venerdì 11 novembre 2016

Difficile ritorno alla realtà per il sistema dei media



Un'associazione vicina a Soros paga la gente per scendere in piazza contro il tycoon. Le tariffe: dai 15 ai 22 dollari
Giornale

A New York tra i giovani che guidano la rivolta “Non è il mio presidente” Manifestazioni contro il tycoon in tutto il Paese “È razzista e sessista”. Oltre cento in manette Francesco Semprini  Busiarda
«Ci vediamo tra un’ora a Union Square». «Bene, gli altri sono lì ad aspettarci. Mi raccomando, ricordati la bandiera della pace». «Già messa nello zaino, tu piuttosto non dimenticare lo striscione #NotMyPresident». Inizia così, con un ultimo scambio di messaggi su WhatsApp, la notte più lunga del popolo anti-Trump, più lunga anche di quella trionfante del candidato repubblicano e della sua maggioranza silenziosa.
Questa volta è il turno dell’opposizione rumorosa. È la notte anti-Trump di Sarah e compagni, lei studentessa della New School University che l’8 novembre ha fatto il suo esordio alle urne e ha dovuto fare i conti con la peggiore delle sconfitte. «Abbiamo il diritto a protestare contro sessismo, razzismo, discriminazioni contro gli invalidi», urla Julia, quasi 30 anni, discografica. È con lei che Sarah si stava scambiando i messaggi prima della grande adunanza a Union Square, epicentro delle proteste della New York progressista e liberal. Come loro, altre migliaia di persone si sono date appuntamento su Facebook e su Twitter in nome dello slogan «Not My President», declinato in tutte le formule social. Con Sarah e Julia ci sono Nicholas e Ramon, il primo figlio di un ex lavoratore dell’acciaio che ha votato Trump, convinto di poter riavere un’occupazione e la dignità. «Mio padre si è fatto prendere in giro, votare per una persona che predica l’odio è folle». Ramon invece è il tuttofare di un palazzo di Bay Ridge a Brooklyn, domenicano di 50 anni che spera di potersi ricongiungere con moglie e figli quanto prima. O almeno lo sperava. «Il muro gli cascherà addosso - dice -, vuole dividere le nostre famiglie, ma si accorgerà che senza di noi questo Paese è finito». Quattro persone, quattro storie diverse, ma che riconducono tutte alla Trump Tower.
È lì, all’incrocio tra 56esima e Fifth Avenue, che convergono le masse anti-Trump provenienti da tutta New York. Del resto tutti i quartieri della Grande Mela hanno votato contro «The Donald» a parte Staten Island, roccaforte repubblicana. Ed è proprio lì, sotto la Torre d’avorio del tycoon, che la polizia ha organizzato una grande gabbia di transenne, mentre agenti in tenuta antisommossa creano cordoni di sicurezza nelle strade circostanti.
Era dai tempi di «Occupy Wall Street», il movimento che si batteva contro le politiche a favore dell’1% dei ricchissimi, che nella City non si vedeva una mobilitazione così massiccia. Da Sud verso Nord un fiume di persone cinge d’assedio Midtown: vengono da Union Square appunto, ma anche da Washington Square, la piazza con l’arco e la statua di Giuseppe Garibaldi. Dall’eroe dei due mondi hanno preso in prestito il rosso della camicia per sventolarlo su aste di legno. Ci sono vessilli socialisti, anarchici, sindacalisti, di Black Lives Matter, «Pussy power» e dello sterminato popolo di Bernie Sanders, il senatore sconfitto da Hillary alle primarie: «Chissà se ci fosse stato?». Ma oggi non c’è tempo per le recriminazioni, oggi si sfila uniti contro il «mostro»: «Trump Makes America Hate», campeggia su un cartello stretto tra le mani di George, 40 anni, dipendente di una società di spedizioni. «Adesso Trump ci impedirà di ricevere pacchi dal Messico», dice sarcastico mentre si unisce a Sarah e ai suoi compagni di viaggio. George viene da Times Square insieme a diverse centinaia di manifestanti, mentre un altro gruppo arriva da Columbus Circle dopo aver sfilato sotto il Trump Hotel International. C’è anche spazio per il dissenso, come quello di una coppia di turisti che non riesce a entrare in albergo, o di un signore che non può raggiungere casa: «sfigati». E chi invece, come Sarah Abdallah, domanda: «Dove erano tutti questi liberal quando Obama e Hillary hanno annientato la Libia e armato i terroristi in Siria?». La protesta va avanti. Dopo qualche ora la Quinta Avenue dalla 42esima a Central Park è zona occupata, delimitata da fumogeni e picchetti su semafori e impalcature: «New York odia Trump».
New York e non solo, perché l’ondata di protesta si solleva dai quattro angoli del Paese. Davanti alla Trump Tower di Chicago, a Los Angeles, a Washington, dove tutto parte con una fiaccolata davanti alla Casa Bianca. Manifestazioni anche in molti atenei, a partire dalla marcia organizzata dagli studenti della storica università di Berkeley, in California, culla del movimento studentesco e pacifista degli Anni 60. Proteste anche nei campus di Santa Barbara, della Temple University, e delle università della Pennsylvania e del Massachusetts. Almeno 25 città in rivolta per un totale di oltre 100 arresti, 65 di questi solo a New York, alcuni a due passi proprio da Sarah e i suoi compagni, sino a tarda notte. Sino a quando Julia e Nicholas si salutano, Ramon riprende la metro verso Brooklyn, mentre Sarah dà a tutti appuntamento alla prima di Trump alla Casa Bianca: «Ci si vede il 20 gennaio, ovviamente a DC».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Proteste contro The Donald: «Dureranno quattro anni»
Stati uniti. Le manifestazioni di ieri non saranno un episodio isolato, ma sono il segnale che non sarà una presidenza semplice quella di Trump che rischia, da qui in avanti, di ritrovarsi sempre metá nazione a ricordargli che non si ritiene rappresentata da lui e con la quale dovrà fare i conti
NEW YORK Manifesto 11.11.2016, 10:07
A meno di 24 ore dall’elezione di Trump come presidente, in più di venti città degli Stati uniti i cittadini sono scesi in piazza, numerosi, per manifestare la propria contrarietà e la propria preoccupazione. Migliaia di persone a Boston, Chicago, New York, Seattle, Oakland, Austin, Portland, Albuquerque, Los Angeles, si sono organizzate tramite un tam tam online e nel giro di poche ore sono arrivate nei luoghi di concentramento.
La manifestazione più imponente, come prevedibile, è stata quella di New York dove, sotto la Trump Tower, si sono riuniti due eventi: un rally, vale a dire una specie di comizio che si è svolto a Columbus Circle, l’angolo sud ovest di Central Park, e un corteo partito da Union square, downtown Manhattan. Oltre 10.000 persone per un corteo che ha occupato venti isolati: si tratta di numeri imponenti in America.
La composizione di questo corteo, così come quello delle manifestazioni nelle altre città, era estremamente vario: Occupy Wall Street, i sanderisti, Black Lives Matter, il movimento Lgbtq e poi qualsiasi gruppo che si è sentito offeso da Trump durante la sua violentissima campagna elettorale: rappresentanti della comunità messicana, musulmana, donne, uniti nel dire «Non sei il nostro presidente».
Dopo mesi di dichiarazioni offensive, drastiche, Trump è salito sul podio ed ha pacatamente annunciato che sarà il presidente di tutti, e che da ora in poi il paese deve essere unito. Come a dire, «Tutto passato, voltiamo pagina».
Questo per le migliaia di persone in piazza, ieri, non è accettabile, e se ora vuol essere il presidente di tutti, non è detto che tutti ora lo vogliano come presidente. Un altro messaggio che arriva da questa manifestazione è un avvertimento: c’è una parte di America che lo osserva, ed è pronta a manifestare ogni volta che ce ne sarà bisogno, non gli lascerà applicare il suo folle programma in silenzio, ed il piano è quello di mobilitarsi già da ora per le elezioni di medio termine, che avverranno tra due anni, in modo da rimettere in mano ai democratici camera e senato, ed arrivare in forze al 3 novembre 2020, data delle prossime presidenziali.
Per le strade c’era anche Michael Moore che ha fatto un livestream della manifestaione e che il giorno dopo ha pubblicato sul suo sito e poi pubblicizzato tramite tutti i suoi canali social, le azioni da compiere subito, prima che Trump possa fare troppi danni. In questo momento i cittadini americani hanno il compito di far sentire il dissenso; con tutti gli organi di potere in mano repubblicana e sempre un giudice della corte suprema da eleggere, la base non può delegare tutto ai propri depotenziati rappresentanti, e di questo i manifestanti sono consapevoli.
«Durante l’era Bush sono stato un attivista e un radio-giornalista – dice Rob Vincent, hacker, e tutt’ora giornalista e attivista – adesso mi sento come se dei muscoli che non uso da 8 anni stiano ricominciando a lavorare».
L’America di oggi non ha alle spalle solo i due mandati di Obama, ma l’esperienza di un’opposizione che era diventata sistematica, alla presidenza Bush; dopo questa c’è stata Occupy Wall Street, il nuovo movimento per i diritti civili degli afro-americani, il fenomeno Bernie Sanders.
Le manifestazioni di ieri non saranno un episodio isolato, ma sono il segnale che non sarà una presidenza semplice quella di Trump che rischia, da qui in avanti, di ritrovarsi sempre metà nazione a ricordargli che non si ritiene rappresentata da lui e con la quale dovrà fare i conti.
Le offese di Trump risuonano ancora nelle orecchie di chi le ha ricevute e coprono uno spettro ampio della popolazione.
Il timore di molti è che queste manifestazioni possano incrociarsi e quindi scontrarsi con quelle dei sostenitori di Trump che ha più volte invitato la sua base a non perdersi in sciocche correttezze e passare all’azione con i propri avversari.
Al momento ciò non sta accadendo, ma le piazze non rimarranno vuote. «Devo allontanarmi in attimo, fino a quando continua questa protesta?» – ha chiesto un ragazzo a una militante davanti la Trump Tower, l’altra sera. «Quattro anni» è stata la risposta.

Perché non c’è nessuna «rivoluzione»
American Psycho. Obama solo in parte sconfitto
 Manifesto 11.11.2016, 23:59
Nei numeri del voto non c’è nessuna «rivoluzione Trump»: gli esiti dicono che il paese è diviso a metà, come tutti sapevano anche prima delle elezioni.
Più precisamente, se si guarda al voto popolare, la metà di Clinton è un po’ più abbondante di quella di Trump. Anche se i dati non sono definitivi in un terzo degli stati, Clinton risulta in vantaggio di circa 300.000 voti. Probabilmente alla fine saranno di più, e lo scarto a suo favore sarà superiore a un punto percentuale.
Ma Clinton ha perso, così come aveva perso Gore nel 2000, nonostante mezzo milione di voti popolari in più rispetto a Bush jr. Questo fa rabbia, indipendentemente dalla simpatia o antipatia per la candidata e dalle opinioni in merito all’opportunità stessa della sua candidatura.
Trump ha ripetuto spesso, durante la campagna, che il «sistema è falsato». È vero. Lo è in molti modi. E il sistema maggioritario e dei Grandi elettori, che lui temeva giocasse a suo sfavore, gli ha dato invece la vittoria. E se prendendo anche solo 190.000 voti in più Clinton si fosse presa i 49 Grandi elettori di Florida e Pennsylvania oggi i commenti sarebbero tutti sul suo previsto successo, sulla felice eredità di Obama e così via.
Dire tutto questo non è consolatorio; anzi, dovrebbe aiutare a capire quanto un candidato così poco qualificato, come era stato anche Bush, possa arrivare alla Casa Bianca grazie a un meccanismo elettorale concepito proprio per rendere possibile lo stravolgimento del voto popolare. Certo, in teoria, esiste la possibilità che un certo numero di Grandi elettori decida di «deviare» il proprio voto verso Clinton, dando a lei una vittoria coerente con la volontà popolare. Ma è ovvio che non accadrà, e a partire dal prossimo gennaio Trump potrà cercare di attuare la sua «rivoluzione» reazionaria.
Si vedrà allora se le mobilitazioni di base che avevano sostenuto le candidature di Obama, di Sanders e in parte di Clinton; se i movimenti contro le disuguaglianze economiche e per l’innalzamento del salario orario minimo; se i movimenti di neri e ispanici troveranno la forza per contrastare un Congresso a maggioranza repubblicana e il Trump presidente, che insieme – nulla come il Potere ha il potere di smussare diffidenze personali, differenze politiche e divisioni interne ai partiti – cercheranno di smontare quel tanto di stato sociale ancora in piedi e che Obama aveva cercato di rinforzare.
Molti di quelli che scrivono in questi giorni si dicono poi preoccupati per la democrazia, facendo finta di non sapere o non essendosi mai preoccupati, prima, per la tanta democrazia che i plutocrati hanno già sottratto agli statunitensi negli ultimi decenni.
Anche Obama, si dice, è stato sconfitto. È vero solo in parte.
Non c’è dubbio che la sua visione politica non sia stata riproposta e che la «linea» più moderata di Clinton sia uscita perdente, ma non si può sottovalutare né il fatto che non era lui a essere in lizza, né che le differenza di politica e di personalità tra lui e Hillary Clinton erano grandi e note, né che dietro il candidato c’è sempre – almeno tra i democratici, nel bene e nel male – anche il partito.
Quella in cui siamo ormai ingabbiati, è una politica personalistica. E se meno afroamericani, meno ispanici, meno giovani hanno votato per Clinton di quanto avevano votato per Obama quattro anni fa (88% invece di 96%; 65 invece di 71; 55 invece di 60) questo vorrà pur dire qualcosa.
