sabato 15 ottobre 2016

Referendum e nostalgia del centrosinistra

Machiavelli e Tocqueville votano No 
Michele Prospero Manifesto 15.10.2016, 23:59 
Le bocche di fuoco dell’economia, della finanza, dell’impresa, delle tecnocrazie europee, persino i vertici dell’Inps, hanno enfatizzato il significato distruttivo che avrebbe il trionfo del no. Neppure la riesumazione del fantasma della repubblica dei soviet avrebbe ricevuto una delegittimazione così definitiva dalle agenzie del capitale. 
Il bello è che i populisti al potere si sbracciano per dire che «con il no nulla cambia». E poi però, proprio alla vittoria dei gufi, attribuiscono dei mutamenti radicali di sistema che abbracciano la politica e l’economia. Gli elettori potrebbero sentirsi tentati dalla liberatoria opportunità di far saltare i brutti giochi dominanti. 
A prendere in parola i poteri forti basta un No per dare l’assalto alle oligarchie e sconfiggere i registi dell’esclusione sociale, della contrazione della democrazia. Assaporando il colpo amaro della batosta, Renzi recupera una fissazione di Berlusconi e dice che chi è contro le sue riforme è spinto dal puro sentimento di odio (dovrebbe sapere che «farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe»). C’è spazio per l’odio in politica? 
Una delle coppie centrali nella analisi politica di Machiavelli è proprio lo scontro tra l’ambizione e l’odio. Alla volontà di potenza dei capi, che cercano di accumulare il dominio saltando ogni resistenza degli ordini e sfidando l’apertura al consenso, corrisponde una reazione dei molti, che cercano di preservare gli spazi di libertà e le occasioni di iniziativa popolare. 
In questo scontro di civiltà politica che oggi si verifica tra la volontà di potenza di una cricca di provincia e le appannate risorse della partecipazione di una moltitudine, che si attiva per preservare la fondazione democratica degli istituti parlamentari, si è creato una eterogenea coalizione che i governanti chiamano «l’armata brancaleone». 
Contro l’arroganza del comitato d’affari toscano si è realizzata una regola della politica. Tocqueville così la precisava: «In politica la comunanza degli odi costituisce quasi sempre la base delle amicizie». E la rottamazione, brandita da Renzi come una ideologia mistificante per estirpare la vecchia guardia, ha coagulato una infinità di odi che non aspettano altro che la dolce vendetta di dicembre. 
Non basta però il giusto sentimento di odio coltivato dai ceti politici più responsabili, quelli decapitati dall’ignoranza sovrana oggi chiusa nel palazzo, per abbattere un pernicioso sistema di potere che cerca nel plebiscito la via del consolidamento. Per vincere bisogna tradurre il sapere tecnico dei costituzionalisti in un linguaggio diffuso, con slogan che orientano la massa. A questo servono i sindacati, i politici, le firme dei pochi giornali non piegati, gli artisti non conformisti. 
Diceva Lenin che «la politica comincia laddove ci sono milioni di uomini che controllano le questioni con l’esperienza, la pratica, e non si fanno mai sedurre dai facili discorsi, non si lasciano mai deviare dal corso obbiettivo degli avvenimenti». Il governo populista di Renzi sta mobilitando ogni risorsa lecita e illecita per sopravvivere e con alluvionali spot nelle tv manipola i quesiti, falsifica le questioni e invita ad andare a votare come si conviene ad un plebiscito di regime. 
Negli scontri politici non bisogna farsi deviare dai sondaggi che annunciano la vittoria e inducono a sottovalutare la forza dell’avversario. Machiavelli suggeriva un precetto: «A volerti ingannare meno, ed a volere portare meno pericolo, quanto è più debole, quanto è meno cauto il nimico, tanto più dei stimarlo». Con minacce, promesse di bonus, scambi e manipolazioni Renzi può ancora risalire e inseguire un sogno di potere. Lo scontro perciò si radicalizza e produce sentimenti che lui chiama odio. 
