martedì 4 ottobre 2016

Umberto Eco a Torino

Risultati immagini per eco giovaneUmberto Eco formidabili quegli anni a Torino 
Nel programma di Portici di Carta, il prossimo fine settimana sotto la Mole, gli amici di gioventù ricordano lo scrittore semiologo scomparso 

Ernesto Ferrero Busiarda 3 10 2016
Gli anni ruggenti in cui Torino sembrava l’America, l’Eldorado dell’innovazione, la città delle opportunità da cogliere a volo, il luogo in cui realizzarsi. Sabato prossimo Portici di Carta ricorda Umberto Eco cercando di far rivivere il profumo dei suoi anni torinesi.

Niente di paludato, nessuna retorica celebrativa, proprio come lui ha chiesto, ma un ritrovarsi con gli amici di sempre, per scherzarci sopra. 
Umberto era arrivato qui dalla natia Alessandria nel 1950 per iscriversi a Lettere. È ospite del collegio Einaudi di via Galliari con il compagno di banco Mario Garavelli, anche lui mandrogno e futuro magistrato. Ci si entra per concorso, e c’è un bel clima. Incontri, discussioni con studenti di altre facoltà, concerti, un po’ di teatro dove si entra gratis per fare la claque. Umberto è un po’ anomalo: non pratica sport, non s’interessa al calcio, non balla, non fuma perché è ligio al codice di Azione Cattolica, della cui sezione giovanile diventa presto un dirigente nazionale. In compenso suona il flauto con il suo grande amico Gianni Coscia, fisarmonicista jazz, e ha talento di vignettista. Già al liceo, mentre ascolta le lezioni di storia, traduce i grandi eventi (da Edipo al Congresso di Vienna) in fumetti stile Jacovitti. Il futuro maestro di pirotecnie verbali, giochi di parole, nonsense, calembour, motti e frizzi è già lì.
A palazzo Campana, sede della facoltà, Umberto svetta: tutti trenta e trenta e lode, tranne un 29 e due 27, di cui uno - guarda caso - proprio in Letteratura italiana. Che ha una marcia in più lo capiscono anche nella redazione del giornale degli studenti, Ateneo, dove lui è così bravo da suscitare qualche gelosia.
«Curato» da san Tommaso
La facoltà abbonda di docenti d’eccezione, lui sceglie Luigi Pareyson, carismatico professore di Estetica. È un filosofo di vasti interessi, che spaziano dalla cultura classica a quella contemporanea, e l’allievo prende da lui l’attitudine a guardare a tutto campo. L’altro cocco del maestro è Gianni Vattimo. Pareyson dirotta Vattimo su Aristotele e Eco su Tommaso d’Aquino, sulla cui estetica scriverà la celebre tesi. Durante le sue ricerche smette anche di credere in Dio. Commenterà ironicamente: «Si può dire che Tommaso mi abbia miracolosamente curato dalla fede». 
Però alla fine Pareyson mette in cattedra Vattimo, non lui. Era un po’ suscettibile, ha spiegato Vattimo, e Umberto era una linguaccia, non rinunciava alla battuta, e anche se a Natale gli mandava puntualmente gli auguri, a Milano lo aveva «tradito» filosoficamente con il collega Enzo Paci. «Però Pareyson sapeva che era in gamba, magari perfino più bravo di me», scherza adesso Gianni. Alla fine Umberto si è accorto che in fondo i suoi sono tutti romanzi di formazione, in cui c’è un giovane che apprende e cresce nel forte legame formativo con un maestro più anziano. Per questo ha voluto fare il professore: per restituire il molto che aveva ricevuto.
Il futuro prossimo del neolaureato non è l’università, ma la neonata Rai, fucina d’iniziative e di nuovi talenti grazie all’amministratore delegato Filiberto Guala, democristiano doc di larghe vedute, che con Fanfani s’era inventato il piano «Ina Case». Guala fa entrare per concorso 300 neolaureati selezionati su 30.000 concorrenti. Sono le infornate che portano in Rai Fabiano Fabiani, Angelo Guglielmi, Piero Angela, Ugo Gregoretti, Folco Portinari. Ma Guala va anche a pescare nella giovane sinistra cattolica tre pezzi forti, Eco, Vattimo e Furio Colombo, e li assume come borsisti a 65.000 lire al mese.
I tre corsari
Prima di essere rispediti in via Montebello, negli storici studi torinesi della Rai, i tre seguono un corso di formazione a Milano dove diventeranno amici per la vita. I «corsari», come li chiamano, fanno un settimanale che si intitola Orizzonte, va in onda dalle 18 alle 19 ed è pensato per i giovani. Presenta Vattimo che è uno dei belli del gruppo. Eco è il più lesto a capire le potenzialità e le dinamiche sociali di quel linguaggio. Osservando il signor Mike, che si aggira amabilmente negli studi con l’aria del veterano, prende appunti mentali per scrivere il leggendario saggio Fenomenologia di Mike Buongiorno. La Rai è il laboratorio ideale in cui sperimentare gli incroci tra cultura alta e cultura popolare che lo renderanno famoso.
Eco è già Eco. Mostro di erudizione senza darlo a vedere, empatico, curioso di tutto, a suo agio nel gioco di squadra, non disdegna il gossip. Una miniera di barzellette («Per questo», dice Vattimo, «ancora adesso ne so più io di Berlusconi»). Mentre fa il servizio militare, il barbuto filosofo si fidanza con Enza Sampò, che è già una star del piccolo schermo. Umberto le consiglia cosa leggere: La noia di Moravia e Lolita di Nabokov. La madre di Enza teme che quei libri scandalosi possano traviare la ragazza. Lui le scrive una bella lettera, in cui spiega che per farsi una formazione completa occorre leggere di tutto. 


