Sel, ambiziosa ma sconfitta. L’autocritica di Vendola
Il 10 dicembre il partito chiude i battenti. L'assemblea
nazionale dice sì allo scioglimento, ora la parola passa agli ex
iscritti. Non tutti applausi sulla nuova 'Sinistra italiana'. Il verde
Calzolaio: sull'ambientalismo facciamo passi indietro
Nichi Vendola Daniela Preziosi Manifesto ROMA 8.11.2016, 23:59
Sel non sarà stata un fallimento, di certo è stata sconfitta.
L’analisi di Nichi Vendola è severa, irreparabile, domenica scorsa a
Roma, all’assemblea nazionale di Sel, l’ultima del partito nato nel 2009
da una scissione di Rifondazione comunista e arrivato allo scioglimento
e alla confluenza in Sinistra italiana. Un partito, Sel, nato per
«riaprire la partita» della sinistra e del centrosinistra, per esserne
il «lievito». Ma per il presidente il bilancio è amaro. «La crisi del
mito riformista», dice Vendola, nel frattempo si è fatta
«irrimediabile», quel riformismo che oggi si scopre essere «l’abilità
tecnocratica di riduzione del danno». Sel è stata «ambiziosa» ma non è
riuscita a condizionare l’alleanza Italia bene comune con il Pd, chi nel
2013 l’ha fortissimamente voluta e sostenuta – Sel, appunto, sotto la
guida del suo presidente – non si è reso conto che la possibilità di
successo era già irrimediabilmente corrosa «dall’acido del montismo». La
storia che è venuta dopo era dunque una strada già tracciata:
Napolitano rieletto al Quirinale, le larghe intese, l’ascesa di Renzi
prima al Pd e poi a Palazzo Chigi. L’autocritica va a ritroso e in
profondità, alla «scommessa in campo aperto usando spregiudicatamente
gli strumenti dei nostri avversari, le primarie, anche se avevamo
passato una vita a criticarle». In realtà nel vecchio Prc fu Fausto
Bertinotti il primo a parteciparvi, era il 2005, e all’epoca le poche
voci contrarie erano liquidate come museali e indietriste. Più di
recente, male anche la linea seguita alle europee del 2014, dove pure il
cartello Altra Europa con Tsipras prese un milione di voti e tre
eletti: «Per ingenuità abbiamo creduto alle parole di Martin Schulz
(all’epoca candidato del Pse, ndr) contro l’austerity», ammette Vendola;
avevano dunque qualche motivo reale le dure polemiche di quei giorni.
C’è infine un ritardo anche nella tempistica dello scioglimento di Sel,
che ha frenato e forse segnato la nascita di Sinistra italiana (il
congresso sarà a febbraio), ammette Vendola, che in coincidenza si è
ritirato dalla politica per ragioni personali (note e belle, ha avuto un
figlio).
Alla relazione segue un dibattito. Il confronto è serrato ma dei 240
componenti più della metà non c’è. Il punto naturalmente non è la fine
di Sel, ormai cosa fatta (sin dal 24 gennaio è stato deciso lo stop al
tesseramento), né la gratitudine a Vendola, spiega il deputato Francesco
Ferrara, il primo a intervenire: il punto sono «gli steccati» con cui
nasce, dice, la nuova creatura. Perplessità anche da Valerio Calzolaio,
una delle storiche anime verdi di Sel: Sinistra italiana «sulla cultura
ambientalista fa già dei passi indietro». A dispetto del «massimo
impulso» deciso nei confronti del nuovo partito, quella di Si insomma
sarà un’altra storia. E a giudicare dai dissensi non sarà la storia di
tutti gli ex sellini. Si capirà dopo il referendum. L’assemblea si
conclude con un voto a stragrande maggioranza sul dispositivo di
scioglimento, ma molti dei perplessi non partecipano al voto. Per
evitare contestazioni sui numeri la presidenza decide di aspettare i
voti degli assenti, da inviare per email «nei prossimi 3 o 4 giorni»,
spiegano. Il 10 dicembre, il primo sabato dopo il referendum, saranno
consultati gli iscritti nelle assemblee provinciali. Poi giù il sipario,
al netto degli atti formali e del trasferimento delle sostanze di un
partito a un altro. Che pure, la storia insegna, sono sempre passaggi
delicati.