E’ diminuito ancora il numero dei votanti (di circa tre milioni), ma la cosa può anche essere dovuta in buona parte al disgusto per questa campagna elettorale, oltre che al fatto che Hillary è stata meno elettrizzante e convincente di Barack.
I democratici hanno perso 6 milioni di voti popolari rispetto al 2012; e Trump ha vinto nonostante abbia preso oltre un milione di voti in meno rispetto a Mitt Romney.
Sono stati il Sud, tutto repubblicano da cinquant’anni, le Praterie agricole e la provincia agricola ovunque a votare per Trump. Le città sono rimaste prevalentemente democratiche, ma non abbastanza.
Il quadro merita analisi non frettolose. Sottolineo un solo punto.
In Pennsylvania, Michigan e Wisconsin – quegli stati della rust belt che avrebbero dovuto dare, ma non hanno dato, la maggioranza a Clinton – i centri industriali o ex industriali hanno effettivamente votato per lei.
Non c’è dubbio che la conferma del voto democratico sia anche il frutto delle politiche di sostegno alle imprese e all’occupazione e di estensione dei sussidi ai disoccupati messe in atto in quelle aree da  Obama negli anni della crisi. Ma in quelle città tante industrie hanno chiuso o se ne sono andate e hanno lasciato dietro di sé macerie tanto fisiche, quanto demografiche ed elettorali.
Per esempio, nella Wayne County della disastrata Detroit, Clinton ha perso 79.000 voti rispetto al 2012, e ha poi «perso» il Michigan per 12.000 voti. A Milwaukee ha avuto 43.500 voti in meno e ha perso il Wisconsin per 27.000 voti. La Pennsylvania è stata persa per 68.000 voti, nonostante le maggioranze democratiche a Filadelfia, Pittsburgh e negli altri centri.
In altre parole, quel voto «operaio» che non è solo bianco, e che Obama aveva trattenuto nel 2012, e che ora molti hanno sbrigativamente assimilato al voto «bianco» e «arrabbiato» per Trump, è stato molto probabilmente perso, più che per i limiti di Clinton (e nonostante i meriti di Obama), a causa della fuga dalle città una volta operose.

Una squadra di falchi per The Donald. E da Teheran all’Avana il mondo trema
Tutti gli uomini del presidente. Dall’impunità per i poliziotti dalla pistola facile al possibile ritorno della guerra fredda
 Manifesto 11.11.2016, 23:59
Il cop, il poliziotto bianco che sparerà contro un africano americano disarmato d’ora in poi avrà ancor meno da temere di quanto non avvenga oggi. Sarà anzi premiato. L’agente assassino avrà convintamente dalla sua parte sia Rudy Giuliani, il sindaco-sceriffo della «tolleranza-zero», sia Chris Christie, il gaglioffo governatore del New Jersey che fece creare ad arte maxi ingorghi all’ingresso di un ponte che collega il suo stato con Manhattan per inguaiare il sindaco, democratico, della cittadina dove inizia quel ponte, colpevole di non essere passato dalla sua parte. Christie è ormai conosciuto non solo per il Bridgegate ma anche per le sue pose da bullo ridotto però a fare letteralmente il domestico di The Donald. Entrambi sono in corsa come attorney general.
A Teheran e all’Avana, intanto, si preparano a tornare alla «guerra fredda» pre-obamiana. Leggono, anche in quelle capitali, i nomi che circolano per la sostituzione di John Kerry: Newton Gingrich e John Bolton.
«Newt» è una vecchia conoscenza della politica washingtoniana. Speaker della camera negli anni 90 aveva chissà quale carriera davanti, proponendosi come l’anti-Clinton repubblicano. Non è mai più riuscito a tornare in prima fila, se non, quest’anno, grazie a Trump. Mentre tutti i papaveri repubblicani prendevano le distanze da The Donald o tramavano per farlo fuori, Newt, e con lui Christie e Giuliani, ne diventavano i più solidi alleati e, nella parte finale della corsa, i principali consiglieri e i «surrogati» che ne facevano le veci con comizi e interviste.
Per questo s’attendono adesso di essere ricompensati con i premi più ambiti, i posti chiave nell’amministrazione Trump. Christie, intanto, guiderà il team del nuovo presidente incaricato della transition, la fase del passaggio dei poteri dall’attuale alla nuova amministrazione.
Quale è il loro profilo politico? Qual è l’amalgama della nuova squadra presidenziale? Basti dire che Donald Trump è più affidabile, meno ottuso, meno cattivo, meno «falco» di ognuno di loro. Sarà il volto più presentabile della banda Bassotti che governerà l’America dopo Obama.
L’amministrazione repubblicana che s’insedierà a gennaio – sostiene una certa vulgata sui media italiani – sarà più pragmatica e meno ideologica, più dentro i canoni consueti dell’azione di governo rispetto allo stile rude della campagna elettorale di The Donald. Faranno squadra, non faranno gli squadristi, ci assicurano i nostri commentatori. Come non tirare un sospiro di sollievo se sarà così.
Il dubbio che possa essere così, più che dalle loro storie politiche di estremisti di destra, viene dai nomi dei cosiddetti «tecnici» che sono entrati nella rosa dei candidati a posti di ministri di massimo rilievo. Nomi come Stephen Hadley, uomo chiave della presidenza di George W. Bush, o di un altro super falco, l’ex generale Michael Flynn, già capo dell’intelligence militare, entrambi indicati per la guida del Pentagono.
Ma il nome più inquietante è quello di John Bolton, baffi da tricheco, ambasciatore all’Onu all’epoca di Bush, beniamino dei neo-con, perfino più falco, se possibile, di Dick Cheney e di Donald Rumsfeld. Di quell’amministrazione è stato, con Cheney, la voce più critica verso la politica internazionale di Obama, in particolare sulla distensione con Cuba e con l’Iran. La sua nomina a segretario di stato o a consigliere per la sicurezza nazionale sarebbe il segnale più chiaro della cancellazione in tempi brevi delle intese siglate con Teheran e con L’Avana.
Altro posto di potere nel governo, il segretario al Tesoro, è poltrona ambita da Steve Mnuchin, a lungo ai vertici di Goldman & Sachs, mentre Forrest Lucas, cofondatore dell’omonima società petrolifera diventerebbe segretario agli interni. Un posto a cui ambiscono sia Donald Trump jr sia Sarah Palin, che comunque avrà un incarico di rilievo.
Capo dello staff potrebbe essere Reince Priebus, il presidente del Partito repubblicano che non ha mai mollato Trump anche quando tutto l’establishment del Gop aveva scomunicato The Donald. Ricompensarlo con la poltrona più importante nella macchina organizzativa della Casa bianca è il minimo.

Trump già approva la colonizzazione israeliana
Israele/Territori Occupati. Il consigliere del presidente eletto spiega che il tycoon non considera gli insediamenti ebraici un ostacolo per la pace e assicura che l'ambasciata Usa in Israele sarà trasferita a Gerusalemme, come aveva promesso in campagna elettorale.
GERUSALEMME Manifesto 11.11.2016, 23:59
Sprizzano felicità da tutti i pori i coloni israeliani e i ministri ultranazionalisti del governo di destra di Benyamin Netanyahu. Il neo eletto Donald Trump confermerà quanto aveva promesso a vantaggio di Israele in campagna elettorale. Almeno questo è ciò che sostiene uno dei suoi consiglieri più noti, Jason Greenblatt, candidato alla posizione di inviato in Medio Oriente della futura Amministrazione americana. «Trump non vede nelle colonie ebraiche un ostacolo alla pace» ha detto Greenblatt intervistato ieri da Galei Tzahal, la radio delle forze armate israeliane. Il consigliere ha aggiunto che il presidente eletto considera un errore l’evacuazione delle colonie ebraiche a Gaza nel 2005. Parole che hanno mandato in visibilio i coloni e i loro leader, alcuni dei quali seduti su importanti poltrone ministeriali. E devono essere state accolte con favore anche da Netanyahu. Il premier in queste ore evita di uscire allo scoperto ma la posizione di Trump è in linea perfetta con quanto lui va ripetendo da anni: la colonizzazione ebraica della Cisgiordania e di Gerusalemme Est è innocua e la responsabilità della tensione, delle violenze e del fallimento del negoziato è da attribuire soltanto ai palestinesi e ai loro leader.
La voce di Greenblatt è diventata musica celestiale per i nazionalisti israeliani quando il consigliere di Trump ha garantito che la nuova Amministrazione non imporrà una soluzione di pace a Israele e, più di tutto, che confermerà la promessa di trasferire l’ambasciata statunitense a Gerusalemme. In questo modo gli Usa riconoscerebbero l’intera città, inclusa la zona palestinese occupata nel 1967, come capitale dello Stato ebraico. «Trump è un uomo di parola», ossia non sarà come i suoi predecessori Democratici e Repubblicani, ha assicurato Greenblatt, «perchè riconosce il significato di Gerusalemme per il popolo ebraico, a differenza dell’Unesco».
Per il tycoon ora fioccano gli inviti dei coloni e dei “templari” fautori della ricostruzione del Tempio sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme. Il deputato Yehuda Glick, che a una conferenza sul tempio di qualche giorno fa ha incitato alla rottura dello status quo ribadito dall’Unesco con la sua risoluzione del mese scorso, ha invitato Trump a «salire» al Monte del Tempio. Poetico Yochai Damari, capo del Consiglio regionale delle colonie di Hebron. «Stiamo sentendo il battito delle ali della storia. Questa rivoluzione del 2016 mi riporta a 40 anni fa, alla rivoluzione del 1977 (quando la destra vinse per la prima volta le elezioni in Israele, ndr)…Se avremo successo potremo dire di essere  all’alba di un nuovo giorno per gli insediamenti e per lo Stato di Israele nel suo complesso». Un altro leader dei coloni Yossi Dagan, ricordando di aver attivamente aiutato la campagna di Donald Trump, ha esortato il governo a revocare il blocco alla costruzione di nuovi insediamenti perché, ha avvertito, il presidente americano eletto si sta rivelando più israeliano degli israeliani. «Conosco le persone che circondano Trump – ha spiegato – alcune donano agli insediamenti israeliani e sono anche più a destra di alcuni dei nostri ministri».
Con queste premesse le intenzioni di Trump, se messe in pratica, si riveleranno una miscela esplosiva capace non tanto di far saltare l’ipotetico rilancio del negoziato israelo-palestinese – inutile peraltro visti i rapporti di forza e il fallimento ormai riconosciuto ovunque della soluzione dei “Due Stati”, a causa proprio della colonizzazione – quanto di innescare gravi tensioni religiose nella regione. Trump vuole regalare, definitivamente, Gerusalemme a Israele e non sembra rendersi conto di cosa comporterebbe questa mossa. Gerusalemme Est non è soltanto rivendicata dai palestinesi come loro futura capitale politica. La Spianata delle Moschee, nella città vecchia, è il terzo luogo santo dell’Islam e già troppe volte quelle pietre si sono bagnate di sangue di fronte ai tentativi di infrangere uno status quo che Israele si è impegnato a rispettare. L’ignoranza e l’ottusità politica del nuovo presidente americano rischiano di appiccare un incendio devastante in tutta la regione.

Suprematisti con Trump: «Salverà la razza bianca»
Xenofobia. Martedi sera, dal suo quartier generale in un sobborgo residenziale di New Orleans, l’ex Gran Dragone del Ku Klux Klan David Duke è stato tra i primi a congratularsi, via social network, con Trump
 Manifesto 11.11.2016, 23:59
«Dio benedica Donald Trump. È venuto il tempo di fare le cose giuste, di rendere agli Usa il posto che meritano nel mondo. Voglio rendere omaggio a tutti i bianchi che hanno votato per la difesa della loro cultura e dei loro figli».
Martedi sera, dal suo quartier generale in un sobborgo residenziale di New Orleans, l’ex Gran Dragone del Ku Klux Klan David Duke è stato tra i primi a congratularsi, via social network, con Trump, certo che «con questa vittoria sono le idee per le quali combattiamo da una vita ad essersi imposte». Per lui in realtà l’onda di piena che ha portato il miliardario newyorkese alla Casa Bianca non è stata sufficiente per ripetere l’exploit che all’inizio degli anni Novanta gli aveva consentito di sedere per un certo tempo nel Senato dello Stato della Louisiana. Se il suo modello ce l’ha fatta, l’ex klanista ha subito invece, fortunatamente, una netta sconfitta nella sua corsa per il parlamento locale.
L’ultimo grande leader del suprematismo bianco – cui è dedicato il documentario di Riccardo Valsecchi, The Nazi Hustle – L’anima Nera di Donald Trump, arrivato nelle sale italiane alla vigilia del voto statunitense – che tra i primi aveva inaugurato fin dagli anni Ottanta la nuova linea del razzismo americano che punta a descrivere la comunità wasp come oggetto di discriminazioni e violenze da parte delle minoranze, si è fatto interprete di un entusiasmo largamente diffuso negli ambienti della destra radicale che, mentre si moltiplicano le manifestazioni degli antirazzisti contro il miliardario, annuncia di voler sostenere in ogni modo il nuovo presidente, anche di fronte a coloro che «in queste ore – come ha scritto ancora Duke – incitano i loro soldati di strada a combattere una guerra contro il nostro popolo».