Firma i suoi primi articoli e saggi «Dedalus», omaggio all’amato Joyce. Così si nasconde e si svela per quello che è, un costruttore e un esploratore di labirinti. A Torino, dove aveva ricevuto il suo imprinting e aveva gli amici più cari, è sempre tornato con piacere. Non frenato dagli impacci della nostalgia, ma con l’antica, allegra attitudine propositiva e combinatoria. A inizio anno aveva deciso di festeggiare al Salone del Libro il varo dell’ultima impresa cui ha contribuito con la consueta generosità: la Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi. Per guardare avanti, fino alla fine.

Umberto Eco diario minimo di un liceale 
Un compagno di classe e amico di una vita apre l’archivio con i disegni scolastici dello scrittore

SARA STRIPPOLI Repubblica 4 10 2016
TORINO Un giorno ha mandato su tutte le furie la professoressa di scienze. Lei che si vestiva sempre di nero e succhiava le caramelle, si era vista rappresentata in scena dal liceale Umberto Eco che sul palco della commedia creata dai goliardi della sezione A era apparso con un vestito nero pece gonfiando le gote con la caramella in bocca. Tutti avevano capito ed erano scoppiati a ridere. Lui se l’era inimicata per sempre ma non se ne curava. Allo spirito goliardico non avrebbe più rinunciato. Mario Garavelli, giudice, magistrato, per Eco (scomparso nel febbraio di quest’anno) da allora e per sempre il suo amico Flosius, lascia andare il flusso di ricordi. Apre una scatola di cartone, quella della carta da lettere che si scrivevano in un’epoca ormai lontanissima: lì dentro
c’è un pezzo della vita dell’autore del Nome della Rosa, gli anni da giovane studente: la locandina della rivista Non ho voglia di studiare, anno 1949, la foto appena ingiallita della quarta ginnasio, quella dove Eco e Garavelli sono l’uno accanto all’altro, nella prima fila in basso. Compagni di banco e amici per la vita. Dagli anni del liceo Plana di Alessandria a quelli del Collegio universitario di via Galliari a Torino, dove sono transitati anche Claudio Magris e Gianluigi Beccaria.
«Io ero povero — racconta Garavelli — e avevo saputo che c’era un concorso per entrare al Collegio, vitto e alloggio, molte ore di studio e orari monacali. Con Umberto sono andato alla prova di cultura generale e abbiamo avuto la borsa di studio». Dalla scatola esce il “contratto” con cui il burlone Eco affida al compagno i suoi disegni, quelli che nelle ore di lezione schizzava con la stilografica mentre i professori spiegavano. Lui non prendeva appunti, ascoltava e disegnava: caricature, donne, cavalieri, l’assedio di Orléans, la battaglia di Poitiers, i manifesti per le partite di calcio della squadra “Apocalisse Football Club”. Lui non giocava ma partecipava alle sfide creando le locandine da affiggere ai muri della scuola. Uno stile alla Jacovitti, dice sorridendo Garavelli. Carlo Magno, manco a dirlo, era lì a strafogarsi, Carlo il Corto diventa un nanetto, Ludovico il Pio snocciola il rosario.
Ed ecco, nello scrigno di cartone, spuntare l’affidamento ufficiale dei disegni, cinquanta piccole graphic novel ante litteram su fogli di quaderno che Flosius ha conservato gelosamente nella sua casa torinese. «Stipendio dovuto al signor Garavelli per le sua mansioni di segretario: 1) Imprestamento del Candido (il settimanale dell’epoca), appena letto dal proprietario. 2) Esclusiva assoluta sull’utilizzo dei disegni ».
Al fianco di Flosius c’è Bice, che poi è la professoressa Mortara Garavelli, linguista, accademica della Crusca: «Era lei la più brava di tutti », dice Flosius con ammirazione. Bice e Mario sono sposati da cinquantanove anni. La loro relazione al liceo non era sfuggita all’Eco burlone. Quando Mario- Flosius aveva vinto una bicicletta in un concorso per il miglior tema, e con la fidanzata arrivava a scuola in bici, l’amico aveva trovato il modo di rivelare il loro amore. Nel suo stile: «Garavelli va in Bice». È lei ad estrarre quel frammento di ricordo, la studentessa seria che allora si era sentita in imbarazzo: «Erano tremendi, sempre lì a scherzare». La scatola di cartone si apre ancora. Questa volta ne esce il manifesto del Circolo Surrealista liceale.
Eco aveva scritto il regolamento: «Lotteremo per l’emancipazione dei pazzi, gli unici dritti. Tutti i casi patologici sono consigliati, paranoia, schizofrenia, vari complessi psicoanalitici. È severamente proibita la megalomania » Mentre i compagni iniziavano i primi flirt, lui affinava le tecniche goliardiche. «A un certo punto era arrivato in classe un ragazzo svizzero che si chiamava Winteler. Se n’è andato poco dopo, ma il suo cognome è passato alla storia, trasformato in un urlo stralunato (OOOH Winteler!!) che ritornava ad ogni nostro incontro negli anni della maturità ». Nello scrigno una fotografia. Ritrae il gruppo di quarantenni, tutti seduti nella stessa classe, stessa formazione. Come se il tempo non fosse passato. Sugli scaffali i libri. A ogni nuova uscita il semiologo ne mandava una copia agli amici. Quando Il Nome della Rosa non è ancora in libreria, a casa Garavelli arriva un pacco: «A Bice e Flosio alcuni pastiches iniziati al Plana». Firmato Umbertus.