Le due sinistre
I bersaniani pronti a
chiedere le dimissioni di Renzi dal vertice del Pd. Col Sì vincente
ribelli verso l’addio: “A meno che Matteo non cambi” Il big bang del 5 dicembre se passa il No la minoranza vuole la resa del segretario
di Goffredo De Marchis Repubblica 8.11.16
ROMA.
Se al referendum vince il No la minoranza chiederà la testa del
segretario prima ancora che del premier. «Un leader che porta il suo
partito a una sconfitta storica non può rimanere in sella appellandosi
al congresso vinto 3 anni fa», sentenzia un bersaniano di punta. Per
rimanere a Palazzo Chigi, Matteo Renzi se la dovrà vedere con Sergio
Mattarella, i renziani della seconda ora, gli alleati, le opposizioni e
la sua volontà. I dissidenti, invece, tanto per cominciare, rivogliono
il Pd. Il resto viene dopo. E se vince il Sì? Pier Luigi Bersani e
Roberto Speranza dicono che non se ne andranno nemmeno «con le
cannonate». Renzi giura che i dem «non cacciano nessuno». Ma le
chiacchiere contano poco. Una convivenza già impossibile sarà misurata
sul tasso di renzismo con il quale verrà accolto il successo. «Se Renzi
inizierà a parlare in un altro modo, perché non confonderà la
maggioranza costituzionale con i voti delle future politiche, il Pd
vivrà. Altrimenti il Pd non esisterà più», dice Miguel Gotor. Non si
chiamerà scissione, allora, ma il senso non cambia. Dal 5 dicembre,
vedremo una ricomposizione dell’area con la nascita di due sinistre, una
delle quali sarà «il partito di Renzi», chiosa Gotor.
Le due
sinistre sono in realtà un dato di fatto da molti mesi, per l’esattezza
dall’elezione di Mattarella al Quirinale che segnò l’ultimo momento di
vera unità. «C’è una foto di Guerini e Speranza sorridenti e felici quel
giorno – ricorda Gotor -. Il Pd che poteva essere e non è stato». Pochi
giorni dopo infatti Renzi capitalizza il successo forzando
sull’-I-talicum. Nove dissidenti nella commissione parlamentare vengono
invitati a lasciare, poi il governo metta la fiducia sulla legge
elettorale. Il capogruppo Speranza, non più sorridente, si dimette e a
nessun renziano viene in mente di fermarlo. Il canale della fiducia
s’interrompe, nessuno riuscirà più a riaprirlo. Fino ai giorni nostri,
con il coro “fuori,fuori” della Leopolda e lo strappo di Bersani che
accusa Renzi di arroganza e i renziani (Cuperlo compreso?) di
sudditanza.
Dal momento della vittoria di Renzi alle primarie
(dicembre 2013) sono stati mesi di incomprensioni, liti,
incomunicabilità totale con alcuni episodi isolati di armonia:
l’elezione del Colle, la difficile ma riuscita approvazione delle unioni
civili. Il primo grande scontro parlamentare è sulla riforma del
mercato del lavoro. Dopo molte trattative e un voto di compromesso in
direzione, la minoranza dà il via libera alla legge delega, con la
promessa che l’articolo 18 non verrà toccato. Ma il governo, al momento
del decreto, cancella la tutela. Per i bersaniani è un tradimento e una
sconfitta. «Il lavoro non si crea con le regole», ripete sempre l’ex
segretario. Comincia da qui una storia di sospetti reciproci. La riforma
delle banche per una parte del Pd è un favore alle popolari, ma Renzi
ribalta il discorso ricordando i danni provocati da una certa sinistra
bancaria in Monte Paschi. La Buona scuola è una legge sbagliata che
secondo Speranza ha tolto molti consensi in un bacino storico del
centrosinistra, gli insegnanti. La consultazione sulle trivelle,
promossa da alcune regioni a guida Pd e sostenuta dalla minoranza, è il
referendum del “ciaone”: così festeggia il fallimento del quorum Ernesto
Carbone, “salutando” la minoranza. Renzi celebra l’evento con una
conferenza stampa che non piace a Bersani.
Nella scorsa
Finanziaria Renzi abolisce la tassa sulla casa. Per l’ex segretario è
una misura incostituzionale. «Viola la Carta. Chi ha di più paga di
meno», dice denunciando l’errore gravissimo che toglie risorse agli
investimenti e all’occupazione.