Se nella notte elettorale americana il commentatore, afroamericano, della Cnn ed ex consigliere di Barack Obama, Van Jones, ha coniato il termine di white-lash, espressione che unisce i termini white, bianco, e backlash, che sta sia per «contraccolpo» che per «reazione negativa», per definire il terremoto politico che prendeva corpo di fronte ai suoi occhi mano a mano che si chiudevano i seggi nei diversi Stati, «questo voto rappresenta una ribellione contro le élite, ma è anche un white-lash contro un presidente nero e un paese che sta cambiando», ha spiegato il giornalista, ai quattro angoli del paese gruppi ed esponenti della galassia suprematista e anti-immigrati hanno fatto sapere di considerare quella di Trump come una vittoria delle loro idee che sono pronti a difendere a qualunque costo.
L’ex marine Jim Gilchrist, un reduce del Vietnam che è stato tra i fondatori oltre una decina di anni fa del Minutemen Project, gruppo ispiratore delle numerose formazioni, spesso a vocazione paramilitare, che pattugliano la frontiera con il Messico, specie in Arizona, per «fermare l’invasione» dei migranti, ha fatto sapere che con la conquista della Casa bianca di Trump, apertamente sostenuto da simili gruppi, considera di aver portato a termine il suo compito di patriota: «Ora spetterà al nuovo presidente completare l’opera e chiudere le frontiere».
Simili i toni anche presso il «popolo del II emendamento», i sostenitori della libera circolazione di ogni sorta di arma da fuoco da cui è sorto anche il cosiddetto movimento delle Milizie. Gli Oath Keepers, uno dei gruppi più radicali e attivi di quest’area che aveva risposto all’evocazione di possibili brogli da parte del candidato repubblicano annunciando che i propri aderenti avrebbero presidiato, in armi, i seggi elettorali, si è aggiunto alle felicitazioni per Trump annunciando che anche in futuro «il presidente potrà contare sul nostro sostegno».
Jared Taylor, considerato uno degli ideologi della Alternative Right, animatore del sito American Renaissance ed esponente del Council of Conservative Citizens, formazione cui si ispirava Dylann Roof, il giovane che lo scorso anno ha compiuto una strage in una chiesa afroamericana di Charleston, si spinge ancora più in là, sostenendo che «Trump salverà la razza bianca, penso che la sua presidenza sarà in qualche modo ispirata al nazionalismo bianco e alla volontà di fermare la «sostituzione di popolo» ad opera degli immigrati ispanici, che è in atto nel nostro paese». Anche se non sarà solo il presidente degli eredi del Klan e non deve certamente solo a questo la sua elezione, Trump potrà contare in questi ambienti su un piccolo ma determinato esercito di sostenitori.

In nome del benessere Trump cancellerà l’Obamacare

Del primo discorso di Trump da presidente, mi ha colpito la rimozione rigorosa della parola «diritto» e l’uso ridondante salvifico della parola «benessere». L’antinomia tra «diritto» e «benessere» come è noto è tipica del liberismo e non vi è dubbio che con Trump essa segnerà la fine della riforma sanitaria voluta da Obama.
Trump ci dice che i diritti come quello della salute sono funzione non di una tutela pubblica universale e solidale ma del grado di benessere che si riesce a creare in un paese quindi che il benessere economico individuale è la sola condizione attraverso la quale il diritto alla salute può essere soddisfatto. Per lui il diritto alla salute non si tutela come dice la nostra Costituzione ma si compra. Il mercato diventa così funzione della sua soddisfazione. Chi è fuori mercato, cioè le famose «anatre zoppe», non ha diritti.
Con Trump si torna certo a Hobbes, a Smith ma soprattutto a Murray Rothbard anch’egli repubblicano famoso per essere il padre dell’ anarco-capitalism. Trump nei confronti dell’ Obamacare si pone esattamente come un libertarian anarco-capitalista .
Egli parte dai conti: «I premi delle assicurazioni sono saliti alle stelle in tutta la nazione» si legge nel suo programma elettorale «con una media nazionale di quasi il 25%, con alcuni membri che subiscono aumenti dei tassi fino al 70%».
E continua rinfacciando a Obama l’inganno «il suo piano di salute avrebbe dovuto tagliare il costo dei premi di famiglia fino a 2.500 dollari l’anno e invece, i premi sono aumentati di quasi 5 mila dollari».
Ed ecco le soluzioni: liberalizzazione totale, defiscalizzazione delle polizze, assicurazione acquistabili in tutti i 50 gli Stati, utilizzo degli Health Savings Accounts (HSA), (sorta di libretti di risparmio) attraverso i quali ogni cittadino versa parte dei suoi risparmi (niente solidarietà, niente fiscalità) revisione delle opzioni base del Medicaid (programma federale che aiuta gli individui e le famiglie con basso reddito). Ma soprattutto no alle «anatre zoppe» cioè no all’assistenza agli immigrati irregolari visti prima di tutto come un grande spreco. Ben11 miliardi di dollari l’anno. Per cui mollare le anatre zoppe di qualunque tipo esse siano al loro destino ha il significato di utilizzare in nome del «benessere» risorse che altrimenti sarebbero sprecate: «prendersi cura della nostra economia sarà un lungo cammino verso la riduzione della nostra dipendenza dal pubblico nei programmi di salute».
Alla fine della storia Trump «bellicapelli» (come si direbbe a Roma) taglierà gli 85 miliardi l’anno (un decimo delle spese militari) dell’Obamacare per ridurre le tasse ai cittadini dal 39,6% al 33%, e alle imprese dal 33% al 15%.
Dalla cura della persona si passa alla cura dell’economia. Ma è un discorso solo americano? No anche Renzi fa dipendere il finanziamento dei diritti dallo sviluppo economico in particolare dal Pil. Il suo governo ha programmato un percorso pluriennale alla fine del quale l’incidenza della spesa sanitaria nei confronti del Pil dovrà ridursi di un punto e mezzo. Anche Renzi tenta di finanziare la riduzione delle tasse tagliando risorse alla sanità. Il taglio dello scorso anno di oltre 2 mld è stato giustificato con la riduzione della pressione fiscale. Anche Renzi con il definanziamento sta riducendo la sanità pubblica ad una sorta di Medicaid aprendo la porta alle assicurazioni. Anche Renzi sta abbandonando le «anatre zoppe» al loro destino (la notizia di oggi è che nel 2016 12 milioni di italiani e 5 milioni di famiglie hanno dovuto limitare il numero di visite mediche o gli esami di accertamento per motivazioni di tipo economico).
La differenza che vedo tra Trump e Renzi rispetto all’antinomia diritti/risorse è solo nel grado di incompatibilità con cui viene letta. Nel primo caso è assoluta tanto da essere inconciliabile. Nel secondo caso è relativa all’andamento del Pil. Evidentemente anche noi stiamo diventando americani.



Michael Novak “Ha le qualità per essere il nuovo Reagan” Paolo Mastrolilli  Busiarda
Dice Michael Novak che «Donald Trump ha le qualità per diventare un nuovo Ronald Reagan, se imparerà a essere disciplinato». Poi aggiunge: «Come cattolico, penso che la sua elezione sia quasi un miracolo. Le sue posizioni a favore della vita porteranno alla nomina di giudici della Corte Suprema che potrebbero mettere fine all’aborto negli Stati Uniti».
Novak aveva lavorato nell’amministrazione Reagan come ambasciatore, e poi ha sostenuto quelle di Bush padre e figlio. All’inizio della campagna elettorale non era convinto che Trump fosse la scelta migliore, ma a differenza di altri neocon come William Kristol o Paul Wolfowitz non aveva preso una posizione esplicita contro di lui.
Perché ha cambiato idea, nonostante i dubbi sulla moralità e il trattamento delle donne emersi durante la campagna?
«Le elezioni sono sempre una scelta, a volte sono un compromesso. In questo caso i candidati erano due, e io non potevo sostenere Hillary Clinton, in particolare per gli effetti che la sua vittoria avrebbe avuto sulla composizione della Corte Suprema».
Il successo di Trump ha sorpreso i suoi stessi consiglieri, almeno per le dimensioni, e sicuramente ha smentito le previsioni di tutti i sondaggisti. Come ha fatto?
«Io penso che queste elezioni siano state una rivolta degli americani meno istruiti, contro le élite che li guardavano dall’alto verso il basso. La nuova differenza di classe, negli Stati Uniti, non è fatta tanto dal censo, quanto dall’istruzione che ti puoi permettere. Naturalmente questo è un bene, perché è sempre positivo puntare sulla conoscenza, ma ha provocato anche gravi discriminazioni. Andare nelle grandi università apre le porte del successo, e consente di accedere all’élite del paese. Da anni queste élite trattano la classe media e bassa, i lavoratori, i colletti blu, come una massa di buzzurri ignoranti: la gente si è stancata, e ha reagito votando Trump».
Questo aspetto culturale secondo lei ha pesato più della crisi economica o delle tensioni razziali?
«Sì, perché le comprende tutte. La differenza in termini di istruzione fa poi anche la differenza su tutti questi altri problemi della nostra società».
E il miliardario Donald Trump ha incarnato la rivolta delle classi medie e basse?
«È riuscito a capire, intercettare e rappresentare questo sentimento. Come Ronald Reagan, che era stato governatore della California ma non veniva dalla politica di professione, ha compreso meglio di tutti gli altri cosa stava accadendo davvero nel paese».
Secondo lei può diventare il nuovo Reagan?
«Penso di sì. Credo che Trump abbia le qualità personali, e le intuizioni politiche e comunicative, per essere il nuovo Reagan. A patto che riesca a essere disciplinato e coerente, come nella fase finale della campagna».
Lei conosce le persone che stanno gestendo la transizione: cosa si aspetta da lui?
«Per me la cosa più importante sono i giudici che nominerà alla Corte Suprema, perché penso che possano rappresentare una svolta sui temi della vita».
Pensa alla fine dell’aborto?
«La sentenza Roe vs. Wade che lo ha legalizzato è molto debole. Basta che i giudici decidano di rimandarla agli Stati, affinché regolino loro la materia, per mettere fine all’aborto. Nessuno, infatti, approverebbe le leggi per consentirlo di nuovo».
Quali altri provvedimenti vorrebbe vedere, per caratterizzare subito l’amministrazione?
«Abolire la riforma sanitaria di Obama, e cancellare l’accordo nucleare con l’Iran. Quindi serve un mutamento del sistema fiscale, per ridurre le tasse e aiutare le imprese a crescere. Come cattolico, però, credo che la differenza la farà il fatto che Trump terminerà la persecuzione in corso ormai da diversi anni contro di noi».
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Michel Floquet “Lo ha fatto vincere il ceto medio impoverito” Mario Baudino  Busiarda
È il primo libro dell’era Trump, uscito proprio oggi per Neri Pozza con un titolo che pare un commento a caldo: Triste America. Lo ha scritto Michel Floquet, giornalista televisivo di France 1 e per anni corrispondente da Washington. Ma anche ricercatore e sociologo, attento ai numeri da una parte, all’ascolto della gente dall’altra. E il quadro della sua America triste (non ovviamente come conseguenza, semmai come causa del voto che ha consacrato il miliardario) è impressionante: diseguaglianza sociale, violenza, povertà. È il ritratto di un Paese allo stremo, con 48 milioni di persone che si rivolgono alla mensa dei poveri. A qualcuno potrebbe ricordare l’America immaginaria che l’Urss raccontava ai suoi sudditi. Invece è semplicemente l’America che ha votato Trump.
Ci è arrivato prima dei sondaggi e degli analisti politici?
«Non rivendico presunte qualità di indovino. Ma la scelta elettorale non è così sorprendente, per me che ho raccontato l’America sinistrata, declassata, umiliata, un Paese dove è rimasta poca speranza, con una classe media massacrata dalla crisi economica. In una situazione del genere Trump non può stupirci».
Racconta un’America che facciamo fatica a riconoscere.
«In realtà da noi in Europa si ha una certa difficoltà a capire quanto profondo sia stato il cambiamento dopo l’11 settembre. Bisogna vivere quella situazione, giorno per giorno. Da 15 anni non c’è più denaro per le infrastrutture, le strade sono pessime, piene di buche, il livello dell’istruzione scolastica è sceso in modo spaventoso, il 50% del budget federale è divorato dalle spese militari».
Lei ha distrutto un mito.
«La verità è che il sogno americano è davvero finito, è in panne. Il mito resiste, figuriamoci, ma la realtà purtroppo è un’altra. E cioè che i cittadini detestano i politici con tutte le loro forze. Non mi sorprende che la Clinton, una politica per eccellenza, sia stata sconfitta. Negli anni si sono verificati episodi la cui importanza ci sfugge, come le due bocciature del budget federale da parte del Congresso. Non abbiamo capito quanto gli americani si siano scandalizzati».
Il risultato è una deriva populista che sembra ormai estendersi a tutto l’Occidente. Anche se il populismo americano ha una sua storia a sé stante.
«Ci sono molti tratti in comune fra le due sponde dell’Oceano. Ma, per restare in Francia, Marine Le Pen rappresenta ancora un modello “classico” di politica. Trump è unico, perché inedito. C’è del populismo, ma soprattutto la capacità di dare certezze a gente che si sentiva abbandonata e tradita. Lui non è compromesso con il passato politico, è un “uomo nuovo” sotto questo aspetto».
A lei non ricorda i leader dei totalitarismi novecenteschi e la loro capacità di ipnotizzare le masse?
«No, possiamo dire che sa parlare direttamente a un “popolo” saltando la comunicazione politica, ma non lo paragonerei a Hitler o Mussolini».
Nonostante le affermazioni piuttosto spericolate della campagna elettorale?
«Adesso sì che azzardo una previsione: non succederà niente di speciale, il nuovo presidente non farà nulla di ciò che ha promesso o minacciato durante la campagna vera e propria. Forse non alzerà neppure nuovi muri, certo non ammazzerà nessuno».
