L’odore acre del petrolio bruciato si mescola a quello delle stoppie dei campi di grano. La piana fra Kalak e Mosul è un ondeggiare giallo con piccole chiazze di verde, un po’ di granturco ancora da tagliare. Dopo il ponte sul fiume Khaser, provvisorio perché quello della superstrada da Erbil l’ha fatto saltare in aria l’Isis, si cominciano a sentire le raffiche brevi e secche. I Peshmerga stanno setacciando villaggi e borgate fra Khaser e Bartella. Dopo la grande avanzata di lunedì hanno passato due brutte nottate. Le cellule islamiste rimaste indietro, imboscate nelle case sparse, li hanno colpiti alle spalle con auto kamikaze, cecchini. Ora i guerriglieri curdi cercano di stanare gli ultimi irriducibili.
Il capitano Ferman Hamit ha gli occhi rossi di chi dorme due ore per notte. La sua compagnia si è piazzata ai margini del villaggio di Sharkhouli. Il grosso dei blindati se ne sta mezzo chilometro più indietro, protetto da un incrocio e un gruppo di case distrutte. Il capitano è in maglietta, qualche suo uomo si è buttato all’ombra di un gippone e dorme con il kalashnikov a fianco. La disciplina si è un po’ rilassata. La stanchezza pesa. I blindati sono già stati circondati da muri di terra. Due grossi escavatori stanno costruendo una trincea alta un paio di metri. «Così le auto kamikaze non potranno più prenderci di sorpresa», spiega Hamit. Fa il modesto, ma poi i suoi uomini spiegano che è stato lui, l’altra notte, a fermare un’auto corazzata lanciata a tutta velocità, con il lanciarazzi: «Un colpo da 50 metri». A pochi secondi dalla morte certa.
Apache americani
L’auto, un furgoncino annerito, è ancora lì. Il cadavere del kamikaze l’hanno appena portato via. Poco distante c’è un «mostro», un pick-up corazzato con spesse piastre di acciaio saldate, catturato prima che gli islamisti potessero usarlo. Quello resisteva «anche ai razzi Rpg». Più a Sud, dove opera l’esercito regolare, sono stati gli elicotteri Apache americani a eliminare i «mostri» kamikaze. Hamit è nei Peshmerga dal 2014. Si è arruolato dopo la caduta di Mosul. Nato a Kalak, se li è visti alle porte. Quell’estate era a Falluja, tenente nell’esercito iracheno. Ora, ammette, le cose vanno bene ma due anni fa «i soldati sono scappati senza combattere». E lui ha cambiato casacca, anche se si sente «curdo e iracheno». Ha seguito un corso di addestramento con gli americani. Tecniche anti-guerriglia e anti-bombe improvvisate. Un bagaglio che ora sfrutta appieno. Perché «l’area è piena di trappole» e l’altra notte i suoi uomini «si sono trovati fra due fuochi». Per questo le case vengono perquisite una per una. E si spara al minimo rumore. Di civili non ce n’è neanche più uno.
Armi chimiche
I combattenti dell’Isis sono a meno di un chilometro, dietro una fila di capannoni agricoli dai tetti in lamiera. Appena fa buio, per non farsi illuminare, lanciano razzi. Un’altra insidia. Perché fonti di intelligence «affidabili» dicono che i jihadisti hanno accumulato a Mosul un arsenale di armi chimiche, soprattutto iprite. «Le hanno usate già 15 volte contro i Peshmerga - rivela il generale di brigata Hajar O. Ismail - e siamo sicuri che proveranno a usarle di nuovo». Probabilmente con i razzi, che hanno una portata di qualche chilometro. Il generale prevede che le operazioni di ripulitura dei villaggi dureranno un paio di settimane. Poi la battaglia dentro la città, «un paio di mesi forse». Un passo lento confermato dal portavoce dell’offensiva irachena, il generale Yahya Rasul: «Non abbiamo fretta di arrivare a Mosul».