Nella manovra di quest’anno
l’esecutivo introduce una sanatoria per i contanti. La “norma Corona” la
definisce con disprezzo Bersani alludendo al paparazzo che nasconde i
soldi nel controsoffitto. «Polemiche per intenditori di birra», è la
replica di Renzi.
Siamo in piena campagna referendaria e anche
questa legge di stabilità è motivo di scontro. Ai bersaniani non piace,
si allude a mance e mancette. Bersani nel videoforum con Repubblica
spiega chiaramente che i «bonus sono fatti a debito e pesano sul futuro
dei nostri figli». A proposito del confronto tra passato e futuro che
secondo Renzi caratterizza il referendum del 4 dicembre. Dopo il quale
le due sinistre difficilmente resteranno insieme.
«È ormai un partito di sudditi»
Dopo la Leopolda. Bersani in Sicilia da solo per fare campagna al No. «Fuori? Ci vanno gli elettori». L’ex segretario critica «l’arroganza» al potere. «Ma mi colpisce che tutti gli altri restino zitti». E dà appuntamento al congresso.
Alfredo Marsala Manifesto PALERMO 8.11.2016, 23:59
Arriva con un’ora d’anticipo a giurisprudenza, spiazzando molti. È da solo, senza compagni. Senza claque. Si capisce subito che Pierluigi Bersani ha voglia di parlare, mentre la sala della facoltà, a Palermo, si comincia a riempire di studenti accorsi per ascoltare le sue ragioni per il No al referendum costituzionale. Comincia da quel «fuori fuori», urlato da chi sta nel suo stesso partito. «I leopoldini possono risparmiarsi il fiato, vanno già fuori parte dei nostri. Io sto cercando di tenerli dentro, ma se il segretario dice ‘fuori fuori’ bisognerà rassegnarsi».
Eppure non è, non ancora, una resa. «Ho provato una grande amarezza», dice riferendosi ai cori. Per Bersani erano insulti «che offendono non me, perché ci sono abituato, ma tanta nostra gente». Piuttosto, è la sua riflessione, «mentre alla Leopolda urlavano quegli slogan, a Monfalcone, da sempre roccaforte rossa e carne nostra, prendevamo una batosta storica dalla Lega». Perché? «Perché molti dei nostri non hanno votato. Io non c’ho dormito, non so altri». Sembra un leone ferito Bersani, ma appare indomito e pungente. Non gioca in difesa. Anzi, contrattacca: «Vedo un partito che sta camminando su due gambe, l’arroganza e la sudditanza». Di dimissioni o scissione non vuol sentirne parlare. «Il partito è casa mia e non lo lascerò mai, per cacciarmi non basta una Leopolda, serve l’esercito». Un avviso al suo Pd: «Mi impressiona che tutti gli altri stiano zitti». La partita per Bersani è doppia: da un lato il governo, dall’altro il partito. Tant’è che al congresso del Pd annuncia che porrà «il problema della separazione della leadership con la guida del governo». Nella sua visione non c’è il partito del capo, ma un Pd «che deve essere una infrastruttura» di «un’area ulivista di centrosinistra» e non può fare «il pigliatutto con la logica del comando». «Questa storia che facciamo tutto da soli si sta dimostrando debole, abbiamo perso tutti i ballottaggi», ammette. Quindi l’affondo sul referendum e sull’Italicum considerandolo «un incrocio pericoloso: con un governo del capo e parte del parlamento nominato: non sono noccioline».
Non si fida affatto dell’impegno di Renzi a modificare l’Italicum, che invece ha convinto Cuperlo: «Una posizione personale e individuale, non giudico». Quel che conta è che «un partito che è al governo, che ha la maggioranza in parlamento e pone la fiducia sull’Italicum non può certo cavarsela con un foglietto fumoso». Un modo, è convinto Bersani, con cui «Renzi vuole tenersi le mani libere, altrimenti sarebbe andato in parlamento a dire cambiamo le cose. E invece si è traccheggiato fino a oggi, fino a quel foglietto, per dire stai sereno ma io non sto sereno e voterò no». Anche perché «sul tema della costituzione non esiste una disciplina di partito: il segretario dà una indicazione poi ognuno sceglie con la propria testa». Il rimprovero a Renzi è di «aver drammatizzato il voto». «Ma è possibile che da un anno a questa parte si vada avanti a pane e referendum? La gente ha altri problemi».
