martedì 11 ottobre 2016

Riaggiustamenti nei rapporti di classe: smantellare la democrazia moderna e poi non darsi pace per il "populismo"


 Nel Vecchio Continente ma in parte anche negli Stati Uniti, la piccola borghesia impoverita, terrorizzata e inevitabilmente reattiva ha da tempo tolto alla grande borghesia politica, economica e intellettuale quel mandato che ne riconosceva il ruolo dominante a patto che i più forti garantissero almeno in parte anche gli interessi dei ceti medi.

Quel blocco di classe un tempo tanto solido - quel blocco che faceva sì che il piccolo evasore morto di fame si sentisse dalla stessa parte della grande industria che fa sparire immensi capitali nei paradisi off shore - è oggi in frantumi.

Da qui la critica più feroce verso le èlites politiche e finanziarie: una critica che, data la sua genesi e provenienza, mette però in discussione i partiti, la politica e lo Stato ma mai il nemico vero e principale, ovvero la catena di dominio imperialistica che dal centro del mondo arriva alle classi dominanti delle periferie e degli Stati nazionali strutturando la divisione globale del lavoro. Così come mette in discussione le banche e il loro parassitismo usuraio, alla cui mercé i politici avrebbero abbandonato l'uomo qualunque, ma non certo il sistema capitalistico e soprattutto quel rapporto di proprietà senza il quale il sistema finanziario è inspiegabile.

A questo meccanismo si collega anche la diffusa delegittimazione della cultura e di tutto ciò che puzza di intellettualismo e di autorità tradizionale. A cui viene contrapposta la falsa concretezza di ciò che è immediato ed empirico, frutto di bricolage o dell'apprendimento dell'autodidatta tramite i nuovi media digitali ("liberi" dalle manipolazioni e distorsioni tipiche di ciò che è mediato).

Questi ceti, che per loro costituzione sviluppano forme di coscienza particolaristiche, vorrebbero oggi disperatamente farsi classe dirigente per difendersi da soli ma non ne hanno - o non ne hanno ancora - le capacità, le competenze, la forza. Da qui le fantasie autarchiche da piccoli produttori indipendenti, assieme a tante altre belle cose, nel mondo del 2016.

Le possibilità di realizzare un nuovo blocco sociale che saldi ceti medi e classi subalterne, come alcuni auspicano, è tuttavia assai improbabile perché è difficile che chi è atterrito dai processi di pauperizzazione guardi verso il basso dopo essersi rispecchiato a lungo in ciò che sta in alto. Si spiega però in questa prospettiva l'egemonia crescente che il rancore piccolo borghese ha acquisito sulle forme di coscienza di un lavoro salariato già da tempo devastato nella sua identità, schiantato in quanto classe sociale assieme alla democrazia moderna e dunque inerte.

E' così difficile capirlo? [SGA].



QUESTO È L’ANNO ORRIBILE DELLE ÉLITE GLOBALI 
NIALL FERGUSON Re 10 10 2016
“SE credi di essere un cittadino del mondo, allora sei un cittadino di nessun luogo. Non capisci il significato stesso della parola cittadinanza”.
Queste sono state le parole più importanti del discorso pronunciato da Theresa May alla convention del partito conservatore di Birmingham della settimana scorsa, proprio all’indomani di quando il Segretario di stato agli affari interni Amber Rudd ha annunciato che tutte le aziende dovranno presentare un elenco dettagliato dei dipendenti che non hanno la cittadinanza del Regno Unito. La mia reazione – in qualità di membro a tutti gli effetti della classe cosmopolita senza radici – è stata: «Ooh la la!».
Benvenuti alla nuova guerra di classe, edizione Brexit.
Da una parte ci sono i cittadini del mondo – i Weltbürger –, tali soltanto nella misura in cui lo era Citizen Kane di Orson Welles in “Quarto potere”. (A dire il vero, noi immaginiamo di appartenere a una nuova aristocrazia, anche se la maggior parte di noi si è fatta da sola.) Abbiamo come minimo due passaporti. Parliamo almeno tre lingue. E possediamo non meno di quattro case, nessuna delle quali nella piccola città nella quale siamo nati.