L’odio contro un potere degenerato può vincere solo se lo sostiene la volontà di assestare un colpo al governo che ha strappato i diritti del lavoro, impoverito il pubblico impiego, condannato i giovani all’emarginazione, aziendalizzato la scuola e privatizzato la sanità. Grandi riforme che piacciono ai poteri forti oggi in angoscia per il duello sotto la neve.


NELLA POLITICA SOFFIA IL VENTO DELLA NOSTALGIA 
Luigi La Spina Busiarda 15 10 2016
Soffia un vento di nostalgia in politica. In quella estera, si torna a parlare di guerra fredda e si innalzano nuovi muri. In Italia, da una parte si difende a spada tratta la Costituzione promulgata nel 1948 e, dall’altra, si affolla il campo di chi vorrebbe il ritorno alla legge elettorale proporzionale, quella della prima Repubblica.
Gli storici ci insegnano che guardare al passato è sempre utile, anche per accorgersi che il tempo è, appunto, passato. Per accorgersi che sia quella Costituzione, naturalmente nella seconda parte, quella che impianta il modello istituzionale, sia il sistema per eleggere la rappresentanza popolare in Parlamento erano perfettamente funzionali al tipo di democrazia che, di fatto, era sorta dalla lotta antifascista nel dopoguerra, quella che si fondava sui partiti. Partiti direttamente ispirati da precise ideologie, fortemente radicati sul territorio, legati a movimenti sindacali di cui spesso erano cosiddette «cinghie di trasmissione», assistiti da associazioni culturali, circoli ricreativi e sportivi che alimentavano e diffondevano una diffusa partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Uno sguardo, pure superficiale, all’attuale panorama del nostro Parlamento evidenzia una realtà completamente diversa. L’unico partito che si poteva considerare erede, più o meno legittimo, di quella storia novecentesca, il Pd, è ormai irrimediabilmente non solo spaccato negli orientamenti politici, ma addirittura non rispettoso né delle elementari regole di convivenza interna, né di un corretto costume di rapporti umani. A destra, solo l’indiscutibile carisma e il discutibile potere finanziario e mediatico di Berlusconi potrebbero tenere uniti liberaldemocratici alla Parisi e populisti-nazionalisti alla Salvini. Una ipotesi che proprio il tempo ormai esclude.
Il movimento di Grillo, infine, giustamente rifiuta di definirsi un partito, né qualcuno, anche alla luce del ritorno del fondatore alla guida solitaria e autocratica della sua creatura politica, potrebbe azzardarsi a ritenerlo tale.
Se lo sguardo, poi, lo rivolgiamo, fuori dal Parlamento, alla vita privata e pubblica degli italiani, il confronto col passato è ancor più improponibile. L’attuale cultura politica, non più sorretta dalle direttive di leader autorevoli e credibili, è alimentata, per la maggioranza dei cittadini, da una parte, attraverso un sempre più noioso chiacchiericcio televisivo tra soliti noti e, dall’altra, da una feroce e rozza bagarre, a suon di insulti, dei social network. Così, la cosiddetta partecipazione popolare alla nostra democrazia è diventata o un ipocrita slogan del politicamente corretto o una furbesca trappola per strumentalizzare ingenui elettori. Risultato di questa sommaria descrizione della realtà politica dell’Italia d’oggi, è l’evidente scomparsa della democrazia rappresentativa parlamentare, di cui resta solo la forma costituzionale senza quella vera sostanza che la sosteneva. 
Ecco perché si può essere legittimamente convinti che la riforma costituzionale Renzi-Boschi sia in molte parti sbagliata e, in alcune parti, sicuramente è pasticciata e risente di troppi compromessi. Come è altrettanto legittimo pensare che, comunque, sia meglio di nessuna riforma e che, se fosse bocciata, sarebbe molto difficile vararne una migliore. Ma, come ha detto il presidente Mattarella, nel suo discorso al Nato Defense College pubblicato dal nostro giornale ieri, «nessuno può riportare indietro la storia». Chi tenta di farlo o sparge illusioni o medita inganni.
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COME SALVARSI DAL VELENO 
MICHELE AINIS Rep 15 10 2016
INCIUCI no, un referendum non si presta a compromessi. Rinvii nemmeno, ormai il 4 dicembre è segnato in rosso sul nostro calendario. Tregue niet, per vincere non devi dare tregua ai tuoi avversari.