«Per la prima volta nella storia del Paese», insiste Bersani, «un governo prende l’iniziativa di cambiare in autonomia la Costituzione. Questo governo mette la fiducia sulla legge elettorale, poi annuncia al mondo che siamo sul precipizio, che tutto dipenderà dal referendum, che ci sarà un prima e un dopo». E «non è vero, il giorno dopo saremo come il giorno prima». In questo modo «l’esito che si è ottenuto è quello di dividere il paese: chiunque vincerà, avremo perso tutti se non mettiamo le cose nel giusto binario». Rimane il fatto che «questa riforma ha più di un difetto, tra cui la formazione delle leggi e il rapporto tra Stato ed enti locali». «Io – argomento Bersani – sono un sostenitore della tesi che si facciano troppe leggi, e pure male. Quando sento il mio segretario dire che la retribuzione dei parlamentari deve essere associata alla presenza in aula, dico: ma si sa che noi abbiamo il record mondiale di assemblee plenarie?». Per l’ex segretario «le leggi vanno fatte fuori, confrontandosi con le associazioni, con gli esperti, in aula si deve arrivare come corridori al traguardo» e «sul rapporto tra stato ed enti locali, io che sono stato amministratore locale per venti anni e ministro per sette, non sono stato interpellato: la suddivisione tra beni di interesse regionale e di interesse nazionale è illogica».
Quindi prova a rassicurare Renzi, secondo cui l’obiettivo di chi voterà No è quello di ritornare al governo: «Io non voglio niente se non parlare, se questo è consentito». E alle voci secondo cui in caso di vittoria del No il segretario metterebbe fuori dalle liste elettorali gli esponenti della minoranza replica netto: «Che miseria».
“Non se ne andranno Solo D’Alema rischia se a vincere sarà il Sì”
L’ex capo della Cgil: hanno sempre condiviso tutto
Federico Geremicca Busiarda 8 11 2016
«Non succederà nulla. Bersani continuerà a dire che non va via nemmeno con l’esercito, e gli altri faranno lo stesso: vivranno da separati in casa. Del resto, parliamo di dirigenti che hanno condiviso linea e scelte che hanno cambiato il brand della ditta e la sua missione». Sergio Cofferati, storico leader Cgil ed ex sindaco di Bologna, è fuori dal Pd (del quale fu co-fondatore) dal gennaio 2015, dopo aver perso le primarie in Liguria, e dice di non prendere sul serio il film oggi in programmazione: “Democratici sull’orlo della scissione”.
Perché?
«Perché Bersani ha della cosiddetta ditta l’idea nota: non ha né voglia né interesse a rompere, e questo - per altro - corrisponde al suo modo di intendere la politica».
E i più giovani, intendo da Roberto Speranza in giù?
«Quando dico Bersani mi riferisco a un’area. Hanno condiviso scelte che ora renderebbero incomprensibile una scissione. Ci sono alcune soglie che in politica è rischioso superare: prima di tutto quella della credibilità...».
Stesso discorso per D’Alema?
«Per D’Alema è diverso: è in una posizione oggettivamente più esposta. A differenza di altri, ha fatto una scelta molto netta, mettendo addirittura in piedi comitati per il No. In caso di vittoria del Sì, si troverebbe in una situazione più delicata».
Renzi si muoverà, secondo lei, per soddisfare i cori “fuori-fuori”?
«Non credo proprio. Non ha alcun interesse a farlo. Tenterà ancora di tenere tutto assieme. Penso che, qualunque sia l’esito del referendum, non accadrà nulla fino al prossimo Congresso».
E al Congresso?
«Tenteranno di battere Renzi, che però è solo uno dei problemi che oggi ha il Pd. Gli altri riguardano la linea e il senso della missione: e - soprattutto - regole di civile convivenza all’interno del partito».
Pensa che la minoranza possa davvero vincere il Congresso?
«Credo dipenda da molte cose: in testa a tutte, ovviamente, dal risultato referendario. In ogni caso, un obiettivo almeno dovrebbero porselo e centrarlo: separare la guida del partito da quella del governo. Quanti danni stia producendo il doppio incarico, oggi è davvero sotto gli occhi di tutti».
Lei, Civati, D’Attorre... I democratici non hanno subito scissioni dall’avvento di Renzi, ma addii eccellenti sì. Come si sta fuori dal Pd?
«Non posso rispondere per gli altri: non tutti hanno lasciato il partito per le stesse ragioni. Resta il fatto che non credo possibile restare in un collettivo politico se non se ne condividono più contenuti e comportamenti, perfino etici».