Dall’altra parte – furibondi e pieni di rancore contro di noi – ci siete voi cittadini dello stato nazione. Possedete un passaporto, se mai ne avete uno. Detestate quel poco di francese che avete imparato a scuola. E vivete a pochi minuti di automobile dai vostri genitori o dai vostri figli.
È facile indovinare quale gruppo sia più numeroso. A prescindere da quante donazioni faccia l’élite globale, filantropa e politica, non potremo mai controbilanciare questa disparità.
Be’, abbiamo vissuto bene per un periodo abbastanza lungo: dal 1979 fino al 2008 abbiamo avuto quasi trent’anni di globalizzazione, di tecnologia dell’informazione e di spumeggianti mercati del risparmio. E quanto ci siamo divertiti! Champagne. Caviale. Collier. Tuttavia, dalla crisi finanziaria in poi il flusso della marea è cambiato, malgrado alcuni dispositivi particolarmente ispirati come il quantitative easing (l’alleggerimento quantitativo i cui benefici possono essere facilmente quantificabili, nel nostro caso). Adesso possiamo quindi tranquillamente guardarlo dritto in faccia e ammetterlo: il 2016 è stato l’annus horribilis dell’élite globale.
Quando ci siamo ritrovati a Davos, a gennaio, potevamo ancora ridere di Donald Trump. Poi lui ha conquistato la nomination per il partito repubblicano. Quando ci siamo rivisti ad Aspen, in primavera, potevamo ancora fare battute su Boris Johnson. Poi lui (senza volerlo) ha portato alla vittoria della Brexit ed è diventato ministro degli Esteri. Per tutta l’estate – dal Lago di Como a Martha’s Vineyard – ci siamo aggrappati alla speranza che le conseguenze economiche della Brexit fossero così catastrofiche da far tornare gli elettori sui loro passi. Sbagliato.
Ora che le notti si allungano, noi cosmopoliti senza radici ci siamo incontrati a Washington per la consueta assemblea generale del Fondo monetario internazionale. La nostra splendida leader Christine Lagarde ci ha messo come sempre in guardia dai rischi legati al protezionismo. Ci siamo congratulati con un altro membro del nostro club, l’ex primo ministro portoghese Antonio Guterres, per la sua nomina a Segretario generale delle Nazioni Unite. In ogni caso, non abbiamo potuto fare a meno di riconoscere la verità di quanto ha detto Wolfgang Schäuble, il ministro tedesco delle Finanze: «Sempre più spesso, la gente non si fida delle sue élite».
Guarda Theresa May.
Come ha fatto notare la settimana scorsa il mio vecchio amico Paul Goodman, non si può capire “Madre Theresa” se non si conosce almeno qualcosa della giovinezza di questa figlia di un pastore di provincia della chiesa cattolica anglicana. (Se vi siete persi la sua apparizione su Desert Island Discs, scaricatevela subito.) Tuttavia, ciò che abbiamo sentito dire da Her Majesty la settimana scorsa è stato qualcosa di più di una semplice versione di Democrazia Cristiana degli altri gradi ecclesiastici. Chi pensa che lei sia semplicemente la risposta dell’Associazione conservatrice dell’Università di Oxford ad Angela Merkel non coglie appieno alcune importanti differenze.
Il discorso di Theresa May all’assemblea ha centrato in pieno tre obiettivi. Prima di tutto ha fatto chiaramente intendere che siamo destinati a una “dura Brexit”. La signora May ha compreso che a giugno il paese si è espresso per porre un freno all’immigrazione e che mettere fine alla libertà di circolazione dei cittadini dell’Ue deve significare uscire dal mercato unico europeo. Di conseguenza May ha deciso di ricavarne il massimo: il suo appello rivolto agli elettori dell’Ukip – a tutti coloro che «si ritrovano privi di un posto di lavoro o con un salario minimo a causa di immigrati dalle scarse qualifiche» – è stato chiaro quanto la sua allusione al «contratto sociale che prevede che si debbano formare e assumere i nostri giovani, prima di rivolgersi alla manodopera a buon mercato in arrivo da oltreoceano». Ooh la la!