I mercati finanziari sembrano pensarla come lei, dopo un iniziale sbandamento.
«Bisogna guardare a prima che salisse la temperatura polemica. I suoi discorsi, all’inizio, erano molto più equilibrati. E poi c’è un Congresso che esercita un controllo vero, un’amministrazione pubblica solida ed efficiente. L’America resta una democrazia forte».
Nonostante il quadro a tinte fosche che ne dà nel suo libro? A proposito, come è stato accolto in Francia?
«Molto bene. Forse ho distrutto un mito, violato un tabù, ma mentre procedeva la campagna elettorale la gente si è accorta che le cose da me raccontate avevano un loro senso preciso, e non erano scritte per partito preso».
Sembrano suggerire al lettore che l’opzione della vecchia Europa, con tutti i suoi gravissimi problemi, non è poi da buttare via.
«L’America resta un grande Paese. E io sto benissimo in Francia».
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Tra il popolo di Trump che odia la politica e sogna lusso e soldi faciliViaggio nella Pennsylvania piegata dalla crisi economica “Siamo come lui, non ci importa di guerre e pace. Ci salverà” Gianni Riotta Busiarda
Non si mangiava neppure male da «Michelangelo», baracca di legno sulla strada rurale Creek Road, dove le colline della Contea di Monroe, in Pennsylvania perdono le foglie giallo, oro e rosse dell’Indian Summer, sole di novembre. «Poi la crisi, l’hanno chiuso e son rimasta sola» dice Amber Rohner, parrucchiera con permanente platinata della porta accanto, «diciamo la verità non c’è un cent in giro».
Di cent per una fetta di pizza da Michelangelo ce ne volevano 89, e al telefono l’ex proprietario lamenta «come fai a campare con la pizza a meno di un dollaro. Hai visto i manifesti? Avevamo quelli del Padrino, originali eh? Ora vendo. Si, ho votato Trump, che dovevo fare paesano? Mio nonno votava Roosevelt, mio padre Reagan, ma sempre democratico era. A me tocca Trump? Almeno non è uno dei ladri che ci alzano le tasse».
Ad Amber quelli di «Michelangelo» non piacevano, ruggini tra i «wop», gli italiani secondo il vecchio nomignolo sprezzante, e i gallesi, tedeschi e olandesi che popolano da sempre la vallata, «erano gente strana», ma ancora meno le piacevano Trump e Clinton, «Un pagliaccio e una matta, che scelta». Ma la prima donna presidente? Amber gira lo sguardo al salone deserto, dalla polvere si direbbe che nessuno entri da Natale. «Lavoro con le donne. Non mi fido delle donne. Sbroccano e son peggio di voi uomini».
La diserzione di massa delle Amber è costata la Casa Bianca a Hillary. Il 53% delle donne bianche ha votato Trump, quanto è bastato per la sconfitta, rafforzando Trump, pur in contee spesso democratiche come la vicina Lackawanna, a nord del torrente Bushkill. Il neopresidente non ha sfondato affatto, ha preso meno voti di McCain 2008 e Romney 2012, ma Hillary è stata tradita da 6 milioni di elettori rispetto a Obama, troppi per non prenderle. Qui se ne nascondono tanti, nelle casette a bordo bosco con il cartello «Ronde notturne, Ladri occhio», la bandiera «Pow-Mia» che ricorda i prigionieri di guerra, la cassetta della posta con la preghiera per i caduti in Iraq. «Mi chiamo Vince, riparo computer, mi arrangio. Ho passato la notte senza dormire, non sapevo chi votare, pessimi candidati. Poi Trump. Un salto nel buio, ma Hillary ha ucciso il suo amico Vince Foster, vada su Google, che storia. Se vuoi trovare un vero trumpiano vai dal meccanico, Barely Used Tires, Milford Road».
Il meccanico, non appena vede il fotografo, sembra voler impugnare la lucente chiave inglese Hazet 36 sul bancone. Si limita invece, pulendosi le mani sullo straccio, a indicare una corda tesa, con un cartello composto da qualcuno che non s’è laureato in Marketing all’Harvard Business School, «Clienti, statevene fuori!», e scompare nel retrobottega.
Il suo garzone, ricci neri e sorriso furbo, emerge dal motore di un camioncino pick up nero che l’aveva ingoiato, e fingendo di mandare un messaggino al telefono, per far dispetto al padrone, sillaba «qui siamo trumpiani, capisci? Perché a lui della politica non gliene frega un c… come a noi, guerre, pace, lui pensa a trovare grana e f, magari ce ne gira. Con Obama chi ci rispetta? Mio nonno era in miniera, guadagnava e sputava sangue, mio padre era meccanico, sputava sangue e guadagnava bene. E io? Sputo sangue e guadagno meno di un portoricano lavapiatti». Dietro la curva giace la carogna di un bellissimo cervo, ucciso da un’auto. Il ragazzo la sogguarda, sputa, la saliva luccica e colpisce il nobile animale dissanguato.
Il garzone non dà il nome, ma sottovoce indica altri «Trumpian», il pastore battista, il pompiere volontario ex Marine, il padrone del Pub570 e le cameriere, «Vacci. Mangia la salsiccia con le cipolle e i peperoni, per digerirla ti serve l’olio Castrol, ma vale». E così, mentre la tv rilancia la staffetta a Washington tra il Nobel per la Pace Obama e il Re di Miss Universo Trump, raccogliamo le confessioni degli ultras «The Donald», Spoon River politica in Pennsylvania.
Il pastore «Gay, aborto, lesbiche che adottano figli, quelli sono cristiani? Trump molesta sottobanco e ha avuto tre mogli? La Bibbia è popolata da assassini, stupratori, adulteri, siamo peccatori in questa valle di lacrime. Almeno Trump non lo nega e alla Corte Suprema metterà giudici timorati di Dio». Betty, la cameriera del pub, non ha studiato né Debord né Baudrillard, anzi non ha studiato. «Ho lasciato la scuola al terzo anno, voglio sposarmi», ma col faccino pulito sintetizza la Società Postmoderna della Politica Spettacolo meglio dei filosofoni. «Trump si comporta da schifo con le donne, le star sono così. Legga People, legga i giornali per noi ragazze, per cosa li sfogliamo? Per vedere se Brad e Angelina fanno pace, se la Aniston gode del loro divorzio. Trump ne approfitta, ma quale maschio non farebbe lo stesso? Il mio boyfriend di sicuro. L’ho votato perché è come noi, di strada, anche se ha i soldi. Se venisse qui? Sarei felice, gli chiederei di offrimi un lavoro alla Casa Bianca e vengo di corsa». Si illumina al pensiero, accarezzandosi i capelli lisciati con la piastra a casa. In un angolo suona forse l’ultimo flipper del pianeta Terra, decorato con le ragazze nude di Playboy.
Il pompiere è ancora fuori turno e aspetta, fumandosi un mozzicone, «se vinceva Hillary pure di fumare ci impedivano. Dicono che siamo razzisti, che il Klan razzista è con Trump, ma esiste ancora? No, dai, solo al cinema. I neri hanno portato Obama alla Casa Bianca e dovevamo festeggiare. Noi portiamo Trump e quelli vanno in piazza ad accendere falò di protesta. Che Paese siamo? Arrivano i portoricani, buttano bottiglie per strada, insultano ragazze, poi i neri, lasciano vetri sfondati, il prezzo delle case scende e te ne devi andare, da dove viveva tuo bisnonno, perché?».
Qui Obama aveva battuto Romney 63% a 37, lasciando a Hillary in eredità un vantaggio enorme. Lei è precipitata a un kamikaze 50-50. I suoi fedelissimi hanno fatto sparire nottetempo i poster col suo nome. Non si trova un democratico neppure cercandolo col telescopio militare che all’armeria di Kresgeville, 818 Interchange Road, adorna i fucili da guerra Ar-15. La comproprietaria Jen Pinghero si vanta «li costruiamo a mano, uno per uno, mica in serie», all’angolo la sagoma bersaglio di Osama Bin Laden cartonato è pronta.
Dopo un po’ però, una dispersa dell’Armata Hillary compare. Heidi è alta, giovane, con i capelli color inchiostro: «Trump lo conosco. Ho vissuto 15 anni a New York, facevo la guida turistica, la valletta per mostre, festival, serate, ero una bella ragazza. Trump veniva spesso e, io lo so, non è una persona pulita». Heidi è ancora una bellissima ragazza. Tempo e fatica hanno macinato verso la destra populista i suoi compagni di vallata, mentre in lei hanno soffuso un diverso rammarico: «Si pentiranno di quel che han fatto. Devo stare zitta, sono in minoranza, gridano adesso, fanno i bulli. Ma ’sto Trump non finisce il mandato, ci sono hacker, pirati informatici, al lavoro per tirar fuori le sue porcate, sesso, tasse, forse è malato. Due anni e lo cacciamo».
Barack e Donald si stringono la mano, ma sulle tortuose mulattiere di Lackawanna, Chester, Monroe, i democratici si attrezzano alla guerriglia di opposizione, mentre «seduti sul ciglio della strada a contemplare l’America», gli elettori di Trump sognano che le vicine miniere di antracite riaprano, gli accordi di Parigi sfumino come carbon coke e il ferro della Pennsylvania torni a sorreggere il pianeta, come nel 1945 quando i nonni…
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L’Asia inizia a corteggiare Donald Abe fissa subito un faccia a faccia La tentazione isolazionista spaventa Giappone e Sud Corea. E la Cina potrebbe approfittarne Carlo Pizzati  Busiarda
Mossa sorprendente, astuta, ma anche necessaria, la telefonata del premier giapponese Shinzo Abe al neo-eletto presidente Trump. E ancor più abile l’aver fissato un incontro tra una settimana a New York, il 17 novembre, per parlare di persona dei rapporti tra un Giappone che Trump ha spesso dipinto come «un concorrente economico» più che un partner, come uno scroccone che si difende dalla Cina con soldi e soldati americani, anche se Tokyo finanzia metà delle spese delle basi militari americane con i suoi 48 mila soldati.
Tema cruciale, quello di un Giappone che l’anno scorso ha votato per consentire le missioni dei suoi militari all’estero per la prima volta dalla Seconda Guerra mondiale. Un Giappone che si trova tra Scilla e Cariddi: la Corea del Nord con i missili nucleari, che spinge da Ovest; e la Cina che contesta la gestione nipponica delle isole del Mar Cinese Orientale, premendo da Nord.
A Trump, in campagna elettorale, è sfuggito un suggerimento drastico, che apre scenari di una corsa al riarmo destabilizzante per l’Asia: Giappone e Corea del Sud si arrangino e si paghino la loro difesa anche a costo di sviluppare armi nucleari. «Nukes, yes, nukes», ha detto.
È la fine della claudicante «svolta asiatica» di Barack Obama messa a punto dall’allora «Madame Secretary» Hillary Clinton. Addio «Pivot to Asia», addio 60 per cento delle truppe americane in Asia per far muso duro con la Cina, addio accordi economici e sodalizi sotto l’egida americana. E buongiorno a che cosa? Se lo chiedono in molti, in Asia. Trump l’isolazionista, quello dell’«America First», ha detto che «Pechino stupra l’economia Usa», ma ha accennato solo a possibili tasse sulle importazioni, alla peggio a sanzioni, ma mai a limitare la crescente presenza cinese nel Pacifico e nel Sud Est asiatico.
Così, adesso, tutti a telefonare a Trump. Il presidente cinese Xi Jinping ha rotto il protocollo e lo ha chiamato subito: «Dò grande importanza al rapporto tra Cina e Stati Uniti», gli ha detto, «e mi auguro inizieremo presto a lavorare assieme per difendere i principi di non-conflitto, non-contrasto, rispetto reciproco e cooperazione reciprocamente vantaggiosa». La diplomazia cinese è contenta di trovare nella Casa Bianca un businessman che crede nelle transazioni e con cui è possibile fare affari per trovare accordi su temi che Hillary Clinton non avrebbe di certo considerato trattabili.
Essendo Trump un isolazionista, Pechino vede l’opportunità di potersi rafforzare regionalmente. Anche la Partnership Trans-Pacifica, accordo sponsorizzato da Obama per la collaborazione commerciale tra Paesi asiatici che avrebbe escluso la Cina, sembra destinata a fallire, come annunciato ieri dal presidente malese.
L’India, vista la stretta amicizia di Modi con Obama, resta al momento un po’ in sospeso, ma gli estremisti indù festeggiano chi ritengono sia un forte alleato contro il Pakistan e l’Islam, unico vero obiettivo di Trump in politica estera, cosa che preoccupa Indonesia e Malesia. Invece, i rapporti bilaterali con le Filippine sembrano ricuciti. «Non voglio più litigare, perché adesso Trump ha vinto», ha detto il «Trump filippino», il presidente Rodrigo Duterte che di recente aveva scavato una spaccatura con Washington.
Trump ha spesso dichiarato che non è disposto a lasciare che l’America si sobbarchi costi economici per il controllo dell’Asia: non vuole fare «il poliziotto del mondo». Questa posizione dovrebbe preoccupare Park Geun-hye, presidente della Corea del Sud dove si trovano 28 mila e 500 truppe americane. Ma Trump le ha parlato al telefono per 10 minuti dicendo che è determinato al «100 per cento» a rafforzare i legami tra i due Paesi e che continuerà a lavorare a stretto contatto con Seul per garantire la sicurezza di entrambe le nazioni. Accordi bilaterali, rassicurazioni, ma da parte di un’America che promette già di alleggerire la sua presa su un continente, a favore della Cina.