I soldati sono più ottimisti: «Isis è già in fuga verso Raqqa», scherzano. Le voci sono contraddittorie. Per Baghdad la leadership ha già lasciato Mosul e «restano solo i combattenti stranieri che non possono mescolarsi alla popolazione». Altri rumours dicono che il califfo Abu Bakr al-Baghdadi è rimasto in città. Ha piazzato ai posti di comando «gli ufficiali più duri» e prepara l’Apocalisse. Ridurre Mosul a un cumulo di macerie, peggio di Falluja e Ramadi. Agli abitanti è stato ordinato di non muoversi dalle case. I depositi di munizioni, anche chimiche, sono stati dispersi negli interrati dei palazzi. Se i jihadisti si trincerano ci vorranno raid pesanti. Ma sarebbe un massacro. Anche perché pochissimi civili finora sono riusciti a scappare.
Il campo profughi
La Ong «Save the Children» ha calcolato in cinquemila, moltissimi bambini, quelli che finora sono fuggiti verso Ovest, verso le zone della Siria controllate dai curdi dello Ypg. Un viaggio «in condizioni terribili». Verso Est, Erbil, invece l’ondata ancora non si è vista. Vicino alla base militare di Khaser è quasi pronto un campo profughi, cofinanziato dall’Onu e dalla Ong «Barzani Charity Foundation». Le tende bianche e blu, dal tetto semicircolare, sono già coperte di polvere. Gli operai stanno finendo di allestire docce e bagni in comune, uno ogni quattro famiglie. «Ci aspettiamo l’arrivo di cinquemila profughi - spiega Badreddine Arki, il direttore dei lavori. Qui c’è posto per mille famiglie e quindi dovremmo reggere il flusso. Fra dieci giorni sarà tutto finito». Più o meno quando ci sarà l’assalto alle trincee della seconda linea di difesa dell’Isis, ai margini dell’abitato di Mosul. Il fumo del petrolio e dei copertoni in fiamme, una barriera per ostacolare i raid aerei, indica la linea. Il Califfo prepara un finale di ferro e di fuoco.
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Putin rilancia il dialogo sull’Ucraina La Merkel lo sfida sui raid in Siria Vertice con Poroshenko e Hollande a Berlino. Resta l’ipotesi delle sanzioni Alessandro Alviani Marco Bresolin Busiarda 20 10 2016
Dopo 4 anni di assenza, il leader russo Vladimir Putin torna a Berlino per incontrare il presidente ucraino Petro Poroshenko, la cancelliera Angela Merkel e il presidente francese François Hollande. Un incontro - il primo del cosiddetto «Quartetto di Normandia» da un anno a questa parte – convocato per fare il punto sull’implementazione dell’accordo di Minsk siglato un anno fa, che avrebbe dovuto riportare la pace nell’Est dell’Ucraina e che non ha del tutto rispettato le attese visto che nelle zone del Donbass si registrano ancora combattimenti e scontri.
Il primo ad abbandonare la scena è Poroshenko. Al termine dei colloqui, infatti, Putin, Merkel e Hollande si sono visti a tre per parlare di Siria. Sul tavolo l’incognita di possibili nuove sanzioni alla Russia come aveva fatto capire martedì la stessa cancelliera. Un antipasto di quello che verrà discusso al Consiglio europeo che si apre oggi a Bruxelles.
Tra gli argomenti all’ordine del giorno dei capi di Stato e di governo del Vecchio Continente rientra anche la questione dei rapporti con la Russia, un tema messo in agenda su iniziativa dell’Italia, che aveva avanzato una richiesta in questo senso in estate, prima che precipitasse la situazione ad Aleppo.
Nelle conclusioni finali del vertice, rivelano fonti diplomatiche europee, dovrebbe entrare anche un riferimento alle relazioni con la Russia e alla crisi siriana, mentre in questa sede non dovrebbe essere citata l’ipotesi di sanzioni contro Mosca. Fonti del governo tedesco spiegano che a cena è prevista una «discussione aperta» sulla Russia. Tuttavia sulle sanzioni non arriverà «nessuna decisione», il che significa anche che l’incontro «non toglierà dal tavolo nessuna opzione», mettono in chiaro da Berlino. «Tra le opzioni sul tavolo c’è anche quella delle sanzioni e crediamo che resterà sul tavolo anche dopo il vertice», nota una fonte dell’esecutivo federale.