In secondo luogo, col suo discorso rivolto direttamente ai delusi elettori laburisti anti-Corbyn, ha ripudiato fino in fondo e una volta per tutte il thatcherismo. In verità, interi passaggi del suo discorso sono sembrati presi pari pari da quelli dei leader laburisti, da Neil Kinnock a Ed Milliband: «Un programma in funzione del quale il governo moltiplicherà i suoi sforzi. Raddrizzerà i torti. Sfiderà gli interessi acquisiti. Prenderà grosse decisioni. Farà ciò che crede giusto. Porterà a termine le cose. Perché questo è il bene che il governo può fare».
«Il bene che il governo può fare». Ha ripetuto questa frase ben cinque volte. Ha promesso «di mettere il potere del governo al diretto servizio della comune classe lavoratrice». Ha affermato perfino che «lo Stato esiste per offrire… ciò che i mercati non offrono», dichiarando di essere pronta a «intervenire… dove i mercati non funzionano». Ancora più sconvolgente è stata poi la sua promessa di «una nuova strategia industriale… che individui le industrie di valore strategico per la nostra economia, per sostenerle e appoggiarle con adeguate politiche commerciali, fiscali, infrastrutturali, e con competenze, formazione, ricerca e sviluppo».
Quando la signora May ha finito di parlare, gli attoniti Tory avevano firmato a favore di una rappresentanza dei lavoratori nei consigli di amministrazione e plaudivano alla loro nuova identità di «partito dei lavoratori, partito dei servitori dello Stato, partito del servizio sanitario nazionale del Regno Unito». Quando lei ha fatto il nome di Clement Attlee, sono stato l’unico a presumere che Gordon Brown sarebbe apparso in scena da lì a poco come ministro delle Poste nel nuovo Governo Nazionale?
Nessuno può mettere in dubbio l’audacia della dichiarazione con la quale si definiscono i conservatori «il nuovo centro della politica britannica», in opposizione a quelle che lei liquida sbrigativamente come «sinistra socialista e destra libertaria». Eppure, la parte ancora più ardita del suo discorso è stata quella del sostenuto fuoco di fila di May contro «i pochi privilegiati… i ricchi, gli uomini di successo e i potenti… i potenti e i privilegiati… i ricchi e i potenti ». Era dal 1973 che un leader dei Tory non si esprimeva così, per la precisione da quando Edward Heath definì Tiny Rowland «il volto inaccettabile del capitalismo».
Ed è proprio questo a preoccuparmi. Alcuni mesi fa, misi in guardia i miei lettori e scrissi che votare a favore della Brexit avrebbe comportato il rischio di riportare bruscamente questo Paese a 43 anni fa, quando entrammo nella Comunità economica europea. Adesso temo che sia proprio ciò che la signora May ha in mente di fare.
Dimenticate l’accenno metaforico al «capitale finanziario più importante del mondo». Lasciate perdere il goffo riferimento alla “Gran Bretagna globale”. Giovedì sera, quando la sterlina è precipitata, siamo tornati di colpo agli anni Settanta, sotto tutti i punti di vista: prima la strategia industriale, poi la crisi della sterlina. I giapponesi hanno avuto l’Abenomics. A noi tocca la fortuna dell’“Abbanomics”, così denominata in onore della band preferita della signora May.
La mia band preferita negli anni Settanta è sempre stata The Faces, e questo mi riporta in mente uno dei loro più grandi successi: “Povero vecchio nonno, / ho riso di tutto ciò che ha detto. / Pensavo fosse un uomo deluso, /che parlava di come si comportano le donne. / Ti mettono in trappola e poi ti sfruttano / prima ancora che tu te ne renda conto, / perché l’amore è cieco e tu sei troppo gentile, /Non permettere che se ne accorgano”.