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“Vuole riproporre la ricetta di Reagan ma così il debito rischia di esplodere” L’economista del Fmi Cottarelli: “Il tycoon intende tagliare le tasse e aumentare la spesa pubblica: questa è una contraddizione” Marco Menduni Busiarda
«Non lo nascondo, anche io sono rimasto sorpreso dall’affermazione di Trump ma soprattutto dalle sue dimensioni. Ora è un presidente fortissimo perché ha anche tutto il Congresso. Bisognerà vedere quali saranno ora le sue mosse in economia: ha già ammorbidito i toni rispetto alla campagna elettorale, ma non potrà tornare indietro rispetto a molte promesse». Lo afferma Carlo Cottarelli, direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, ed ex commissario alle spending review. Sta presentando il suo nuovo libro: «Il macigno - Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene».
Quale sarà la ricetta di Trump?
«In campagna elettorale ha detto molte cose, per esempio ha parlato dell’espulsione di milioni di immigrati, per poi correggerle senza peraltro mai smentire la prima versione. Parla di minori tasse, ma al tempo stesso di maggiore spesa pubblica, che a prima vista appare una contraddizione. L’intendimento è quello di risvegliare l’economia».
Tradotto in parole semplici: lascio più soldi in tasca ai cittadini, rilancio gli investimenti pubblici e un’economia che gira riassorbe il deficit; nel frattempo faccio lavorare la gente.
«È fondamentalmente la stessa impostazione della “Reaganomics”. Ma certi meccanismi non sono così automatici e l’esperienza di Reagan, che è l’indicatore al quale dobbiamo fare riferimento, non è andata così».
L’incidenza del debito pubblico sul prodotto lordo era quasi raddoppiata alla fine della presidenza Reagan...
«Questo è il rischio cui va incontro Trump. Bisogna però dire che il debito pubblico negli Usa è molto vigilato. Esiste ad esempio il Comitato per un bilancio federale responsabile che è molto autorevole. È stato citato in tutti e tre i dibattiti televisivi ed è un organismo indipendente. È finanziato dai privati, perché negli Usa il settore privato vuole controllare molto bene cosa fa il settore pubblico. Da noi non avviene».
Per quale motivo?
«Fondamentalmente culturale. Così anche nei confronti con l’Ue i numeri appaiono a volte variabili impazzite, proprio perché manca un’attestazione indipendente delle cifre e ognuno, ovviamente, tira l’acqua al suo mulino. Poi mancano indici oggettivi per misurare la qualità dei servizi e della trasparenza della spesa».
Altrove fanno meglio di noi...
«Nel Regno Unito, dalla metà degli Anni 90, sono stati introdotti indicatori per valutare programmi di spesa e obiettivi raggiunti nel tempo. Questi indici rappresentano dati oggettivi per procedere, ogni due o tre anni, con le spending review».
Tornando a Trump: quali saranno le altre prime sue mosse?
«Credo che non potrà, anzi, non vorrà esimersi dal rinegoziare alcuni trattati, come ad esempio il Nafta (l’Accordo nordamericano per il libero scambio, ndr). Poi bisognerà capire il destino dell’Obamacare. La sua sorte è segnata, bisognerà vedere con che cosa Trump vorrà sostituirlo».
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Il cambio della guardia apre scenari inediti Giampiero Massolo Busiarda
Saltati ancora una volta gli algoritmi dei sondaggi, con Donald Trump ha vinto l’elettorato silenzioso, quello che aveva taciuto le proprie preferenze e che ha rifiutato il déjà-vu. Un voto che cambia le logiche consolidate, ad iniziare da quella del politicamente corretto come strumento di consenso elettorale. Un voto che riflette divisioni profonde, in favore di una proposta politica ritenuta più credibile dal ceto medio, rispetto alle sue ansie di insicurezza, alle ambizioni di riscatto e di prospettiva per il futuro.
A queste aspettative in fondo razionali e non troppo dissimili da quelle di molti elettori europei, dovrà ora rispondere il Presidente Trump. Volendo mantenere lucidità di analisi, dobbiamo assumere che le risposte - per quel tanto che le regole costituzionali, i vincoli dell’economia globale e le dinamiche internazionali gli lasceranno mano libera - saranno comunque razionali. Ne è indice del resto anche la sobria reazione dei mercati alla sua elezione.
Cos’è dunque verosimile aspettarsi, in un quadro dove neppure il Presidente degli Stati Uniti controlla ormai tutte le variabili? Decisioni pragmatiche e non ideologiche, lontane dall’ambizione obamiana di essere sempre dal «lato giusto della storia»; la tendenza ad evitare un eccessivo coinvolgimento americano fuori dai confini nazionali; un riflesso di protezione del proprio mercato interno e delle aziende americane; un atteggiamento più interventista in economia, per favorirne l’ammodernamento infrastrutturale.
Sono tutte cattive notizie per l’Europa? Ad alcune condizioni, certamente no.
Sul piano sistemico anzitutto. L’America di Trump sarà probabilmente aperta a collaborare con chiunque, senza troppi pregiudizi. Potrà essere però rapida e in una certa misura non convenzionale nelle decisioni. Si aspetterà altrettanto pragmatismo e speditezza. Una bella sfida per le istituzioni europee e per i nostri sistemi-Paese, alle prese con meccanismi decisionali non sempre performanti.
Nella dimensione economica poi, dove il traino di un ambizioso programma di modernizzazione americano potrebbe dare una nuova spinta all’Unione Europea per uscire dalla trappola delle percentuali e rilanciare la crescita. Con ciò, in parte compensando gli effetti negativi di politiche commerciali che si annunciano protezioniste, pur nei limiti in cui la sostanziale irreversibilità della globalizzazione potrà consentirlo. L’Europa sarà attesa al varco, tra un mercato americano più chiuso ai suoi prodotti e un modello di rilancio più dinamico e spregiudicato al quale collegarsi.
In politica internazionale, infine. Occorrerà essere attenti a non scambiare per isolazionismo una linea politica che sarà senz’altro guardinga nell’impegnare oltre misura gli Stati Uniti negli scenari di crisi, ma che potrà invece farsi attiva e flessibile quando, anche per evitarlo, ingaggerà le altre potenze globali, ad iniziare da Russia e all’occorrenza Cina (malgrado le dispute commerciali) o attori regionali cruciali come Israele, la Turchia, senza escludere a priori l’Iran. Gli scenari di crisi internazionale, specie quello siriano e mediorientale, potrebbero risentirne positivamente, mentre altri fronti aperti, quello ucraino ad esempio, potrebbero avviarsi verso un sostanziale congelamento.
L’Europa non siederà di diritto a quei tavoli negoziali. E rischia seriamente che possibili intese russo-americane passino sopra la sua testa. Potrà accomodarsi solo se dimostrerà di non tirarsi indietro nella lotta in armi al terrorismo jihadista destinata a continuare, se saprà finalmente sviluppare una responsabilità autonoma per la propria difesa e sicurezza (e questo passa da solidi accordi tra Francia, Germania e Italia, senza troppo perdere di vista il Regno Unito), se riuscirà a coordinare e rendere sinergici i propri bilanci militari e le collaborazioni industriali, se si adopererà per ribadire il ruolo di garanzia della Nato per tutti gli europei, senza tuttavia farla percepire come antirussa.
Insomma, gli elettori americani hanno deciso di uscire dal consueto. Speriamo che l’Europa, attesa da un’impegnativa prova di maturità, sia all’altezza della sfida: non ovunque, come in America, esiste un sistema di regole saldo a fare da contrappeso in caso di fallimento.
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La ricerca di un nuovo welfare Andrea Montanino Busiarda 11 11 2016
Centoventi milioni, il 50 per cento della popolazione adulta. A tanto ammonta il ceto medio americano che si è rivolto a Donald Trump dopo aver subito un taglio alle proprie disponibilità economiche: se nel 2007 il valore della ricchezza posseduta da una tipica famiglia del ceto medio era circa 160 mila dollari, dopo sei anni questo valore è scivolato a 98 mila dollari. Il ceto medio ha sì mantenuto o ritrovato un lavoro, ma è più povero.
L’uscita dalla grande recessione è stata infatti caratterizzata dalla crescita di posti di lavoro senza significativa crescita economica: una job-filled non-recovery, come descritta dall’economista di Harvard Robert Barro.
Ciò che è mancato, soprattutto, è l’aumento della produttività - quanto ogni lavoratore produce in un certo periodo, ad esempio un anno - che non ha permesso l’aumento dei salari: c’è una realtà di piccoli imprenditori, commercianti, insegnanti, addetti alle vendite nei grandi mall che ha un lavoro ma con un reddito che tende a non crescere, ma anzi gradualmente a diminuire.
Un reddito che tende a diminuire sia in senso assoluto sia in confronto ai più ricchi. In più, l’amministrazione Obama ha esteso la copertura sanitaria a una fascia più ampia di persone a basso reddito e questo sta probabilmente riducendo le distanze tra i più poveri e il ceto medio, che vede dunque minacciato il suo status da entrambi i lati: si allontana dai ricchi, viene avvicinato dai poveri. E’ il popolo bianco, che vive nei piccoli centri lontano dalla costa, che ha un diploma ma non la laurea, che vota Trump.
Se il Presidente vuole aiutare la classe media ed evitare che altri scivolino verso livelli di reddito più bassi non deve soltanto creare posti di lavoro, ma crearne di qualità in modo che aumenti la produttività e con essa i salari.
Sarà la politica economica di Trump in grado di realizzare questa inversione di tendenza? Vediamo. Quattro sono le linee principali che il candidato Trump ha annunciato durante la campagna elettorale. Primo, regolare il commercio internazionale e non sottoscrivere trattati di libero scambio perché tolgono lavoro. Secondo, limitare l’immigrazione, in modo che più posti di lavoro vadano a chi è già negli Stati Uniti. Terzo, ridurre drasticamente le tasse sulle imprese per rilanciare gli investimenti privati. Quarto, rivedere le riforme del sistema sanitario introdotte da Obama.
La limitazione del commercio difficilmente aiuterà la crescita del prodotto, della produttività, e dunque dei salari della classe media americana, anche se potrebbe in una prima fase avvantaggiare i piccoli produttori locali. Molti beni sono ormai il risultato di una complessa catena della produzione dove i pezzi vengono realizzati in diversi posti del mondo e poi assemblati (l’iPhone è l’esempio più emblematico): l’introduzione di tariffe potrebbe determinare un aumento del costo di produzione e contribuire a spostare le attività ancora svolte in America altrove. Minori scambi con l’estero poi ridurrebbero la competizione e la spinta all’innovazione tecnologica impoverendo il Paese.
Anche la politica dell’immigrazione potrebbe essere un boomerang, considerando che gli Stati Uniti hanno bisogno di giovani immigrati per contrastare l’invecchiamento della popolazione e la contrazione della forza lavoro che, in ultima analisi, sta riducendo il trend di crescita nel lungo periodo.
Dove Trump potrebbe aver successo con la classe media è la riduzione delle tasse per le imprese. Se le grandi imprese e i più ricchi hanno già strumenti e capacità per godere delle tante detrazioni e deduzioni e dunque portare le aliquote effettive molto più in basso rispetto a quelle statutarie, i piccoli imprenditori vedrebbero un consistente aumento del loro reddito disponibile. Ma non è detto che ciò si tradurrà in maggior investimenti e dunque maggiore produttività.
In più, le minori entrate fiscali che deriveranno dal taglio delle tasse dovranno essere compensate da minori spese, riducendo lo spazio per investimenti pubblici in infrastrutture - fondamentali per l’aumento della crescita e della produttività - e rivedendo l’Obamacare: parte della spesa sanitaria che in questi recentissimi anni si era spostata sul bilancio pubblico ritornerà nelle tasche dei più poveri che, essendo appunto poveri, dovranno rinunciare alle cure. Infine, poco spazio ci sarà per una politica pubblica dell’istruzione che dia maggiore accesso all’Università ai figli della classe media, che non riescono a pagare le alte rette dei college americani e non possono ulteriormente indebitarsi.
La classe media ha voltato le spalle ai democratici, affidandosi a un costruttore con alterne fortune. Che le politiche economiche finora annunciate possano ridurre il gap con i ricchi e ridare all’America profonda un senso di sicurezza e stabilità economica è tutto da vedere.
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Obamacare, burocrazia, grandi opere i primi 100 giorni da “fuochi d’artificio” Il nuovo presidente americano prepara le sue “grandi riforme” e seleziona i collaboratori per i ruoli-chiave Bolton o Corker come segretario di Stato, al Tesoro Mnuchin o DimonFEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK.
I primi 100 giorni di Donald Trump saranno fuochi d’artificio. Guerra alla burocrazia, stop all’ambientalismo, e soprattutto una maxi-manovra di investimenti pubblici per le infrastrutture di sapore “rooseveltiano” e quindi bipartisan. Ora ci vuole la squadra per farlo. La vittoria è arrivata così inattesa, che Trump ha uno staff minuscolo rispetto a quello di Hillary Clinton. L’establishment repubblicano per la maggior parte aveva tenuto le distanze. I pochi politici di destra che stavano al suo fianco erano considerati dei marginali: ora hanno vinto la lotteria. C’è la calca per candidarsi ai tanti posti liberi negli organigrammi dell’esecutivo: i consiglieri della Casa Bianca, i vertici dei ministeri, le agenzie federali. In tutto 4.000 poltrone dello spoil-system.