L’ipotesi delle sanzioni continua a dividere i Paesi membri, ma anche gli stessi governi al loro interno: mentre Merkel appare ad esempio possibilista, il suo ministro degli Esteri, Steinmeier, è scettico, in quanto convinto che non aiuterebbero la popolazione civile. E non solo: proprio ieri il capogruppo dei popolari all’Europarlamento, Manfred Weber, quello dei liberali, Guy Verhofstadt e quella dei Verdi, Rebecca Harms, hanno inviato una lettera congiunta al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, per chiedere sanzioni più dure contro Mosca.
A Bruxelles c’è attesa per la relazione di Merkel e Hollande, che riferiranno del loro incontro avuto ieri a Berlino con Putin e Poroshenko. La cancelliera ha sempre chiarito di voler affrontare non solo la crisi ucraina, ma anche la situazione in Siria nel caso in cui fosse riuscita a concordare un simile incontro, aveva fatto sapere in mattinata il suo portavoce. Secondo il quale Merkel non ha indicato la tregua umanitaria ad Aleppo (prolungata ieri da otto a undici ore) come precondizione per il faccia a faccia. Per Berlino è fondamentale non rompere il filo del dialogo. La Russia resta «un partner strategico» con cui vogliamo e dobbiamo continuare a collaborare, ragiona una fonte del governo tedesco. La Ue, continua, è disposta a portare avanti i colloqui con Mosca, al momento «abbiamo grosse divergenze», ma «tutti hanno interesse a tornare a un rapporto migliore con la Russia». A tenere alta la tensione alla vigilia ci hanno pensato tra l’altro le accuse di Mosca al Belgio di aver condotto un raid aereo nei pressi di Aleppo nel quale sono rimaste uccise sei persone.
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Aleppo e Mosul, due facce dello stesso conflitto. E la Turchia fa da “ponte” bellico
Medio Oriente. In Iraq governo e peshmerga avanzano più lentamente, l’Isis usa i kamikaze come difesa e i turchi mandano i caccia. In Siria la Russia propone da sola una tregua ma le opposizioni rifiutano di slegarsi da al-Nusra di Chiara Cruciati il manifesto 19.10.16
Aleppo e Mosul sono facce della stessa medaglia, quella della ridefinizione dei confini e le aree di influenza in Medio Oriente. Difficile separare la guerra civile in corso in Siria con l’operazione lanciata lunedì su Mosul: gli attori in campo sono quasi gli stessi, le conflittuali agende anche. Uno dei “ponti” tra le due città è la Turchia e l’interventismo bellico scelto da Erdogan come strategia politica.
Ieri il primo ministro turco Yildirim ha annunciato il nuovo livello raggiunto dalle truppe turche in Iraq: «La nostra aviazione prende parte alle operazioni aeree della coalizione a Mosul». Ora, dunque, non ci sono solo un migliaio di soldati a dieci chilometri dalla città ma anche i caccia. L’obiettivo è avere un ruolo di primo piano nel futuro della città, facendosi aprire la porta dalla Erbil del presidente Barzani, ed escludere le milizie sciite legate all’Iran.
Un’agenda palese che provoca la reazione del religioso sciita Moqtada al-Sadr: il leader delle Brigate della Pace ha chiamato alla protesta davanti all’ambasciata turca a Baghdad e ieri in 10mila hanno risposto all’appello. I manifestanti hanno chiesto il ritiro turco dalla base di Bashiqa e una posizione più ferma del proprio governo in merito.
Ma Baghdad preferisce una soluzione più morbida: una delegazione governativa volerà in Turchia nel fine settimana per spegnere le tensioni tra i due paesi. Sul tavolo delle offerte Baghdad potrebbe mettere il freno alle milizie sciite, incorporate nell’esercito e da questo stipendiate perché essenziali sul piano militare, ma problematiche su quello settario.