In sintesi: “Vorrei aver saputo ciò che so ora, quando ero più giovane”.
Qual è il titolo di questa canzone? Ooh la la.
( Traduzione di Anna Bissanti) L’autore è uno storico britannico e fa parte del think tank Hoover Institution di Stanford © 2016 Niall Ferguson
©RIPRODUZIONE RISERVATA




La sfida dell’Est “Rivoluzione contro l’Europa” 
L’ex premier di Varsavia guida il fronte dei paesi contrari alle politiche della Ue, dai migranti ai conti pubblici Il leader della destra polacca Kaczynski “Bruxelles ascolti pure noi o si dissolverà”
ANDREA TARQUINI 9/10/2016 Rep
VARSAVIA. «O l’Europa si riforma ascoltando ogni Stato nazionale membro, o sarà la disintegrazione ». «Non cederemo alle pressioni». «Non prendete sul serio Walesa…». Così parla Jaroslaw Kaczynski, leader storico del PiS (Diritto e giustizia, i nazionalconservatori polacchi tornati al potere con le elezioni del 25 ottobre) il più influente politico neoconservatore nella Ue.
Presidente, insieme al premier ungherese Orbàn avete auspicato una “controrivoluzione”, che significa?
«Un programma di cambiamenti ben preparato. Priorità iniziale: rafforzare il capitale nazionale, oggi troppo debole. Aumentare il costo del lavoro, per rafforzare potere d’acquisto e domanda. E limitare la paura della povertà, soprattutto per le famiglie con molti figli. Non siamo dirigisti, ma parte dell’economia deve restare in mano allo Stato. Abbiamo già preso misure per avere più capitale polacco in economia e banche. Siamo felici degli investimenti stranieri, ma vogliamo un trasferimento di economia e finanza in mani polacche. E vogliamo rafforzare patriottismo e identità nazionale, concetti sfidati dal governo precedente».
Possibile, visti sviluppi e trend attuali in Europa?
«L’Europa intera affronta problemi gravi. La “correctness” limita la libertà di parola, religione, dibattito, decisioni. E assistiamo alla liquidazione della democrazia da parte di gruppi di pressione. Noi ci opponiamo, in Polonia e in Europa. Per questo ho parlato con Orbán di controrivoluzione, sebbene per tradizione polacca preferiamo chiamarla rivoluzione che aiuti a conquistare la libertà».
Come si fa questa rivoluzione?
«Tutti in Europa dobbiamo tornare al concetto di Stato nazionale, la sola istituzione capace di garantire democrazia e libertà, e grande diversità e vitalità delle culture. Un’unificazione culturale dell’Europa significa anche degradazione, sarebbe pericolosa. Almeno finché l’Europa vuole essere superpotenza globale e agire come tale senza gettar via le sue identità culturali nazionali. È possibile. Noi abbiamo avanzato proposte: cambiare i Trattati per rafforzare gli Stati nazionali ed eliminare ogni arbitrio. Dalla Ue abbiamo ricevuto in risposta una sorpresa amara: gentilezza con Ankara, linguaggio brutale con Varsavia ».
Ma molti leader europei, da Juncker a Schulz, vi criticano in modo molto duro. Ci sono compromessi possibili?
«Non vogliono che siamo noi a governare la Polonia. Ci considerano scomodi. Mi è stato detto che l’Ungheria è piccola, può avere alcune concessioni. Ma non la Polonia. Eppure siamo membro Ue e Nato, l’economia cresce, i conti sovrani sono stabili. Ma chi ci attacca non l’avrà vinta, la Polonia resterà Polonia».
Come vede il futuro dell’Europa?