Il tycoon-outsider sarà magnanimo o vendicativo? Premierà i fedelissimi della prima ora o spalancherà le porte all’establishment conservatore? Trump ha dedicato la giornata di ieri alle grandi manovre coi suoi prossimi interlocutori istituzionali. Dopo il summit con Obama infatti è andato a incontrare il presidente della Camera Paul Ryan e il leader del Senato Mitch McConnell. Due repubblicani, essenziali per fare passare la sua agenda di riforme: il piano dei 100 giorni glielo deve approvare il Congresso, se si tratta di spese pubbliche, leggi fiscali, trattati di libero scambio. Ryan e McConnell avevano dato un endorsement tardivo e riluttante a Trump. Sono due “conservatori fiscali” e neoliberisti: in linea di principio non sono favorevoli né ai maxi-investimenti pubblici che creano deficit, né alla cancellazione degli accordi di libero scambio. Trump potrebbe addolcirli offrendogli subito l’abrogazione della riforma sanitaria di Obama.
Il primo cerchio magico attorno a Trump è un gruppo ben identificato. Tre vecchi notabili del partito che lo appoggiarono presto: il governatore del New Jersey Chris Christie, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, l’ex leader della Camera Newt Gingrich. Christie è in lizza con un altro notabile, il presidente del partito Reince Priebus, per fare il capo- staff della Casa Bianca, incarico di grande potere. Giuliani è chiacchierato come prossimo ministro di Giustizia anche se lui smentisce.
Altro uomo-chiave, già impegnato in un ruolo di punta nella squadra di transizione, è il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, che potrebbe diventare segretario alla Difesa. Per quel posto, o quello ancora più influente di National Security Advisor, è in lizza anche il generale Michael Flynn. Come segretario di Stato circolano i nomi di John Bolton, neocon dell’èra Bush che fu ambasciatore all’Onu, e del senatore Bob Corker che presiede la Commissione Esteri. Al Tesoro potrebbe andare un giovane banchiere di Goldman Sachs, Steven Mnuchin, che fu il tesoriere della campagna. Oppure il ben più titolato Jamie Dimon della JP Morgan. Ma Trump potrebbe creare molte sorprese, per esempio attingendo al mondo del business. Tra i suoi alleati ci sono petrolieri come Forrest Lucas e Harold Hamm, nonché il miliardario hi-tech della Silicon Valley Peter Thiel, cofondatore di Paypal. La scelta degli uomini – e delle donne, tra cui certamente la portavoce Kellyanne Conway – darà i primi segnali sulla caratura della presidenza Trump e quindi anche sui 100 giorni. Sarà una Casa Bianca “familistica” come la sua campagna elettorale, con ruoli di punta per i figli Eric e Ivanka? Premierà gli stravaganti fanatici come Sarah Palin e lo sceriffo Arpajo? O invece farà una grossa campagna acquisti tra figure rispettabili e collaudate? Manterrà la promessa di un codice etico, vietando i passaggi dal lobbismo alla politica e viceversa?
Sui contenuti dei 100 giorni lancia un segnale Gingrich: «Cinque grandi riforme strutturali, dal controllo del confine Sud al licenziamento dei burocrati incapaci». Trump ha promesso anche di «eliminare due regolamenti burocratici per ogni nuova legge approvata». Farà una guerra senza quartiere agli ambientalisti: «Via libera subito all’oleodotto col Canada che Obama vietò; stop ai pagamenti all’Onu per l’accordo sul cambiamento climatico ». Aprirà il negoziato per cambiare il mercato unico nordamericano Nafta, e bloccherà l’iter di Tpp e Ttip. Ma più di ogni altra cosa i 100 giorni dovrebbero essere segnati dalla sua iniziativa neokeynesiana che piace alla sinistra: rifare le infrastrutture fatiscenti, dagli aeroporti alle stazioni, dalle strade alla rete elettrica. «L’America è diventata un Paese del Terzo mondo», è stato un leitmotiv nei suoi comizi. Sarà una manovra pro-crescita, da fare invidia a tanti europei.
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l’america di trump I partiti ARTURO ZAMPAGLIONE 11/11/2016
La sconfitta di Clinton pone il problema della leadership: si fa il nome di Elizabeth Warren. E c’è la suggestione Michelle Obama Parla lo storico Mark Lilla “Donald la terrà unita nel nome del populismo: ha vinto e per questo lo seguiranno tutti”
I democratici
Il vuoto al vertice dopo la disfatta “Ora il testimone passi ai più giovani”
NEW YORK. Bernie Sanders avrà 79 anni nel 2020 ma, a dispetto dell’età e dei capelli già bianchi, non esclude di ripresentarsi per la Casa Bianca. Ha anche promesso di collaborare con spirito costruttivo con Trump, pur senza abbassare la guardia di fronte a possibili involuzioni xenofobe o sessiste. L’obiettivo del senatore “socialista” del Vermont e grande rivale di Hillary Clinton nelle primarie? «Dar voce alla frustrazione di molti liberal», spiega al
Washington Post.
E sottolinea come la decisione di milioni di lavoratori di votare per Trump sia stata “imbarazzante” per i democratici, ma anche meritata: perché non hanno saputo affrontare il malessere degli operai del midwest, né distanziarsi da Wall Street.
Sanders non è il solo a uscire allo scoperto in questo momento così critico per i democratici. Il partito è allo sbando, dominato da incredulità e recriminazioni. Tre giorni fa sognava di restare al potere per almeno quattro anni. Poi, quasi a sorpresa, ha perso la Casa Bianca, non ha riconquistato la maggioranza al Congresso e si troverà di fronte una Corte suprema più conservatrice. E a questa imminente emarginazione politica, corrisponde anche un vuoto al vertice. In caso di vittoria, Clinton, 69 anni, sarebbe stata di fatto la leader del partito. Adesso non sembra esserci nessuno pronto a prendere subito il suo posto, né tanto meno a guidare la riscossa. Intendiamoci: oltre a Sanders, ci sono sulla carta tanti altri democratici con grinta, esperienza e ambizioni, ma per quasi tutti esiste un problema anagrafico. Elizabeth Warren, senatrice ultra-liberal del Massachusetts è conosciuta e combattiva. L’unico problema? Ha 67 anni. Chuck Schumer, capogruppo dei senatori democratici, ha 66 anni e Nancy Pelosi, leader alla Camera, ne ha compiuti addirittura 76 anni. Come dire: è una leadership vecchia, quasi improponibile per le presidenziali del 2020, anche perché nell’ultimo mezzo secolo il più vecchio dei democratici eletti al primo turno alla Casa Bianca è stato Jimmy Carter ad appena 52 anni.
Anche Michelle Obama piace a molto alla base democratica: la popolarissima First lady ha avuto un ruolo di primo piano nella ultima fase elettorale. Michelle avrebbe l’età giusta, ma c’è un’altra considerazione che le bloccherebbe la strada (oltre a quelle di natura personale). Rifiutando Clinton e prim’ancora Jeb Bush, gli elettori americani si sono schierati contro le dinastie politiche e contro l’establishment washingtoniano. Di qui l’appello del regista Michael Moore: «I vecchi leader ci hanno deluso, dobbiamo restituire il partito democratico al popolo ricordandoci che la maggioranza degli Stati Uniti è già su posizioni liberal ». Chi saranno allora gli astri nascenti del partito? Come recupereranno quei 10 milioni di voti che i democratici hanno perso tra il 2008 e il 2016? Non c’è dubbio che l’ala progressista veda aprirsi uno spazio importante. Il primo test sarà la nomina del presidente della Dnc (Democratic national committee). Il candidato di Sanders è Keith Ellison, un deputato musulmano del Minnesota che guida anche il gruppo progressista al Congresso. «L’importante», ricorda Howard Dean, ex-candidato alla Casa Bianca, «è che la prossima volta non ci sia alcun democratico in lizza di più di 65 anni. Il testimone è ormai passato a una nuova generazione ». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

“Trump ha cambiato la natura della destra comandano i militanti che odiano la politica” ALBERTO FLORES D’ARCAIS
NEW YORK. «Se Trump avesse perso, nel partito repubblicano sarebbe scoppiata la guerra civile. Ora che ha vinto dipenderà tutto da lui». Per Mark Lilla, storico e acuto osservatore della destra americana (il suo recente libro “The Shipwrecked Mind” è già un caso editoriale) «saranno le scelte del nuovo presidente a condizionare il futuro della destra Usa».
In che senso?
«Sarà lui a decidere se abbracciare in pieno un partito che lo ha osteggiato o piuttosto di governare senza, parlando direttamente al popolo americano che lo ha scelto. Nella prima ipotesi tutti lo seguiranno».
Non troverà opposizione?
«Qualcuno magari proverà a limitarlo, ma alla fine tutti cercheranno la sua guida».
Niente scissioni dunque?
«Non credo proprio. Sono pochissimi quelli che dicono di voler lasciare il partito e farne un altro, per ora non accadrà. E sarebbe dura litigare con successo».
Sarà un Gop diverso?
«Sarà il partito di Trump, quindi anche quello di militanti che detestano le istituzioni, che sono stati protagonisti di una sorta di isteria auto-generata, che credono di vivere in un passato che non esiste più. E che odia la politica».
Cambierà la natura del conservatorismo americano?
«Questa è una bella domanda perché Trump non è un conservatore. In questa campagna elettorale nella destra ci sono state tre fazioni in lotta».
Quali?
«Il partito che fu di Reagan, il Tea Party, che è il movimento conservatore per eccellenza della destra Usa e il popolo (Lilla usa il termine in italiano, ndr) cioè Trump. E il popolo ha vinto».
Quindi sarà una destra sempre più populista?
«La destra di oggi, ed ha iniziato ancora prima di Trump, ha creato l’anti-politica: milioni di persone che non credono nella “cittadinanza”, che non vogliono essere informati, che sono privi di speranza, che si sentono abbandonati. E incolpano di questo la politica».
È diviso in tre anche il Gop post-elezione?
«Con queste elezioni il partito repubblicano per come lo abbiano conosciuto non esiste più, deve essere in qualche modo ricostruito. Gli servirebbe un Charles de Gaulle visto che oggi è diviso - proprio come nella Francia della guerra mondiale - tra collaborazionisti, resistenza e codardi».
Un Trump-de Gaulle?
«Al momento una figura così non esiste. Ma dato che per tenere insieme queste tre componenti occorre qualcuno che dica “siete tutti bravi, andate tutti bene, ora marciamo uniti” oggi può esserlo solo lui. Perché ha vinto e perché starà alla Casa Bianca. Ma non ha un compito facile».
Quali sono le maggiori difficoltà?
«Nella destra americana le cose sono cambiate velocemente ma ancora non c’è un definitivo assestamento. Nel Congresso ma anche tra i media che fiancheggiano il Gop - ci sono senatori e deputati che sempre di più sono un anti-partito dentro il partito ».
Avranno un peso sempre maggiore?
«I populisti in genere, vale anche per la sinistra, per definizione pensano che la ruling class, la classe dominante, sia in qualche modo illegittima. Sono contro ogni compromesso. Il Gop e Trump erano pronti a delegittimare Hillary. Ora lui avrà il più importante ruolo istituzionale del paese».
Sono spiazzati?
«In tutte le democrazie ci sono dei tabù che ad un certo punto escono allo scoperto. Negli Stati Uniti mai nessuno aveva chiesto in una campagna elettorale di mettere in galera l’avversario politico, questa è roba da Sudamerica».
La nuova destra Usa avrà un’influenza su quelle europee?
«Il populismo, i movimenti anti-establishment, sono un problema di tutte le democrazie occidentali, Italia inclusa. Quali sono/ erano i nostri partiti? Quelli che ci aveva lasciato in eredità il ’45, c’era una divisione chiara, in Italia ben rappresentata da Peppone e Don Camillo, negli Usa era lo stesso: da una parte il partito della working class, dall’altra quello dei banchieri. Oggi più che tra i partiti la divisione è culturale: anche nella destra».
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La paura  Le università offrono assistenza psicologica agli studenti “scossi”Scuole e atenei affrontano il trauma della vittoria di Trump. E i rettori sono costretti a correre ai ripariFEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK.
Il Day After dei giovani: sindrome da stress post-traumatico. Nelle scuole e nelle università, lo shock per l’elezione di Donald Trump è tale che devono intervenire le autorità accademiche. Come dopo una strage da sparatoria, o una grave calamità naturale. Gli educatori si mobilitano per offrire supporto, assistenza, conforto; più la garanzia che gli atenei restano dei luoghi di tolleranza multietnica. Scoppiano anche manifestazioni di protesta nelle grandi città, pure quelle con una prevalenza di giovani. La destra ha buon gioco a sottolineare che si tratta di cortei di migliaia, delle minoranze: è la solita sinistra che “cerca la rivincita in piazza dopo avere perso alle urne”?
Il fenomeno più rilevante è la scesa in campo delle autorità accademiche per arginare lo sconforto giovanile. «In tutta la mia vita — scrive il presidente della Columbia University, Lee C. Bollinger, nel suo appello agli studenti — non ricordo un simile senso di vulnerabilità tra studenti, docenti, personale universitario. Chi si sente in crisi ha l’opportunità di confidare e discutere le proprie ansie. Stiamo pianificando appositi incontri in tutti i dipartimenti universitari ». La seconda parte della sua lettera aperta suona come una promessa di protezione: «Niente intolleranza o intimidazione. Noi resteremo fedeli ai nostri valori tra cui la difesa della libertà di espressione, il rispetto di tutte le diversità ». Traspare dietro il linguaggio rassicurante il senso di angoscia degli studenti. C’è chi vede l’America istradata verso forme di autoritarismo e ricorda le minacce di Trump («Hillary in carcere», «nuove norme per punire i giornali che diffamano»). Ci sono studenti afroamericani spaventati dalle posizioni del neo-presidente contro il loro movimento BlackLives Matter. Infine i tanti studenti immigrati o figli d’immigrati paventano espulsioni di massa per loro o i genitori.