Ieri è stata Amnesty a tornare sugli abusi commessi contro le comunità sunnite liberate dall’Isis e finite dentro un altro incubo. Se dovesse succedere anche a Mosul, e Baghdad lo sa bene, le tensioni settarie potrebbero far crollare la speranza di mantenere intatti i confini nazionali, a favore delle forze che premono per una divisione del paese (Stati Uniti e Turchia in testa).
Sul campo, intanto, le operazioni rallentano: la 9° Divisione dell’esercito iracheno si è avvicinata alla città cristiana di Qaraqosh (da cui i residenti fuggirono in una sola notte verso il Kurdistan iracheno) e il fronte anti-Isis ha liberato una ventina di villaggi a sud, dove operano i governativi, e ad est, dove avanzano i peshmerga. Ma si trova davanti alla resistenza islamista nella periferia est di Mosul, portata avanti con una decina di attacchi kamikaze.
In città il “califfato” sta innalzando barricate e riempiendo le trincee di benzina, a cui dare fuoco per rallentare la futura avanzata governativa. Ma si prepara anche a fuggire, raggiunto il punto di non ritorno: secondo il piano della coalizione internazionale, i fronti di attacco saranno a nord, sud e est, lasciando aperto il lato occidentale. Una sorta di corridoio per la fuga, l’evacuazione dei 3-5mila miliziani presenti, che saranno naturalmente diretti verso la Siria come già accade da settimane.
La denuncia arriva anche da Damasco che accusa la coalizione di aver previsto un passaggio sicuro degli islamisti dentro il territorio siriano. Tutti verso Raqqa dove, più che ingabbiati, potrebbero essere liberi di rafforzare le difese della loro “capitale”, per la cui liberazione i progetti non sembrano concretizzarsi. Per gli attori della guerra civile siriana è più importante Aleppo, la città che deciderà il conflitto.
La Russia continua a ballare da sola: dopo il fallimentare incontro di Losanna, lo scorso sabato, Mosca ha deciso insieme a Damasco di interrompere i raid sui quartieri orientali in mano alle opposizioni: nessun bombardamento in vista della pausa militare di otto ore prevista per domani. Due gli obiettivi, dice il Ministero della Difesa russo: permettere ai civili di uscire in sicurezza dalla zona est e garantire il passaggio dei miliziani che si arrenderanno.
Mosca si fa forte dell’accordo che avrebbe raggiunto con il fronte anti-Assad (Turchia, Arabia Saudita e Qatar) perché costringa i gruppi ribelli alleati a rompere le relazioni con l’ex al-Nusra. A renderlo noto è l’ambasciatore russo all’Onu che lunedì ha riportato di un accordo tra i tre paesi, la Russia e gli Stati Uniti: «Hanno espresso la loro intenzione a lavorare con le opposizioni moderate così che si separino da al-Nusra», ha detto Churkin.
Ma ieri è giunta la reazione delle opposizioni: Ahrar al-Sham, gruppo salafita invitato al negoziato di Ginevra, e Fastaqim, parte dell’Esercito Libero Siriano, hanno rifiutato la proposta e negato qualsiasi ritiro da Aleppo. Dichiarazioni che portano l’Onu a precisare di non poter intervenire con corridoi umanitari o consegna degli aiuti visto il mancato accordo tra le parti.
Rifiutano anche Washington e Londra: Usa e Gran Bretagna hanno rigettato l’offerta russa di una pausa per riavviare il dialogo perché «troppo breve e poco credibile».
Le ultime notizie da Iraq e Siria fanno giustamente pensare che la parabola dello Stato Islamico sia in fase calante. L’imminente avanzata su Mosul, ultima delle città irachene ancora controllata dal Califfo, e in Siria la perdita di Dabiq - luogo della battaglia finale tra Bene e Male nella simbologia dello gruppo - fanno intravedere, pur tra mille incertezze, la fine del Califfato come entità territoriale. Mille fattori, da alcuni puramente locali ad altri dettati dai giochi delle grande potenze mondiali, influenzeranno quello che succederà nei territori attualmente controllati dal Califfo dopo la sua caduta. Ma una cosa sola pare certa: almeno nel breve termine vedremo un periodo di caos su tre livelli: locale, regionale e globale.