SEGUE A PAGINA 35 CIRIACO E SANNINO ALLE PAGINE 12 E 13
PERÒ un’iniziativa, una mossa per svelenire il clima bisognerà pur concepirla. Non tanto per l’oggi, quanto per il domani: di questo passo, chiunque prevalga al referendum sulla Costituzione, ci troveremo senza Costituzione. Giacché nessuna Carta costituzionale può farsi rispettare se non appare rispettabile, se non viene accettata nei suoi principi fondativi. Ed è invece questo il rischio che corriamo: una frattura sulle regole, che delegittimi al contempo sia la Costituzione vecchia che la nuova.
Eppure non sarebbe poi così difficile metterci rimedio. Basta prendere sul serio le accuse (e soprattutto le difese) rilanciate dai due accampamenti. Dicono gli uni: questa riforma — in sé e in combinazione con la legge elettorale — rende più fragile la democrazia italiana, ne abbassa le garanzie, v’imprime una curvatura autoritaria. Ribattono gli altri: non è vero, semmai è il vostro atteggiamento che inocula un veleno, trasformando la Costituzione in una salma, anziché in un corpo vivo. Rifiutare le riforme è come privare di medicine un ammalato; ma i vivi prima o poi s’ammalano, soltanto i morti non hanno più malanni.
In questo contenzioso ciascuno indossa a turno i panni dell’imputato e del pubblico ministero, sicché ogni arringa difensiva si trasforma in un capo d’imputazione. Di conseguenza le parole si moltiplicano, rimbombano in tv, diventano rumore, suono incomprensibile. Servirebbero piuttosto fatti, comportamenti concludenti. Dal fronte del No, anzitutto: nega d’essere inchiodato a una visione immobile, conservatrice. E aggiunge che accetterebbe altre riforme, diverse dal menu cucinato dal governo Renzi. Quali, di grazia? Mantenendo il bicameralismo paritario oppure superandolo? E se del caso, mantenendo pure il Cnel? Nonché l’abuso dei decreti, che la riforma cerca d’arginare? Quanto alla legge elettorale, quale sistema in luogo dell’Italicum?
Vattelappesca: le idee dei partiti d’opposizione sono in opposizione l’una all’altra. Sarebbe bello, viceversa, leggere un progetto congiunto di riforma, con le firme in calce di D’Alema e di Brunetta, di Grillo e di Salvini. Oppure tanti progetti per interventi chirurgici, puntuali, magari recuperando qualche capitolo della riforma Renzi. L’opposizione dimostrerebbe, così, di non avere in testa una folla di pensieri spettinati. E che il 5 dicembre la vita costituzionale ricomincia, anche se vince il No.
A loro volta, i partiti del Sì hanno una responsabilità ben superiore. Perché sono maggioranza in Parlamento, perché se ne presume la coesione (altrimenti non avrebbero approvato la riforma), perché dunque sono in grado di dispensarci qualche concreta iniziativa. La revisione dell’Italicum, tanto per cominciare. Sgombrerebbe il campo dai sospetti d’autoritarismo, dal «combinato disposto» che fin qui ha combinato un’indisposizione collettiva. Infatti se ne sta parlando, ma ancora una volta non c’è un testo, c’è solo un pretesto, un’ammuina. In secondo luogo, la legge elettorale del nuovo Senato: un mistero gaudioso, da cui però dipenderà la sua qualità democratica, quindi la sua auctoritas, il suo peso complessivo. Sarebbe troppo chiedere alla maggioranza un’anticipazione o un’intenzione, invece di farci giocare a indovina indovinello?
E c’è infine lo statuto delle opposizioni, tanto più urgente in quanto dovrà compensare, con una garanzia ulteriore, la garanzia perduta del bicameralismo paritario. Sennonché la riforma rinvia a un’altra riforma, quella dei regolamenti parlamentari. Peraltro già avviata alla Camera nel 2013, abortita nel 2015. Ma se non altro quest’ultima vicenda ci impartisce una lezione: se rinvii troppo il parto, rischi d’uccidere il bambino.

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