Intendevo dire come si sta politicamente, visto che fatica a nascere un nuovo soggetto politico unitario a sinistra...
«È vero, ma si guardi a quel che accade in Europa. La crisi dei socialisti francesi è drammatica, quella degli spagnoli è esplosa con la nascita del governo Rajoy, e in Grecia, non esistono più».
Dunque ha ragione Renzi a voler cambiare rotta al Pd?
«Affatto. Lo spazio politico esiste: ma vanno reincarnati i valori storici, con forme e modi che certo possono essere diversi dal passato. Non è stato fatto e gli effetti si vedono: Syriza e Podemos, per dire, sono altra cosa rispetto a quel che si pensava. Ma in Italia restare nella tradizione, innovandola, è possibile: e non è troppo tardi».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
IL PD E IL DEFICIT DI DEMOCRAZIA INTERNA
PIERO IGNAZI Rep
“FUORI, fuori” è il grido che si è levato dalla platea della Leopolda quando Matteo Renzi ha attaccato la minoranza guidata dall’ex segretario Pierluigi Bersani. Questo urlo liberatorio, sollecitato e per nulla frenato dallo stesso Renzi, contrariamente a quanto invece aveva fatto Maria Elena Boschi di fronte alla selva di fischi indirizzati a Massimo D’Alema, dice molto dello stato dei rapporti interni al Pd, e dell’animus dell’attuale maggioranza.
Il Pd sta veleggiando verso una leadership con pulsioni cesariste. Il dominio di Renzi non dipende tanto dal consenso ricevuto nella sua corsa alla segreteria: i voti ricevuti (67%) sono stati infatti inferiori a quelli con cui Veltroni era arrivato alla guida del Pd nel 2007 (76%). La differenza riguarda, oltre a caratteristiche personali e contesti politici diversi, le risorse su cui Renzi ha fatto aggio: principalmente, un gruppo di sodali estremamente coeso e convinto, una comunità dai tratti fideistici, devota al capo. Una sorta di “setta” — in termini weberiani — , andata ad ingrossarsi nel corso del tempo mantenendo però le stesse caratteristiche dell’inizio. In questa specifica dinamica leader-seguaci, l’ammirazione deborda spesso in adulazione e asservimento. La critica non è ammessa, pena l’allontanamento dal contatto diretto e privilegiato con il capo, che comunque può sempre recuperare e “perdonare” l’eventuale reprobo: si veda il rientro in scena di Matteo Richetti.
La Leopolda dello scorso fine settimana ha reso evidente l’evoluzione del gruppo fondativo in assemblea comunitaria di fedeli. Il calore umano, la condivisione di destino, l’empatia fino alla trasfigurazione, che quella riunione ha espresso manifestano lo slittamento del Pd verso una leadership cesaristica con incipienti tratti carismatici (e non per nulla Renzi fa spesso riferimento a La Pira). È quindi impervio far coesistere posizioni diverse e anche antagoniste in un “partito del capo” quale si sta configurando il Pd. In un clima come quello emerso a Firenze non sembra esserci più spazio per le minoranze. Gli oppositori non sono legittimi portatori di opinioni diverse bensì nemici interni, «pidocchi sulla criniera di un purosangue», per citare Palmiro Togliatti, uno che sapeva come trattare i dissidenti… Ora, è vero che in nessun partito le opinioni in contrasto con quelle della leadership sono apprezzate. Ma vi sono modalità di convivenza codificate che consentono l’espressione di posizioni diverse attraverso la costituzione di correnti (come accadeva nei tempi passati alla Dc e agli altri partiti). Pensiamo al caso dell’attuale leader del Labour party britannico, Jeremy Corbyn. Nella sua lunga carriera parlamentare ha contestato la politica del “New Labour” di Tony Blair tanto da votare 487 volte contro il proprio governo. Ma nessuno ha mai pensato di espellerlo o di non ricandidarlo nel suo collegio. Anzi, quando si sono raccolte le firme per la presentazione delle candidature alla segreteria molti parlamentari blairiani, con grande fair play, hanno dato la loro firma affinché potesse presentarsi. Questo perché il Labour, come tutti i grandi partiti europei, è sempre stato attraversato da discussioni infuocate e contestazioni durissime.