Sull’altra costa, nella California ultra-progressista che ha votato Hillary, l’intervento delle autorità accademiche è perfino più esplicito. La presidente di tutta la galassia della University of California (con campus a Berkeley, Los Angeles, Santa Cruz, Santa Barbara, San Diego, Davis) è Janet Napolitano, che fu ministro della Sicurezza Interna di Obama. La dichiarazione della Napolitano, firmata da tutti i rettori, parte constatando «la comprensibile costernazione e incertezza che regna nelle nostre comunità». Afferma che le University of California «restano orgogliose di essere luoghi delle diversità, accoglienti, fedeli ai principi contro l’intolleranza». Perfino più espliciti sono alcuni rettori di singoli campus, come George Blumenthal di UC-Santa Cruz, che scrive: «Abbiamo seguito i risultati elettorali con sconcerto. Molti di noi stanno faticando per riconciliare quei risultati con i valori in cui crediamo. Molti membri di questa comunità si sentono insicuri, dopo una propaganda elettorale che ha preso di mira immigrati, musulmani, gente di colore, donne, disabili, vittime di aggressioni sessuali. Dobbiamo trovare un modo per procedere tutti insieme, uniti dal nostro impegno per una società inclusiva». Seguono i link con una serie di luoghi che l’università mette a disposizione per incontri «terapeutici », in cui gli studenti possono confidare le proprie paure e trovare un sostegno. Il linguaggio ricorda quello usato per offrire appoggio ai parenti delle vittime dopo un attentato terroristico o una sciagura aerea; o ai reduci dal fronte traumatizzati dalle ferite in combattimento. Dà la misura dello shock per l’altra America, che si sente quasi all’indomani di un golpe.
Si può ironizzare sull’atteggiamento protettivo degli educatori. I giovani vanno tutelati dalle sconfitte elettorali? Forse dovrebbero rimboccarsi le maniche e preparare una rivincita, se Trump non gli sta bene. Vale anche per i cortei di protesta che si sono tenuti a New York e Los Angeles, San Francisco e Chicago, Boston e altre metropoli progressiste. Stando ai dati sull’affluenza, non si può escludere che alcuni dei giovani manifestanti il giorno prima avessero disertato le urne, o disperso voti su candidati di protesta come l’ambientalista Jill Stein e il libertario pro-marijuana Gary Johnson.
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“È tempo di fermare l’odio anche noi musulmani siamo parte dell’America” Linda Sarsour della Arab American association: “Molti temono schedature di massa”ANNA LOMBARDI
DALLA NOSTRA INVIATA NEW YORK.
«All’indomani della vittoria di Trump i miei tre figli adolescenti mi hanno chiesto di non andare a scuola. Erano troppo scioccati. Io non li ho forzati. A causa della nostra fede affrontano scherzi cattivi e atti di bullismo tutti i giorni. E ora che ha vinto l’uomo che dice di voler vietare l’ingresso ai musulmani si sentono ancora più indifesi». Linda Sarsour, 36 anni, è l’attivista nata a Brooklyn ma di origine palestinese che guida l’Arab American Association ed è una degli organizzatori delle proteste anti-Trump che mercoledì hanno invaso New York. L’hijab azzurro sul capo, parla subito dopo aver arringato la folla raccolta a Columbus Circle e aver abbracciato la mamma e le sorelle, tutte a capo coperto, che l’applaudivano in prima fila. «Mia figlia di dodici anni, la più piccola, è la più scossa. Ha vomitato, ha pianto tutto il giorno. Ha paura come musulmana e come donna».
Perché è qui stasera?
«Per i miei figli e i tanti figli di immigrati che da oggi si sentono più insicuri. Questa campagna velenosa ha colpito bambini e ragazzi a livello psicologico e a questo punto anche fisico. In tanti oggi mi hanno detto che i loro figli si sono sentiti male, hanno avuto attacchi d’ansia e di paura».
Perché anche i bambini sono così sconvolti?
«Perché nel corso di questa campagna si sono sentiti chiamare terroristi, traditori, gli è stato detto che appartengono a un altro Paese e ad un’altra cultura anche se sono nati qui e non conoscono altro che l’America. E non sono solo i figli dei musulmani ad avere paura. I figli dei rifugiati hanno paura. E i figli dei latinos, dei messicani. Che hanno sentito definire i loro padri “stupratori”. E ora tanti hanno paura di andare a scuola perché temono di non essere più protetti, hanno paura di essere deportati o che arriverà qualcuno a separarli dai loro genitori ».
Come parlare con loro?
«Per i genitori è un momento particolarmente stressante. Siamo tutti devastati dal fatto che l’America ha eletto un razzista, misogino e islamofobico alla Casa Bianca. Ma dobbiamo rassicurare i ragazzi. Non è facile».
Le frasi di Trump sul bando dei musulmani dal Paese ora sono scomparse dal suo sito internet. Un tardo tentativo di pacificazione?
«Trump è talmente imprevedibile che nessuno sa cosa aspettarsi. Nella mia comunità la gente è confusa e ingigantisce quello che ha sentito. Tanti, ad esempio, oggi temono schedature di massa per i musulmani perché in un suo discorso ha parlato di “registro” ».
Come reagire?
«Ci siamo dati appuntamento proprio per cercare di mettere insieme un movimento pacifico ma determinato che unisca tutte quelle minoranze che Trump – e la gente che lo ha votato – odiano».
Chi fa parte di questo movimento?
«Gente normale, tanti studenti. E fra loro musulmani ma anche ebrei, afroamericani, latini e la comunità Lgbt. Perché chi odia i musulmani odia anche gli afroamericani, odia i gay, odia gli ebrei. L’odio è un circolo vizioso. Il paradosso è che tanti elettori di Trump, e anche il suo vice Mike Pence, si dicono persone di fede, buoni cristiani. Come possono delle persone di fede odiare tanto? Ecco perché dobbiamo unirci e impedire all’odio di sopraffarci. Dobbiamo organizzarci in tutta l’America per far capire a Trump e alla sua amministrazione che non resteremo in silenzio a subire».
Che cosa chiedete?
«Solo un’America che rappresenti tutti e che rispetti i valori di tutti».

Nel Paese che teme le minacce di Trump: “Ci strangola”Messico  Più che le deportazioni o il muro, preoccupano il controllo sulle rimesse e la revisione del Trattato di libero scambioOMERO CIAI Rep
DAL NOSTRO INVIATO CITTÁ DEL MESSICO.
«Se Trump fa tutto quello che ha minacciato di fare contro il Messico in campagna elettorale: ci strangola letteralmente », dice Manuel, giovane agente di Borsa, di fronte all’ingresso della Wall Street di Città del Messico, al 255 del Paseo de la Reforma, il grande viale che attraversa, per oltre 14 chilometri, questa capitale. «Per forza che c’è panico — aggiunge — potremmo sprofondare nella più grave crisi economica da decenni». Ma la minaccia delle deportazioni di massa dei
sans papiers
messicani negli Usa o il muro da costruire lungo i 3mila chilometri della frontiera, non sono le cose che spaventano di più i responsabili dell’economia messicana. Davvero devastanti, in realtà, sarebbero una qualche forma di controllo sui milioni di dollari delle rimesse che i messicani inviano dall’America alle loro famiglie qui o una revisione del Trattato di libero scambio tra i due Paesi. Trump non ha escluso un ritorno ai dazi sulle merci per contenere l’integrazione economica, ormai in corso da anni, tra il Messico e l’America, e difendere i produttori e i lavoratori degli Usa. Una prospettiva che qui fa venire i brividi molto di più delle frasi xenofobe sui messicani «tutti delinquenti e violentatori», secondo Trump, o delle provocazioni sulla caccia agli emigrati illegali che da anni attendono una sanatoria. E il motivo è semplice: quasi l’80 percento dell’export messicano viene assorbito dagli Stati Uniti. Che sono, nella pratica, quasi l’unico mercato di riferimento delle aziende messicane. L’argomento rimesse non è meno delicato visto che, a conti fatti, sono di più i dollari che arrivano in Messico grazie ai concittadini che lavorano in America di quelli che il bilancio dello Stato incassa dalle vendite di petrolio. Un fiume di denaro fresco che si aggira tra i 20 e i 30 miliardi di dollari, a seconda delle stime.
Per questo è inevitabile che l’effetto Trump faccia tremare il Messico. Se attuate, anche solo in parte, le sue minacce possono aprire uno scenario molto fosco nel quale dominerebbe l’instabilità con una, più o meno rapida, diminuzione di investimenti esteri — tante multinazionali investono qui per vendere negli Usa grazie agli accordi di libero scambio — e una probabile fuga di capitali dal mercato locale. Dopo la figuraccia di fine agosto, quando invitò Trump a Città del Messico, il presidente Peña Nieto ha ripreso l’iniziativa e in una telefonata, definita «amichevole e cordiale», si è messo d’accordo con il nuovo presidente americano per un nuovo summit bilaterale prima del suo insediamento il 20 gennaio. La speranza dei messicani è che esistano almeno due Trump, lo xenofobo agitato della campagna elettorale e quello che tra poco più di due mesi entrerà nell’ufficio dell’uomo più potente del mondo. Oppure, che a frenare il cataclisma che s’avvicina, siano gli stessi uomini d’affari e i manager della aziende americane, convincendo il neo presidente a mitigare la sua furia anti-immigrati. D’altra parte, come ha sottolineato in un discorso alla Nazione lo stesso Peña Nieto, «Noi e l’America siamo alleati, vicini e soci; se va bene il Messico vanno bene anche gli Stati Uniti e viceversa. Ci sono legami indistruttibili tra noi e loro». Il Messico è oggi il secondo partner commerciale dell’America e il primo Paese per gli investimenti dagli Stati Uniti ma anche il principale destino dell’export di Stati importanti come la California, l’Arizona e il Texas. Sfasciare, o anche solo discutere tutto questo, vorrebbe dire anche mettere in crisi almeno sei milioni di posti di lavoro, tutti quelli che negli Stati Uniti dipendono dall’interscambio con il vicino del Sud.
Forse Trump si renderà presto conto che tutta la sua propaganda anti-messicana e la sua ideologia nazionalista e protezionistica rischiano di rimanere nient’altro che parole. Ma di certo con la sua ostilità verso i latinos è riuscito, almeno in Messico, a farsi odiare da tutti. Se alla Borsa preoccupa la debolezza della moneta nazionale, il peso, e l’ipotesi di ridiscussione dei Trattati, la gente si sente offesa e umiliata da tutti gli insulti che ha ascoltato in queste settimane ed è preoccupata per il futuro dei familiari che vivono dall’altra parte della frontiera. È normale che una famiglia messicana negli Usa sia composta da persone che hanno residenza e permesso di lavoro (o persino nazionalità americana) e altri parenti senza documenti. Una campagna contro di loro avrebbe effetti traumatici. Oggi l’incubo del Messico si chiama Trump ma qualcuno conserva l’ottimismo. Come Cuauhtémoc Cárdenas, vecchio patriarca della sinistra, che interrogato sul tema ha risposto: «Nessun presidente americano ha mai vinto un’elezione promettendo di aiutare il Messico. Trump ha fatto di peggio. Ma speriamo che adesso la realtà delle cose lo convinca a rinsavire».
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Il Medio Oriente  Il presidente inesperto nella regione del caos Tutte le sfide del nuovo leader del mondoIsis, Israele, Siria: volente o nolente Trump dovrà occuparsi di questa zona e dei suoi difficili equilibriJASON BURKE Rep
Se la politica estera, durante il mandato di George W. Bush e di Barack Obama, è stata caratterizzata dalle “guerre dell’11 Settembre”, quella di Donald Trump sarà in gran parte giudicata da quanto saprà gestire le guerre con l’Isis.
I primi segnali non sono incoraggianti. La campagna di Trump è stata caratterizzata da una retorica anti-musulmana che ha suscitato paura e rabbia in tutto il Medio Oriente. Tra i primi a reagire, mercoledì, ci sono stati una serie di siti web e di propaganda collegati all’Isis e ad Al Qaeda. Nello Yemen, un importante attivista di Al Qaeda ha sostenuto che la vittoria di Trump dimostra che le idee del suo gruppo sull’America erano corrette, mentre un sito dell’Isis ha accolto con favore la prospettiva di un inasprimento negli Stati Uniti.
Il nuovo presidente è profondamente ignorante in tema di affari esteri. Pur se contraddittorie, le dichiarazioni di Trump in campagna hanno dato un’idea di quale potrebbe essere la sua politica in Medio Oriente e altrove.
Gli assi principali saranno tre: il primo, le guerre con l’Isis. Il secondo sarà l’approccio di Trump nei confronti dei governanti e degli Stati di quelle regioni. Il terzo sarà Israele.
I sentimenti e i punti di vista delle persone che vivono tra il Marocco e il Pakistan, dal Caucaso al Sudan, saranno di scarso o nullo interesse. Obama aveva teso la mano ai musulmani con il discorso al Cairo nel 2009. Il meglio che possiamo sperare da Trump è che moderi il linguaggio.
Nelle guerre all’Isis è probabile che si assista a una miscela di azioni vigorose quanto imprevedibili, con scarsa considerazione per il diritto: più attacchi con droni, campagne di bombardamenti, eventuali incursioni di forze speciali e forse alcuni interventi militari su ampia scala in determinate circostanze. La Cia potrà sentirsi incoraggiata, o perfino autorizzata, a usare la tortura.
