielo di Parigi. Già dal 2007 il presidente Nicolas Sarkozy favorì la vendita del terreno e degli edifici che vi sorgevano (pubblici, di Météo France) alla Russia di Putin. Nei mesi scorsi il Parlamento ha inserito nella legge «Sapin II» (consacrata alla «modernizzazione della vita economica della Francia») una strana normativa che estende l’immunità diplomatica «a tutti i beni collaterali, proprietà di uno Stato straniero». Nei corridoi dell’Assemblea nazionale lo chiamavano «emendamento Putin».
I deputati sono in maggioranza socialisti. Ma le amicizie francesi di Putin (tantissime) sono trasversali, anche se più concentrate a destra. «La sua Russia si presenta in Francia e nell’Occidente come il baluardo dei valori familiari e della cristianità, anche contro l’islam e il terrorismo», osserva Cécile Vaissié, esperta di studi russi, docente alla seconda università di Rennes. E che ha da poco pubblicato «Le reti del Cremlino in Francia» (edizioni Les Petits Matins). Putin è così diventato un riferimento per l’estrema destra di Marine Le Pen (tanto più che il Front National finanzia le sue campagne con i prestiti ottenuti da banche russe «compiacenti») e per personaggi legati all’integralismo cattolico come Philippe De Villiers. «Ma risente del fascino del presidente russo anche una certa Francia tradizionalista, perlopiù di provincia, cattolica ma non estremista», continua la Vaissié. «L’altro messaggio inviato dal presidente russo è quello anti-americano e anti-europeista», conclude la Vaissié. E lì «abboccano» anche Jean-Luc Mélenchon, dell’estrema sinistra, e altri esponenti della gauche. La venuta di Putin sulle rive della Senna doveva consacrare il suo appeal su così tanta Francia. Sarà per un’altra volta.
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