Il Pd sconta invece un deficit di democrazia interna. Tutto il dibattito di questi anni si è concentrato sull’inclusione, cioè sull’apertura alla società per far partecipare anche i simpatizzanti al processo decisionale. È rimasta invece ai margini la questione del pluralismo, della pari opportunità riconosciuta a tutti di esprimere, e soprattutto organizzare, le proprie posizioni in difformità da quelle della maggioranza. Formalmente, come è ovvio, il Pd riconosce nel suo statuto, all’art. 7, “il rispetto del pluralismo delle opzioni culturali e delle posizioni politiche al suo interno come parte essenziale della sua vita democratica”, ma nella prassi la demonizzazione e la scomunica lanciata contro gli oppositori interni, rei di voler riconquistare la guida del partito come fosse un delitto di lesa maestà, svuotano di senso quelle parole. La leadership di Matteo Renzi non contempla condivisioni e accordi nati dalla contrattazione tanto da considerare con fastidio processi inclusivi come quello messo in atto dal vice-segretario Guerini sulla legge elettorale: contempla piuttosto l’adesione spassionata ai fini indicati dal leader. In questo clima culturale ed emotivo è difficile immaginare la convivenza con le minoranze. Eppure un grande partito “democratico” deve superare questa situazione perché altrimenti si mette sullo stesso piano dei suoi concorrenti, dal Movimento 5 stelle a Forza Italia, che non sono certo modelli da imitare, e soprattutto impoverisce la democrazia italiana.
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Emanuele Macaluso “Noi dopo gli scontri ci scrivevamo. Un partito è una comunità o muore”
intervista di Alessandra Longo Repubblica 8.11.16
ROMA.
Dall’alto dei suoi 92 anni portati benissimo, Emanuele Macaluso guarda
il Pd, partito cui non ha aderito, e scuote la testa: «Comunque vada il
referendum, vinca il Sì o il No, ormai si è determinato un clima che è
brutto presagio per il futuro. Il Pd perderà in qualsiasi caso perché un
partito è una comunità e se non c’è più la comunità non c’è più il
partito».
Nel suo blog su Facebook, lei definisce «un comiziaccio
gridato » il discorso di chiusura alla Leopolda. Che impressione le ha
fatto quel “Fuori! Fuori!” urlato dalla platea nei confronti della
minoranza Pd?
«La trovo un’indecenza. Purtroppo questo è il Pd con
questo segretario, con part
e della maggioranza e della minoranza che
non sanno gestire il loro ruolo democraticamente e pacatamente ».
Andrà a finire con una scissione?
«Bersani non ha questa vocazione alla rottura. Forse qualche altro gruppetto, forse D’Alema ci pensa da un po’ di tempo».
L’espulsione dei dissidenti la esclude?
«Formalmente
la escludo. Però il clima che si è creato renderà impossibile la
convivenza, a prescindere da chi vinca il 4 dicembre. Con l’affermazione
del Sì si rafforzeranno gli sponsor del Pd “da ripulire” e si potrebbe
andare verso quel PdR, Partito di Renzi, che io giudico pessima cosa. Se
vince il Fronte del No ci sarà un’ondata contro Renzi, chiederanno le
sue dimissioni, la sua testa, e il Pd non potrà più dare le carte».
Le rotture umane, oltre che
politiche, sono le peggiori.
«È
proprio questo il punto. Io e Ingrao ci siamo sempre duramente
scontrati politicamente ma poi entrambi ci scambiavamo lettere
affettuose. Ancora oggi, ogni 15 giorni, pranzo insieme ad Aldo
Tortorella... Financo Occhetto, autore della svolta nell’89, non ha mai
pensato di buttare fuori chi non la condivideva. Tornando indietro, all’
XI Congresso del Pci, rivedo Ingrao, sempre lui, che attacca a testa
bassa la linea di Longo, di Amendola, dell’allora gruppo dirigente. Ci
fu chi chiese di toglierlo dall’Ufficio politico ma io, Berlinguer e
Natta andammo da Longo a dire che doveva rimanere al suo posto. Longo fu
assolutamente d’accordo: “Non se ne parla nemmeno. Ingrao resta
dov’è”».
Questo per dire?
«Per dire che il segretario di un
partito non può essere divisivo. Renzi, a mio avviso, ha un deficit
politico. Non capisce che in questa fase lo sforzo deve essere
inclusivo. Invece di usare parole pacate dicendo a Bersani che sta
sbagliando, alla Leopolda ha sollecitato la reazione di parte della
platea».
