venerdì 18 novembre 2016

Essere e cocktail: il libro di Sarah Blakewell sugli esistenzialisti

Foto Cover di Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, essere e cocktail, Ebook di Michele Zurlo,Sarah Bakewell, edito da FaziSarah Bakewell: Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail, Fazi

Risvolto
Parigi, 1933: tre giovani amici si ritrovano al Bec-de-Gaz, bar di rue du Montparnasse. Sono il giovane Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e il compagno di studi filosofici, nonche? amico di lunga data, Raymond Aron, assorti nel discutere della nuova corrente concettuale nata a Berlino e chiamata Fenomenologia. «Vedete», dice Aron, «se sei un fenomenologista tu puoi parlare di questo cocktail e fare filosofia al di fuori di questo!». Suggestionato dal mistero racchiuso in quella frase, lo stesso anno Sartre va in Germania alla scoperta del nuovo fermento intellettuale che sta agitando una nazione. A Berlino si avvicina al pensiero del filosofo Husserl e del suo prote?ge? Martin Heidegger, intenti a capovolgere, dalle cattedre dell’universita`, l’intero pensiero umano, distruggendo la storia della metafisica e ricostruendo la filosofia dalla base. Tornato in Francia, Sartre trova l’ispirazione per ideare una nuova e straordinaria filosofia del vissuto e dell’esperienza quotidiana – una filosofia dell’amore e del desiderio, della liberta` e dell’essere – che, incontrandosi con la sensibilita` umanistica tipicamente francese, sara` alla base di quei movimenti di attivismo politico e culturale che agiteranno la seconda meta` del secolo. Al caffe? degli esistenzialisti esplora l’esistenzialismo come una storia di incontri tra idee e personaggi, dai maestri Sartre e de Beauvoir fino al circolo di amici, discepoli e antagonisti, tra cui lo scrittore Albert Camus e il filosofo Maurice Merleau-Ponty. Attraverso le pagine di questo libro, l’autrice intreccia filosofia e biografia creando un meraviglioso ed erudito affresco dove anche un semplice caffe` puo` rivelarsi piu` misterioso di quanto appare. 
Nessuno va più al caffè con Sartre 
Sarah Bakewell ricostruisce la storia dell’esistenzialismo E quel che resta del movimento nato attorno ai tavolini di Parigi
ANTONIO GNOLI Rep 21 11 2016
Chissà se oggi – nelle condizioni certo sfavorevoli che ci troviamo a vivere – incontreremmo mai, in un caffè parigino, quel giovane trio che agli inizi degli anni Trenta discettava delle novità accadute in Europa. Chissà, insomma, se le labbra da cernia di Sartre o quelle più altezzose di Aron, o magari la giovane e ambigua vestale, che rispondeva al nome di de Beauvoir, si sarebbero messe concitatamente a discutere della fine della democrazia e dell’avanzata imperiosa dei populismi. Non è difficile immaginare che quel periodo presentasse alcune forti analogie con il nostro oggi: come la perdita di fiducia in quelle élite politiche che avrebbero dovuto affrontare il caos e non seppero farlo. In
un certo senso, i tre i nostri protagonisti hanno offerto nel corso delle loro prestigiose carriere risposte intelligenti, ma non sempre adeguate. Hanno immaginato – soprattutto la coppia Jean-Paul e Simone – che l’impegno (il famoso engagement) sarebbe stato utile agli intellettuali stanchi di essere chiamati chierici e per giunta traditori. Quanto ad Aron, dopo quel breve periodo di intesa tra petits camarades, proseguì autonomamente sulla sua strada disseminandola di valori atlantici e liberali, i soli baluardi efficaci, a suo dire, contro il ritorno di fascismi e di comunismi. Troppa acqua è passata sotto i ponti per non chiedersi se l’esistenzialismo, del quale almeno Sartre e de Beauvoir, furono interpreti ascoltati e autorevoli, abbia ancora qualcosa da dire alle nostre coscienze e ai nostri occhi sotto i quali scorrono le pagine di
Al caffè degli esistenzialisti, di Sarah Bakewell (Fazi).
Avendo già scritto un bel libro su Montaigne, era fatale che prima o poi Bakewell mettesse il naso in quel pulviscolo filosofico che è stato l’esistenzialismo contemporaneo. E lo ha fatto, con molte buone ragioni, raccontando la vita e il pensiero di diversi filosofi, divertendosi a “fotografarli” ai caffè, molto in voga nella Parigi del dopoguerra.