Questa nuova aggressione sarà casuale, come si addice a un isolazionista. Così in Afghanistan, un possibile scenario è il rapido ritiro di tutti i militari americani, con un aumento degli aiuti alle forze governative che lottano contro i Taliban .
In Libia, dove le forze dell’Isis sono ancora presenti a Sirte, è possibile un maggiore intervento militare. La Libia è un ideale per la potenza di fuoco degli Stati Uniti e un personaggio come Trump sa quale impatto possano avere le immagini dei terroristi morti nei programmi tv.
Trump ha parlato molto di quello che vuole fare con l’Isis ma poco di porre fine alla guerra civile in Siria, su cui l’ISIS si è costituita. Una cosa è certa: la mappa strategica della regione sarà rimodellata entro sei mesi, quando Mosul tornerà sotto il controllo del governo iracheno e Aleppo interamente sotto il regime siriano. Entrambe le cose sembrano probabili: gli attacchi aerei russi si sono intensificati negli ultimi giorni e lo saranno ulteriormente nelle prossime settimane. Questo apre la possibilità che si apra una fase finale del conflitto.
Trump ha espresso la sua ammirazione per i curdi che ora potrebbero aspettarsi una maggiore ricompensa, almeno in Iraq, per i loro sforzi militari contro l’Isis. Nel mondo manicheo di Trump, loro, dopotutto, sono tra i “buoni”. Altrettanto si può dire di Vladimir Putin. E questo può cambiare le dinamiche in Siria. L’apparente vicinanza di Trump a Mosca rafforza la probabilità di una futura soluzione che assicuri la sopravvivenza del regime siriano. In effetti, non è impossibile che Trump subappalti alla Russia l’attuazione delle politiche e le decisioni nel Medio Oriente. Questo, naturalmente, potrebbe causare problemi con la Turchia. A Trump le tendenze autoritarie di Tayep Recep Erdogan danno meno fastidio che a Obama, ma è più infastidito dal suo islamismo. Tuttavia, se vuole creare delle zone franche per permettere ai rifugiati di tornare in Siria ha bisogno della Turchia.
Il che ci porta al tema dei governanti. Trump ha detto più volte che ci vuole un “leader forte”, sia in patria che all’estero. Un beneficiario di questo atteggiamento potrebbe essere il presidente egiziano Abdel Fattah Sisi. In Libia avrà poca pazienza con Fayez Al Sarra, che deve il suo insediamento a un accordo Onu. L’uomo forte dei militari, il generale Khalifa Haftar, sembra essergli più congeniale. Poi c’è il Golfo. Trump si è già alienato la simpatia di molti governanti e sarà molto difficile costruire dei ponti con la dinastia saudita dopo la retorica islamofobica. E se Trump insisterà sul fatto che la protezione militare statunitense sul Golfo è in fase di ritiro, ci si può aspettare che l’Arabia Saudita pensi ad arsenale nucleare autonomo.
Questo significa che Trump migliorerà le sue relazioni con gli iraniani? Improbabile. Ha già detto che l’accordo nucleare è «il peggior affare mai negoziato». Se l’accordo salta, questo indebolirà il moderato presidente Hassan Rouhani. E Israele? Tutti i consiglieri di Trump sono profondamente pro-Israele, come pure il nuovo vicepresidente Mike Pence. Trump è sembrato incoraggiare la costruzione di insediamenti nei Territori occupati e la mossa profondamente controversa di riconoscere Gerusalemme come capitale.
( Traduzione di Luis E. Moriones)
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Le campagne Piccole zone blu circondate da un mare di rosso È la mappa della rivolta dei “forgotten men” il popolo bianco e arrabbiato delle aree ruraliSIEGMUND GINZBERG
GUARDANDO le mappe del risultato delle presidenziali americane, ho una strana sensazione di deja vu. Specie quella dei risultati contea per contea. Ancora più della mappa del voto stato per stato, mostra un piccolo numero di poligoni azzurri (il colore che tradizionalmente indica il voto democratico) accerchiato da un mare immenso di poligoni rossi (il colore del voto repubblicano). Le periferie (le campagne, avrebbe detto Mao un tempo) hanno accerchiato e sommerso le città. L’impressione visiva è simile a quella del dettaglio del voto di quest’estate che portò al Brexit. Simile agli ultimi due voti in Turchia che diedero quasi la maggioranza a Erdogan l’anno scorso. Simile a quello che potrebbe succedere nelle prossime votazioni in Europa.
Hillary Clinton ha preso il 93 per cento dei voti nel District of Columbia, il cuore della capitale Washington. L’80 per cento e più a Manhattan e negli altri distretti di New York City. Oltre il 70 a Los Angeles e Chicago. In numero assoluto di voti, Clinton ne ha presi almeno 200.000 più di Trump. Che alla Casa Bianca vada Trump, che di voti ne ha presi meno di lei, dipende dal sistema dell’Electoral College, per cui in ciascuno Stato il primo arrivato prende tutti i grandi elettori. Nessun sistema elettorale è perfetto. Loro se lo tengono com’è da due secoli. Rispondeva, pare, alla preoccupazione dei padri fondatori della Costituzione che i più popolosi Stati del Nord pesassero molto più degli altri.
Ma la mappa del voto contea per contea mette ancor più in risalto un’altra anomalia: il voto democratico (blu) si concentra in alcune piazzeforti assediate da un mare repubblicano (rosso). L’America è fatta così: grandi città circondate da enormi estensioni molto meno abitate. Persino a New York se si esce dalla città si è subito immersi nel verde infinito della Hudson Valley. Anzi, in questa stagione di foliage autunnale, da infinite sfumature di rosso e giallo, di struggente bellezza. Nelle grandi città la percezione dominante è quella delle élite. Nel resto del paese è sparso l‘“americano medio”. La mappa delle contee sarebbe dominata dal rosso anche se avesse vinto la Clinton, e lo era anche quando vinse Obama. Anche in America le città sono in genere più “di sinistra”, più moderniste, e le campagne più “di destra”, più conservatrici.
È sempre stato un po’ così. Anche in Europa. La Parigi della Rivoluzione francese ebbe i suoi guai con la Vandea cattolica e contadina che parteggiava per Nobili e Monsignori. Un classico degli anni ’60, “Le origini della dittatura e della democrazia” di John Barrington Moore, faceva delle campagne la culla della prima e delle città la culla della seconda. Il nazismo, contrariamente a quel che si può credere, non si era affermato a Berlino, città ad esso ostile, ma nella provincia. Nel suo “E adesso piccolo uomo”, Hans Fallada raccontò quasi in presa diretta come i kleine mann avevano cominciato ad amare Hitler. In America, per spiegare Trump ritorna il concetto, che risale agli stessi anni Trenta, dei forgotten men, la classe media bianca arrabbiata, “dimenticata” e “invisibile”, tanto da sfuggire ai sondaggi. Allora non andò allo stesso modo dappertutto. In America i “dimenticati”, avevano votato per Roosevelt, che gli offriva il New Deal. In Francia avevano votato per il Fronte popolare di Léon Blum.
La cosa più sgradevole delle mappe di queste presidenziali Usa è che ritraggono un vento cattivo che non soffia solo in America. C’è chi ha notato che la vittoria di Trump è una sorta di Brexit, ma di portata mondiale. Ebbene, la prima impressione visiva delle mappe del day-after di quel referendum mostrava una simile prevalenza delle “campagne” e delle periferie dimenticate sottovalutate e arrabbiate. E non a caso analoga fu la sorpresa: eravamo andati a letto convinti dagli exit poll che avesse vinto il Remain per poi scoprire al mattino che era successo l’esatto contrario. Anche in quel caso le grandi città, che a cominciare da Londra avevano votato quasi plebiscitariamente per restare in Europa, apparivano sommerse da sterminate campagne per l’Exit. Una sola eccezione: la Scozia intera, che per far dispetto agli inglesi, aveva votato Remain.
C’è un’altra mappa elettorale ancora, che fornisce un’impressione visiva similare: quella delle elezioni parlamentari in Turchia nel Novembre 2015. Quasi tutta l’Anatolia (la Turchia profonda che potremmo fare corrispondere all’ America profonda che ha votato Trump) ha il colore (in questo caso il giallo) assegnato all’Akp, il partito di Erdogan. Il viola indica i distretti in cui ha prevalso il Partito curdo. Il rosso le poche città costiere in cui ha continuato a prevalere il partito laico kemalista. Istanbul è gialla perché è lì che hanno trovato fortuna e rivendicano il loro islamismo gli ex-dimenticati arrivati a milioni in questi anni dalle “campagne” dell’Anatolia. Questo succedeva prima del golpe, ben prima dell’intensificarsi della deriva autoritaria, ben prima che fosse tolta l’immunità ai parlamentari curdi che sono il principale ostacolo alle modifiche costituzionali che darebbero il potere assoluto al presidente. Erdogan aveva il consenso delle “campagne” ben prima di quello ottenuto sventando il golpe.
Non ho mappe analoghe per le elezioni che hanno portato al potere nella democrazia più popolosa del mondo, l’India, un partito religioso nazionalista, che diffida del resto del mondo e delle altre religioni. Sospetto che anche lì c’entrino qualcosa le “campagne”, la maggioranza indù che si sente arrabbiata e dimenticata e per questo se la prende con musulmani e laici. Le campagne che accerchiano le città erano una delle immagini più fortunate di Mao e della sua rivoluzione militare e contadina. Se però ci sia in Cina un vento analogo a quello che soffia in America e in Europa non ci è dato sapere: semplicemente perché la Cina non vota.
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L’ABBRACCIO CON BREXIT FEDERICO RAMPINI Rep 11 11 2016
NEL suo primo gesto da statista, Donald Trump reinventa l’asse storico Washington-Londra. In un’accezione ben diversa dal passato: movimentista, insurrezionale, rivoluzionaria? Si candida così a diventare il capo della Nuova Internazionale, la santa alleanza tra i leader del populismo anti-global e anti-immigrazione. Lo fa con tempismo, telefonando subito alla premier britannica Theresa May, la prima leader europea a cui il neo-eletto presidente degli Stati Uniti decide di parlare.
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LADY Brexit, appunto. Nella lunga e calorosa telefonata Trump comincia col ricordare le origini (parzialmente) scozzesi dei suoi antenati. Poi passa al sodo: «Il Regno Unito è un luogo molto, molto speciale per me e per l’America. Questa relazione speciale diventerà ancora più forte». Segue l’invito formale a Theresa May «perché venga in visita a Washington il più presto possibile». È il primo governante straniero a cui Trump rivolge un simile invito, quando ancora non si è neppure insediato alla Casa Bianca, appena 48 ore dopo il suo trionfo elettorale. Fra i leader esteri con cui il presidente- eletto ha avuto contatti così precoci, l’unica europea nella top list è May (tra i non-europei spicca Benjamin Netanyahu, premier israeliano).
Il gesto conferma quello che di Trump abbiamo appreso durante la campagna elettorale: l’uomo ha una sua peculiare padronanza della comunicazione, anche nelle provocazioni segue sempre una logica, calcola gli effetti, sa il messaggio che vuole trasmettere. Nel caso della May non è una provocazione ma una spettacolare reinvenzione. L’asse angloamericano è una costante della geopolitica mondiale dai tempi di Roosevelt- Churchill nell’alleanza contro i nazifascismi. Il Regno Unito è sempre stato l’interlocutore più affine ai valori americani dentro la Nato e dentro l’Unione europea. Ci furono intese personali fortissime tra Ronald Reagan e Margaret Thatcher all’insegna della rivoluzione neoliberista; fra Bill Clinton e Tony Blair nella Terza Via del riformismo moderato; ancora fra Tony Blair e George Bush per la sciagurata invasione dell’Iraq. Quell’asse era entrato in crisi con Brexit. Barack Obama andò a Londra apposta per appoggiare la campagna di chi voleva rimanere nell’Unione europea; vinse Brexit e May sembrava destinata a un ruolo marginale, in castigo. Altri speravano di ereditarne la posizione: Matteo Renzi in particolare.
Il sisma elettorale americano sconvolge tutti gli scenari. Trump è veloce nell’afferrare l’opportunità di proporsi in un ruolo di punta non solo all’interno del suo paese ma sulla scena mondiale. Già nella serata della vittoria, al suo quartier generale newyorchese, aveva lanciato segnali d’intesa verso Vladimir Putin, e (meno scontato) anche verso la Cina. A May lui offre subito “la relazione speciale”. Il precedente più significativo in questo contesto è proprio Reagan- Thatcher, due leader che guidarono la riscossa dei liberisti e del Big Business nel mondo intero. Trump vede in grande, sa che la sua elezione è sbocciata nel momento in cui forze populiste avanzano in tutto l’Occidente. Nonostante che la sua preparazione in politica estera sia a dir poco superficiale — lui stesso disse con candore “quel che devo sapere lo imparo dai talkshow” — gli è chiaro che a lui guardano con grande interesse i vari nazionalisti e protezionisti europei. Marine Le Pen è ansiosa di salire sul suo carro per farsi trainare verso la conquista dell’Eliseo. Le destre al potere nell’Europa dell’Est, i partiti anti- immigrazione, anti-euro, anti-globalizzazione, possono trovare in Trump una sponda e un vate. Di tutti, la più rispettabile di gran lunga è proprio May che governa una delle più antiche democrazie del mondo, e deve pilotarla nella delicata transizione fuori dall’Ue. Di colpo gli inglesi di Brexit da marginalizzati diventano centrali, nella versione nuova dell’atlantismo. Tutti gli altri, da Renzi a Merkel a Hollande, dovranno faticare per adattarsi alle nuove mappe della politica internazionale.
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