Bersani sta sbagliando?
«Non ha dimostrato grande
acume politico, ha fatto un errore serio. Ha votato tre volte la riforma
costituzionale e non la legge elettorale vincolando il suo Sì al
referendum alla modifica sostanziale dell’Italicum. Quella modifica c’è
stata con l’ accordo firmato da Gianni Cuperlo, che ha fatto bene il suo
dovere di minoranza, ma Bersani, che pure non è un arrogante e ha altre
buone qualità, continua a sostenere il No».
Considerano l’accordo carta straccia.
«Non è un documento interno al Pd ma un impegno assunto davanti a tutta l’opinione pubblica ».
Intanto è calato il gelo della minoranza nei confronti di Cuperlo e alla Leopolda si son viste quelle scene.
«Appunto:
perde il Pd, che rimane l’unica forza organizzata di un certo
centrosinistra. Purtroppo questo è il risultato di come si concepisce la
politica oggi, una guerriglia, con i suoi morti e i suoi feriti».
Un capo in cerca di acclamazione
di Michele Prospero il manifesto 8.11.16
Si
possono anche ridurre i cori della Leopolda a un eccesso di spirito
fazioso. O leggere i toni di Matteo Renzi come un’esagerazione
espressiva di un leader che gioca a indossare la maschera del bullo.
Così però si evita il cuore della questione, che non riguarda una
vampata di calore del pubblico o un’ambigua psicologia del capo.
Esiste
un nesso tra l’ideologia originaria del renzismo (la rottamazione) e la
recita aggressivo-denigratoria che si ripete con regolarità. Questo
collegamento sfugge a Marco Travaglio che, pur essendo uno dei bersagli
delle intemperanze (non solo) verbali del premier, tende a salvare il
moto primitivo della rottamazione, come pratica ispirata a valori
d’innovazione positivi, poi smarriti nella gestione del potere. Non
esiste però una bella promessa di rottamazione che poi è andata tradita.
Quello che va in scena nei teatri, in parlamento, al Nazareno è
precisamente lo spirito inverato della riconduzione del nemico a un
ammasso di cose-corpi insignificanti, da annichilire. È insita
nell’ideologia della rottamazione la conquista degli spazi di potere in
nome dell’energia, della volontà di azzerare ogni residuo di diversità
percepito come fattore di disturbo.
Chi agita la rottamazione come
simbolo identificante, una volta conquistato lo scettro, rinuncia ad
ogni discussione entro gruppi dirigenti plurali. Brucia ogni
argomentazione, verifica, analisi. Teme la logica, perché il vecchio De
Mita lo ha strapazzato con il pensiero. Il potere, rivendicato come una
manifestazione di energia che abbatte le vecchie resistenze, non ha
altro canone di giustificazione che la esibizione di potenza, la
simulazione di rapidità nella decisione.
Il fastidio per la
differenza (rimozione d’imperio dei parlamentari dissenzienti dalle
commissioni), la repulsione per la critica (allontanamento di Belpietro e
di Amadori da Libero), l’insofferenza per il servizio pubblico
(epurazione di Giannini da Ballarò e di Berlinguer dal Tg3), la volontà
di sorveglianza e punizione (diapositive con i titoli dei giornali
sgraditi dati in pasto alla disapprovazione dei seguaci) non sono
incidenti di percorso. Sono il nerbo della rottamazione. Che è un corpo
del capo in cerca di acclamazione.
E la insegue, senza riuscirvi,
nelle piazze, che rimangono vuote e anzi ospitano manifestazioni di
insubordinazione. Si rifugia perciò nei luoghi sorvegliati, dove i suoi
gradi di comando incutono timore e quindi ricevono l’obbedienza che si
mostra nella disponibilità dei subalterni a ridere persino delle battute
più sciocche. E questo accade nelle surreali direzioni di partito, con
schiere di eletti che plaudono perché cercano solo la conservazione del
seggio, nelle recite nei teatri o nei convegni degli industriali con
questuanti che fingono gradimento perché aspettano incentivi.
Nella
storia repubblicana la coincidenza tra la carica di presidente del
consiglio e quella di segretario di partito si è riscontrata solo in
brevi frangenti. Questa repulsione all’intreccio delle funzioni di
leadership aveva una sua giustificazione che esce confermata. Renzi
trascina il ruolo pubblico di capo del governo in una rissa che
contrasta profondamente con la funzione istituzionale ricoperta.