A livello locale, è difficile pensare che la perdita di territorio equivalga alla totale evaporazione dello Stato Islamico. In una sorta di 8 settembre in salsa mediorientale molti dei suoi soldati si toglieranno la divisa e getteranno le armi, e molti di loro non sfuggiranno a sanguinose ritorsioni. Ma è molto probabile che il gruppo ritornerà a essere quello che era agli albori, e cioè una letale forza insorgente che, pur non riuscendo più a controllarlo, insanguinerà il territorio con attacchi terroristi e azioni mordi e fuggi. Sfruttando le tensioni settarie che persisteranno anche dopo la fine del Califfato, i miliziani dello Stato Islamico proveranno a destabilizzare le regioni che le già deboli e frammentarie truppe della quanto mai eterogenea coalizione anti-Isis avranno recuperato.
Come già evidente, altri soldati del Califfato lasceranno Siria e Iraq. Alcuni si ripareranno negli Stati delle regione, Turchia, Giordania e Libano in primis. Non è difficile prevedere il potenziale sconquasso che porteranno nei già fragili equilibri locali. Altri reduci cercheranno di replicare l’esperienza dello Stato Islamico in territori dove altri gruppi jihadisti sono attivi e dove i governi locali stentano ad esercitare un seppur minimo controllo: Libia, Yemen, Somalia, Sahel, Sinai.
Altri ancora torneranno nei propri paesi di origine. Solo alcuni tra gli ex foreign fighter del Califfato decideranno di imbracciare le armi anche una volta tornati a casa. Ma se anche solo una minoranza tra le decine di migliaia di jihadisti di ritorno lo facesse le conseguenze sarebbero devastanti. Si stima, per esempio, che circa settemila tunisini abbiano combattuto in Siria. Cosa succederebbe se anche solo duemila, dopo anni di esperienza sui campi di battaglia siriani, decidessero di attaccare il debole equilibrio democratico di quello che è considerato l’unico successo della cosiddetta Primavera Araba? O che impatto avrebbe sulla Russia il ritorno dei circa tremila militanti ceceni e caucasici, assetati di vendetta contro Putin per il suo supporto al regime di Bashar al-Assad?
Da questo ipotetico ma alquanto concreto scenario non è esclusa nemmeno l’Europa. Alcune stime parlano di ottomila foreign fighter europei. Alcuni verranno uccisi nelle ultime battaglie del Califfato. Altri sceglieranno di continuare il proprio jihad in altri scenari mediorientali. Ma tanti torneranno in Europa. Tra questi molti saranno arrestati in Turchia o appena metteranno piede in territorio Schengen. Ma, come gli attentati di Parigi e Bruxelles, compiuti da attentatori che in gran numero erano entrati in Europa evadendo il controllo dell’intelligence europea, hanno dimostrato, i confini del nostro continente sono facilmente penetrabili. Che siano parte di un commando mandato dalle gerarchie dello Stato Islamico o che agiscano autonomamente, si può certo ipotizzare che molti ex foreign fighter porteranno con loro il conflitto una volta tornati. Vendicare la caduta del Califfato sarà la forza motivante per molti jihadisti europei, siano essi di ritorno dal Califfato o semplici simpatizzanti autoctoni.
Lo Stato Islamico quindi, anche se dovesse perdere tutto il territorio che ora controlla, non si scioglierà come neve al sole ma cambierà tattiche ed ambito geografico (rimanendo ovviamente attivo anche online). I territori che controllava e molti altri nella regione rimangono afflitti da drammatiche dinamiche di conflitti settari, malgoverno, povertà, fanatismo religioso e contrastanti interessi geopolitici. Se è giusto accogliere la possibile caduta di Mosul come una buona notizia, non ci si deve fare troppe illusioni su quello che verrà dopo.