«Cambia rapidamente, non dico per il meglio. Ovunque i populisti si rafforzano, dalla Germania con la AfD alla Francia con Marine Le Pen, che non credo vincerà le prossime elezioni ma è giovane e avrà l’occasione per farlo. O guardi alla Lega Nord, ai partiti populisti scandinavi. Un partito antieuropeo è al top della popolarità in Olanda, vediamo strane forze di sinistra antieuropee in Grecia e Spagna. Possono far esplodere la Ue. O riformiamo la Ue o andrà al collasso. Un’idea di riforma è internazionalizzare il debito. La Germania dovrebbe spendere per la seconda volta i duemila miliardi di euro spesi per salvare il suo Est, funzionerebbe».
Il futuro: Europa dal forte potere centrale, Europa delle patrie citando de Gaulle, Europa disintegrata?
«Difficile cercare un compromesso. Sfortunatamente le divergenze non sono a nostro vantaggio. Alcune idee francesi non sono interessanti per la Germania, c’è qualche margine di manovra. L’Italia pur in crisi può giocare un certo ruolo. In colloqui privati, politici europei mi hanno detto che tra 10 anni l’Europa sarà totalmente diversa. Altri vogliono mantenere lo status quo. Ma ciò porterebbe alla disintegrazione. O riforme, ascoltando ogni Stato membro, o disintegrazione. Meglio curare il paziente a casa che in ospedale, e l’Europa è ancora a casa».
Orbàn non ha ottenuto il quorum al referendum sui migranti, ciò rafforza gli europei pro-società multietnica. Cosa si aspetta?
«Non credo che Orbàn abbia perso. Una partecipazione del 50 per cento sarebbe stata meglio. Il nostro partito è assolutamente contro ogni antisemitismo e razzismo. Ma chi arriva in un paese deve rispettarne le regole, e il paese d’accoglienza ha diritto d’esigerlo. Alcuni paesi europei dimenticando queste regole hanno causato conflitti. Altro problema: l’aggressività dei migranti musulmani, specie verso le donne».
Bruxelles vi accusa di troppo poca solidarietà, cosa risponde?
«Sentiamo la pressione, ma non ci piegheremo. La questione sono le scelte di Angela Merkel. Forse dietro l’invito a tutti i migranti a venire in Europa senza consultare i partner europei c’era la convinzione di vantaggi per l’economia tedesca, idea falsa. Oppure volevano spingere Londra fuori dalla Ue rafforzando il “no” per la paura dei migranti. Ma la Gran Bretagna è un osso troppo duro per i tedeschi. E Ue e Germania dimenticano facilmente che oltre un milione di ucraini sono rifugiati benvenuti in Polonia. Ricordi quanto disse Oriana Fallaci, “perché decisioni di altri dovrebbero avere effetti sulla nostra vita?”.
Non accetteremo quote obbligatorie».
Quanto temete le provocazioni militari russe?
«Le aggressive provocazioni russe sono continue. Anche i nostri caccia assicurano la difesa aerea dei paesi baltici. Credo che durerà a lungo. Possiamo normalizzare la situazione solo se la Russia capirà che esiste un muro. Mosca sta esaurendo le risorse, oggi come accadde all’Urss prima della sua fine. Ci aspettiamo solidarietà, specie dalla Nato. Ne abbiamo più oggi di ieri».
E la tragedia di Smolensk? L’incidente aereo in cui morì suo fratello Lech, allora presidente della Polonia: sappiamo tutto?
«Aspetto i risultati dell’inchiesta, finora non sono venute spiegazioni esaurienti. L’ambasciata polacca a Mosca allora chiese nuovi passi investigativi. L’allora ministro degli Esteri Sikorski e probabilmente l’allora premier Tusk bloccarono la richiesta a Mosca. Troppi comportamenti irregolari».
Ma in Polonia le donne, il Comitato per la difesa della democrazia (Kod) scendono in piazza, Walesa vi attacca. Perché?
«Primo, non prendete sul serio Walesa. È vittima dei tempi moderni. Ebbe un ruolo leader in Solidarnosc, ma fu possibile solo nel contesto specifico di allora. Dopo, grandi deficit intellettuali, difetti di carattere, l’orribile passato, prevalsero sull’abilità politica. Si è più volte screditato».