Nel
suo partito personale nessun figura di garanzia interviene per
ricondurre il leader entro un universo di regole. La minoranza, che
viene cacciata con il furore della milizia personale di chi guida il
partito-persona, non trova alcuna protezione negli strumenti
garantistici di un non-partito del leader. In occasione del referendum
di Segni per il maggioritario, cioè in uno scontro politico non meno
decisivo di quello del 4 dicembre, furono molti gli esponenti del Pds a
votare in maniera diversa da quella del partito. In un dissenso
organizzato Ingrao, Rodotà, Tortorella, Ferrara, Chiarante, Natta si
impegnarono attivamente nei comitati per il no. E non ci furono
invocazioni di misure sanzionatorie o denigrazioni come esponenti di un
fronte di sabotaggio che voleva riprendersi il partito. Con Renzi il
referendum diventa un passaggio plebiscitario per edificare un potere
personale. Per questo la rottamazione se realizzata emana la sgradevole
puzza di regime.
Lo scontro con l’Europa diventa un’arma per dicembre
di Massimo Franco Corriere 8.11.16
Subìto
o cercato, lo scontro con la Commissione europea sta diventando uno dei
cardini della campagna referendaria di Matteo Renzi. In confronto, la
rissa con la minoranza del Pd, i «fuori!» gridati al convegno della
Leopolda contro i Bersani e i D’Alema sono beghe da cortile partitico.
Per tentare la rimonta sul No e sul voto degli indecisi, lo smarcamento
dai parametri europei appare più «popolare». «I sondaggi dicono che un
terzo degli italiani è indeciso, non ha la più pallida idea del
referendum», spiega ai suoi. «Bisogna andare casa per casa...».
In
larghi settori dell’opinione pubblica, l’Europa è un bersaglio facile.
Evocarla in negativo significa rivendicare l’interesse nazionale contro
alleati egoisti in tema di migranti e di terremoto: giudizio diffuso,
sul primo punto. E pazienza se è una strategia dalle conseguenze
imprevedibili, compreso l’isolamento. La decisione di prevedere spese
che l’Italia non si potrebbe permettere, sembra presa. M5S e Lega
parlano di «finte liti» di Renzi con l’Ue; ma solo perché temono di
essere sfidati sullo stesso terreno euroscettico.
La novità è che
la Commissione Ue stavolta appare determinata a non trattare. Si è
convinta che il governo di Roma abbia imboccato la strada del deficit. E
risponde con una durezza e una rozzezza verbale che sorprendono. Il
presidente Jean-Claude Juncker, uomo di solito prudente, afferma che
l’Italia continua a «attaccarci a torto. Non può più dire, e se lo vuole
dire lo può fare ma in realtà me ne frego, che le politiche di
austerità sarebbero state continuate da questa Commissione come in
precedenza». Non solo. Lascia capire che Renzi userebbe le emergenze per
avere più soldi del necessario.
Con una punta di improvvisazione,
Juncker ha detto che i costi «aggiuntivi» per migranti e terremoto
varrebbero lo 0,1% del Pil. E invece, l’Italia propone un deficit del
2,4 per cento dopo avere assicurato che nel 2017 lo avrebbe tenuto
all’1,7. Se oggi può spendere 19 miliardi di euro in più, è perché la
flessibilità è stata già concessa, le rinfaccia Juncker. Si tratta di un
annuncio di scontro dietro il quale è difficile vedere solo il
presidente: si indovina la filiera delle nazioni nordeuropee.
«Rispettino gli impegni sui migranti», risponde Renzi, «e il bilancio
dell’Italia migliorerà».
E subito annuncia che prenderà «i soldi
per il sisma, piaccia o no, fuori dal patto di Stabilità». Idem quelli
per l’edilizia scolastica. «Noi facciamo il salvadanaio e gli altri,
nell’Ue, alzano muri». Lo scambio anticipa quello con Bruxelles sulla
legge di Bilancio del ministro Pier Carlo Padoan, ritenuta priva di
coperture finanziarie adeguate. D’altronde, alla Leopolda il premier si è
scagliato contro il ritorno di un governo tecnico ispirato, di fatto,
dall’Ue. Rimane il paradosso di un Renzi che chiede un Sì per
legittimare l’Italia davanti all’Europa. Ma finisce per azzuffarsi
proprio con quell’Europa.
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