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Le cupole di Putin all’ombra della torre Eiffel La strategia del Presidente russo per influenzare l’Occidente Leonardo Martinelli Busiarda
La Torre Eiffel, la Senna che scorre lì davanti, i bateaux-mouches che si succedono uno dietro l’altro: ecco la Parigi da cartolina. Ma nell’inquadratura di tante foto scattate dai turisti in arrivo da tutto il mondo vanno ormai inserite anche cinque cupole a bulbo, rigorosamente dorate: quelle della nuova cattedrale ortodossa, in bella vista a poche centinaia di metri dal monumento simbolo della ville lumière. Qui, in quello che le malelingue chiamano «Kremlin-sur-Seine», dovevano palesarsi oggi Vladimir Putin e François Hollande, a inaugurare quello che all’ambasciata russa definiscono pomposamente «Centro spirituale e culturale ortodosso».
Niente da fare: Hollande per una volta si è impuntato, rifiutando di partecipare alla cerimonia, ora che i caccia russi bombardano Aleppo e la popolazione civile. Putin, stizzito, ha deciso di cancellare la trasferta. Intorno al complesso, in realtà, ci sono ancora le transenne tipiche di un cantiere. Alcuni operai assicurano: «L’esterno è pronto: all’interno, invece, i lavori sono indietro». Il prossimo 4 dicembre il patriarca Kirill (che ha definito Putin «un miracolo di Dio») dovrebbe venire a celebrare la prima cerimonia «ma per terminare i 3mila metri quadrati di affreschi e mosaici commissionati ad artigiani russi – assicurano fonti vicine all’ambasciata - ci vorranno almeno due anni». Il progetto vuole offrire ai russi di Parigi un luogo di culto legato all’autorità politica di Mosca. Per progettare il nuovo centro (comprende anche un auditorium, una scuola franco-russa, una caffetteria, per il momento vuoti) il Cremlino, che ha finanziato tutto (150 milioni di euro finora), non ha badato a spese, ricorrendo all’archistar Jean-Michel Wilmotte.
Hollande si è rifiutato di metterci piede, ma lo Stato francese ha fatto di tutto perché le cinque cupole dorate si stagliassero sotto il cielo di Parigi. Già dal 2007 il presidente Nicolas Sarkozy favorì la vendita del terreno e degli edifici che vi sorgevano (pubblici, di Météo France) alla Russia di Putin. Nei mesi scorsi il Parlamento ha inserito nella legge «Sapin II» (consacrata alla «modernizzazione della vita economica della Francia») una strana normativa che estende l’immunità diplomatica «a tutti i beni collaterali, proprietà di uno Stato straniero». Nei corridoi dell’Assemblea nazionale lo chiamavano «emendamento Putin».
I deputati sono in maggioranza socialisti. Ma le amicizie francesi di Putin (tantissime) sono trasversali, anche se più concentrate a destra. «La sua Russia si presenta in Francia e nell’Occidente come il baluardo dei valori familiari e della cristianità, anche contro l’islam e il terrorismo», osserva Cécile Vaissié, esperta di studi russi, docente alla seconda università di Rennes. E che ha da poco pubblicato «Le reti del Cremlino in Francia» (edizioni Les Petits Matins). Putin è così diventato un riferimento per l’estrema destra di Marine Le Pen (tanto più che il Front National finanzia le sue campagne con i prestiti ottenuti da banche russe «compiacenti») e per personaggi legati all’integralismo cattolico come Philippe De Villiers. «Ma risente del fascino del presidente russo anche una certa Francia tradizionalista, perlopiù di provincia, cattolica ma non estremista», continua la Vaissié. «L’altro messaggio inviato dal presidente russo è quello anti-americano e anti-europeista», conclude la Vaissié. E lì «abboccano» anche Jean-Luc Mélenchon, dell’estrema sinistra, e altri esponenti della gauche. La venuta di Putin sulle rive della Senna doveva consacrare il suo appeal su così tanta Francia. Sarà per un’altra volta.
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