E le nuove opposizioni: donne, liberal in Parlamento, Kod?
«A volte rappresentano gruppi che con diversi abusi approfittarono della transizione dal comunismo alla democrazia. La legge anti- aborto fu proposta da organizzazioni civiche, non dal mio partito, che vuole proteggere sia la vita sia le madri. Le donne in piazza mi hanno attaccato personalmente, ma non avevo appoggiato la legge. Malinteso totale. E poi la legge è stata bocciata, anche con i nostri voti». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Quel secolo senza radici di democrazia 

ANDREA BONANNI Rep 9 10 2016 ©RIPRODUZIONE RISERVATA
BRUXELLES. Qualsiasi problema che in Europa non riesca a trovare una ragionevole composizione politica è, innanzitutto, un problema culturale e identitario. Lo abbiamo visto con l’estenuante confronto Nord/Sud sull’austerità e la spesa pubblica. Lo abbiamo riscontrato nel dialogo tra sordi che ha portato alla Brexit. Lo ritroviamo sulla questione irrisolta dei rifugiati.
E in questa Unione dei fin troppi problemi, è ormai chiaro che i Paesi dell’Est europeo sono diventati un problema in sè. Non solo e non tanto per il loro rifiuto ideologico nel dimostrare un minimo di solidarietà sulla questione dei richiedenti asilo. Ma soprattutto perché sono portatori sempre più radicali di un neonazionalismo che risulta inconciliabile con lo spirito comunitario, come dimostra l’intervista a Jaroslaw Kaczynski che pubblichiamo in queste pagine.
Anche questo, ovviamente, è un problema prima di tutto culturale e identitario. Di cui possiamo forse cercare di rintracciare le radici storiche. La “Vecchia Europa”, l’Europa dei padri fondatori, quella che Renzi ha voluto celebrare con Merkel e Hollande a Ventotene, nasceva, oltre che da un lungimirante progetto economico, dalla constatazione del fallimento morale degli stati-nazione. Le due guerre mondiali che hanno distrutto il Continente in trent’anni sono state il frutto avvelenato dei nazionalismi e degli stati-nazione che li avevano nutriti e alimentati. L’Europa che noi amiano e conosciamo si è formata attraverso un processo di riconciliazione, che a sua volta si è fondato sulla consapevolezza che le logiche nazionali sono distruttive e, alla lunga, autodistruttive.
I Paesi dell’Est europeo, e in particolare i quattro del Gruppo di Visegrad, non hanno vissuto la nostra stessa esperienza. I loro stati nazionali e democratici si sono formati alla fine della Prima Guerra mondiale come una speranza di redenzione e sono stati travolti solo vent’anni dopo dalla Seconda Guerra mondiale, seguita dall’umiliante occupazione dei regimi sovietici. Per molti di questi nostri “fratelli separati”, l’idea di nazione sovrana corrisponde ancora all’idea di democrazia nazionale, di riscatto morale, di sovranità riconquistata. La loro storia, tragica e sanguinosa quanto e più della nostra, non li ha dotati degli anticorpi culturali per diffidare del nazionalismo e delle sue facili lusinghe.
È comprensibile, dunque, che oggi si ribellino al potere di un’Europa che non hanno capito, e dove sono entrati un po’ per interesse economico e un po’ per marcare in modo definitivo la loro distanza dalla Russia. Come si deduce dalle parole di Kaczynski, noi li abbiamo accolti per abbattere un muro. Loro sono venuti solo per erigerne un altro, più ad Est.
Ma il nazionalismo è in assoluto incompatibile con il progetto europeo. Come dimostra il fatto che i movimenti nazional-populisti anche nella Vecchia Europa sono, prima di tutto, movimenti anti-europei. Ora che la Brexit ha posto bruscamente e amaramente fine ad un altro equivoco culturale durato quarant’anni, quanti anni dovremo aspettare prima di risolvere l’equivoco che divide la “Vecchia Europa” da una pretesa “Nuova Europa” che non vuole essere davvero europea?