TUTTA L’ARGUZIA RACCHIUSA IN UNA VIGNETTA STEFANO BARTEZZAGHI Repubblica 4 10 2016
Era un convegno a lui dedicato, si era ad Almagro, nella Mancha, ed era il 1997. Umberto Eco ascoltò tutti gli interventi sulla sua opera di semiologo e narratore seduto in prima fila, chino su un blocco di appunti. Alla fine il blocco era pieno di disegni, che forse però non erano davvero solo disegni perché in chiusura del convegno rispose nel dettaglio a ogni singolo intervento, con tono a volte anche aspro (come scrisse nell’introduzione a Kant e l’ornitorinco, il volume che pubblicò pochi mesi dopo, è con gli avversari che si usano i salamelecchi: con colleghi e amici si discute con la necessaria durezza). Aveva ascoltato e mandato a memoria tutto. Che quelle figure di frati, donne, frecce, chiese fossero in realtà una stenografia, un sistema mnemonico per fissare le opinioni altrui nella memoria? Magari era poi solo un modo per distogliere lo sguardo dall’oratore.
Perciò rallegra, ma non stupisce, l’emersione di queste vignette liceali, datate 1949. Si conoscevano già quelle che, dieci anni dopo, illustravano le filastrocche della Filosofia in pillole dove Aristotele è un rapace bellimbusto che corteggia una bella dicendole: «Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, ergo Socrate è mortale». La dama neghittosa mormora: «Ah, deduttore! ». I più semplici mezzi dell’umorismo, spostati però sul piano di una cultura erudita ma non per questo seriosa: vale per i giochi di parole, come per le vignette. E proprio in quel
Kant e l’ornitorinco (forse l’ultimo dei trattati robustamente teorici di Eco) il tema era quello dello statuto dell’iconismo, che tornava a trent’anni dalle prime riflessioni della Struttura assente: come fanno, le immagini, a significare? I frati del Nome della rosa avevano volti tratteggiati al pennarello nei quaderni preparatori del romanzo e nella recentissima mostra, a Camogli, dei ritratti che Tullio Pericoli gli ha dedicato in anni e anni è testimoniato come Eco non avesse resistito alla tentazione di rispondere con disegni al suo ritrattista elettivo. Nei quaderni del 1949 si ritrovano dunque radici remote di una propensione che non sarebbe cessata. Le parodie della metafisica, del surrealismo, del fauvisme, del cubismo; il tombino come «bucus averni» e l’auto del «deus ex machina» in una scena da tragedia greca, la squadra calcistica dell’Apocalisse e l’inquisito passato alla fiamma da cupi frati incappucciati...: non è che quest’Eco diciassettenne fosse poi molto lontano dagli interessi, e dallo humour, di quello che abbiamo conosciuto. E quel Circolo Surrealista Liceale, per cui impressionismo e metafisica erano «concessi solo se esasperati », richiama anche una precoce e allegra vocazione all’avanguardia. Lo stile grafico non ha fatto molti progressi e una volta Eco si è rammaricato di non avere la perizia di far sorgere la forma disegnata non dal contorno ma dallo sfondo. Ma alla misteriosa arguzia dei disegni è rimasto fedele: quarant’anni dopo le proprie prove liceali, Eco ha messo una vignetta del sommo Altan in copertina a una sua raccolta di saggi, perlopiù serissimi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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