se la francia riscopre le ideologie 
Cesare Martinetti Busiarda 13 10 2016
Destra e sinistra non erano morte? Non sembrava superata la divisione novecentesca che ha ferocemente separato il mondo, l‘economia e la cultura per oltre un secolo? Niente affatto. Nella durissima corsa alla presidenziale francese che si svolgerà nella prossima primavera, tutto si gioca su questo antico crinale. Un wrestling politico appena cominciato e già caldissimo, con colpi sopra e sotto la cintura. 
L’ultima scoperta è che, secondo un’indagine d’opinione pubblicata da Le Monde, una significativa fetta di sinistra si appresta ad andare a votare alle primarie della destra per impedire che Nicolas Sarkozy vinca la candidatura che gli consentirebbe di giocarsi la rivincita sul 2012, quando venne sonoramente sconfitto da François Hollande. Perché così accaniti contro Sarkò che ha già tanti guai giudiziari? Perché si dà per scontato che Marine Le Pen sarà al ballottaggio. E dunque l’elettore più machiavellico della gauche non troverebbe affatto strano mescolarsi alla destra per evitare di doversi trovare in primavera a votare per il politico più odiato contro la figlia del vecchio duce del fascismo francese. 
È successo nel 2002 quando toccò votare Chirac per sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen arrivato inaspettatamente al ballottaggio. Allora finì 82 a 18 per il vecchio leader gollista, ma siccome la storia si ripete solitamente sotto forma di farsa, non è affatto detto che finirebbe così. E poi tra Chirac e Sarkozy c’è una bella differenza: quest’ultimo ha ormai rincorso il Front National su tutti i terreni, dalla preferenza nazionale fino all’abolizione del menu per i bambini musulmani nelle scuole. Cosa che Chirac non ha - e non avrebbe - mai fatto.
Al momento l’unico sicuro di battere la Le Pen al ballottaggio, sempre secondo i sondaggi, è Alain Juppé, il più forte competitor di Sarkozy alle primarie. È il vero erede politico di Chirac, sindaco di Bordeaux, moderato, freddo e razionale, di solidissima cultura europeista. Ma si tratta di un altro paradosso perché il Juppé ora diventato un leader di sostituzione (in mancanza d’altri) della gauche in funzione anti-Sarkozy, tra il ’95 e il ’97 era il primo ministro della destra che ha battuto record di impopolarità. Scioperi e proteste fino alle elezioni anticipate che furono un plebiscito per la sinistra rosso-verde di Lionel Jospin.
Sono dunque gli elettori di sinistra che potrebbero regalare la candidatura al vecchio nemico Juppé? Possibile perché le primarie della destra - lo scrive oggi Mediapart - si stanno trasformando in un referendum anti-Sarkozy. Anche perché il modello delle primarie è stato copiato in tutto e per tutto dall’Italia, dove a ogni giro si denunciano infiltrazioni di gruppi: i cinesi a Milano, la camorra a Napoli, etc. Per votare basta firmare una dichiarazione generica sui principi e versare due euro al partito. Il gioco si presta a manipolazioni e sospetti. 
A sinistra, aspettando di vedere che farà Hollande, intanto si moltiplicano le candidature, tutte dichiaratamente «di sinistra», a cominciare da Arnaud Montebourg che di Hollande fu ministro dell’Economia. Il programma arriva a prevedere parziali e temporanee nazionalizzazioni per le imprese che delocalizzano il lavoro all’estero. Il suo successore (ora anch’egli dimissionario, in vista - forse - della presidenziale) Emmanuel Macron, unico vero volto nuovo della partita, si presenta invece come il rappresentante del nuovo orizzonte liberal, oltre destra e sinistra. Ma cosa sono ormai l’uno e l’altra? Nemmeno il vecchio filosofo teorico della «Nouvelle droite» Alain De Benoist se la sente di rispondere e, interrogato da «le1», se la cava con una battuta: «Si chiama destra tutto ciò che non è sinistra».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI




Destra e sinistra non erano morte? Non sembrava superata la divisione novecentesca che ha ferocemente separato il mondo, l‘economia e la cultura per oltre un secolo? Niente affatto. Nella durissima corsa alla presidenziale francese che si svolgerà nella prossima primavera, tutto si gioca su questo antico crinale. Un wrestling politico appena cominciato e già caldissimo, con colpi sopra e sotto la cintura. 

L’ultima scoperta è che, secondo un’indagine d’opinione pubblicata da Le Monde, una significativa fetta di sinistra si appresta ad andare a votare alle primarie della destra per impedire che Nicolas Sarkozy vinca la candidatura che gli consentirebbe di giocarsi la rivincita sul 2012, quando venne sonoramente sconfitto da François Hollande. Perché così accaniti contro Sarkò che ha già tanti guai giudiziari? Perché si dà per scontato che Marine Le Pen sarà al ballottaggio. E dunque l’elettore più machiavellico della gauche non troverebbe affatto strano mescolarsi alla destra per evitare di doversi trovare in primavera a votare per il politico più odiato contro la figlia del vecchio duce del fascismo francese. 
È successo nel 2002 quando toccò votare Chirac per sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen arrivato inaspettatamente al ballottaggio. Allora finì 82 a 18 per il vecchio leader gollista, ma siccome la storia si ripete solitamente sotto forma di farsa, non è affatto detto che finirebbe così. E poi tra Chirac e Sarkozy c’è una bella differenza: quest’ultimo ha ormai rincorso il Front National su tutti i terreni, dalla preferenza nazionale fino all’abolizione del menu per i bambini musulmani nelle scuole. Cosa che Chirac non ha - e non avrebbe - mai fatto.
Al momento l’unico sicuro di battere la Le Pen al ballottaggio, sempre secondo i sondaggi, è Alain Juppé, il più forte competitor di Sarkozy alle primarie. È il vero erede politico di Chirac, sindaco di Bordeaux, moderato, freddo e razionale, di solidissima cultura europeista. Ma si tratta di un altro paradosso perché il Juppé ora diventato un leader di sostituzione (in mancanza d’altri) della gauche in funzione anti-Sarkozy, tra il ’95 e il ’97 era il primo ministro della destra che ha battuto record di impopolarità. Scioperi e proteste fino alle elezioni anticipate che furono un plebiscito per la sinistra rosso-verde di Lionel Jospin.
Sono dunque gli elettori di sinistra che potrebbero regalare la candidatura al vecchio nemico Juppé? Possibile perché le primarie della destra - lo scrive oggi Mediapart - si stanno trasformando in un referendum anti-Sarkozy. Anche perché il modello delle primarie è stato copiato in tutto e per tutto dall’Italia, dove a ogni giro si denunciano infiltrazioni di gruppi: i cinesi a Milano, la camorra a Napoli, etc. Per votare basta firmare una dichiarazione generica sui principi e versare due euro al partito. Il gioco si presta a manipolazioni e sospetti. 
A sinistra, aspettando di vedere che farà Hollande, intanto si moltiplicano le candidature, tutte dichiaratamente «di sinistra», a cominciare da Arnaud Montebourg che di Hollande fu ministro dell’Economia. Il programma arriva a prevedere parziali e temporanee nazionalizzazioni per le imprese che delocalizzano il lavoro all’estero. Il suo successore (ora anch’egli dimissionario, in vista - forse - della presidenziale) Emmanuel Macron, unico vero volto nuovo della partita, si presenta invece come il rappresentante del nuovo orizzonte liberal, oltre destra e sinistra. Ma cosa sono ormai l’uno e l’altra? Nemmeno il vecchio filosofo teorico della «Nouvelle droite» Alain De Benoist se la sente di rispondere e, interrogato da «le1», se la cava con una battuta: «Si chiama destra tutto ciò che non è sinistra». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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