L’autrice palpita dopo aver letto La nausea di Sartre, preferendo il romanzo sartriano allo Straniero di Camus. Non manca di apprezzamenti ironici verso la promiscuità sessuale di certi protagonisti (de Beauvoir in testa), segue con commozione le difficili vicende di un personaggio come Husserl, apprezza Heidegger pur cogliendone la povertà umana e l’insolenza teorica. Ne usciamo, insomma, dopo oltre quattrocento pagine, con la sensazione di avere a disposizione un quadro abbastanza fedele di che cosa sia stato quel fenomeno filosofico e quanta moda abbia prodotto il suo stile. Come in un’istantanea Bakewell ne fissa l’origine tra il 1932 e il 1933 «Quando tre giovani filosofi siedono al caffè Bec-de-Gaz in Rue de Montparnasse, a Parigi, aggiornandosi sugli ultimi pettegolezzi e bevendo la specialità della casa: cocktail all’albicocca». Ne viene fuori un quadretto istruttivo. Aron sempre informatissimo (a quel tempo studiava a Berlino) suggerisce a Sartre di trascorrere un po’ di mesi in Germania. Perché è lì che la filosofia sta facendo passi notevoli: grazie alla fenomenologia di Husserl, e a un certo Heidegger il cui libro Essere e tempo sta mettendo a soqquadro l’ambiente accademico. Per dei francesi, piuttosto disinvolti, che cosa poteva avere di eccitante la fenomenologia? Al di là delle complicazioni, dovute soprattutto alla lingua tedesca, la fenomenologia agli occhi di Sartre sgombrava il campo filosofico da tutte le incrostazioni interpretative. Husserl invitò i suoi allievi ad andare alle “cose stesse”. Come se dicesse: lasciate perdere tutto quello che la filosofia ha pensato fino a questo momento, ignorate i sistemi, non perdete tempo a esaminare le scuole filosofiche che si sono susseguite. Badate solo al senso delle cose. Più che ai concetti pensate alle situazioni. Siate fenomenologi: sospendete i giudizi e raccontate quello che vedete. L’invito del vecchio filosofo fu accolto da Sartre: se Husserl ci incoraggia a descrivere il mondo, chi meglio di me, che sono anche scrittore, potrà farlo? Chi più di me potrà parlare di tutto: dai cocktail, appunto, ai camerieri che li servono, fino all’esistenza umana che li precede. «L’esistenza precede l’essenza», così Sar- tre formulò il suo programma filosofico. Quella frasetta l’aveva in qualche modo orecchiata da Heidegger e adattata alla sua visione umanistica. Il contrario, insomma, di ciò che il filosofo tedesco intendeva con la parola “esistenza”, cioè un prerequisito antimetafisico e non un programma per una filosofia che avrebbe preso il nome di “esistenzialismo”. Fu grazie al successo di Sartre che l’esistenzialismo si trasformò in una sottocultura o meglio in una moda che Parigi cavalcò con raro tempismo: musica, pittura, letteratura, cinema, tutto finì tra gli anni Cinquanta e Sessanta sotto il segno di una filosofia che decretava, con qualche ritardo rispetto a Nietzsche, la morte di Dio, la solitudine dell’uomo, il peso drammatico della decisione. E quindi della libertà. Mai parola più compromessa e ambigua fu adoperata con tanta disinvoltura.
Infastidito e preoccupato che si potesse ricondurre l’esistenzialismo ai suoi “sentieri interrotti” e al suo piccolo “Dasein” (Bakewell lo riduce a l’”essere quotidiano”), Heidegger scrisse un libello che deluse Sartre e i suoi amici. La lettera sull’Umanismo non solo decretava la distanza hedeggeriana dall’esistenzialismo ma ne coglieva la fragilità speculativa. Immaginare, insomma, che l’uomo, per quanto malconcio ed esasperato, potesse essere protagonista di una rivoluzione filosofica era per Heidegger un controsenso. Sartre e Heidegger si videro una sola volta. Nel 1953, a Zähringen, la residenza cittadina di Heidegger. L’incontro, come nota Bakewell, non andò bene, fu un dialogo tra sordi, dal quale Sartre si congedò di pessimo umore. Ciascuno, in fondo, chiedeva ciò che l’altro non poteva dargli. Heidegger glissò sul suo passato nazista, Sartre non rinunciò mai all’idea dell’uomo portatore di un progetto di libertà. Affermazione che inorridì il filosofo tedesco.
C’è da dire in conclusione che mentre la filosofia di Heidegger – nonostante i Quaderni neri – continua a sollecitarci, l’esistenzialismo di Sartre non ha trovato nessuna nuova reincarnazione. Soppiantato dai postmodernismi (a loro volta messi da parte dai nuovi realismi), e dalla post- cibernetica, e dal post-colonialismo, l’esistenzialismo sembra vivacchiare con lo sguardo rivolto più al passato che all’oggi. Il suo trionfo (ma forse anche la sua rovina) fu il Sessantotto. È vero, come sostiene Bakewell, che ha fornito un contributo fondamentale al cambiamento delle basi del nostro vivere odierno, sostenendo il femminismo, i diritti degli omosessuali, l’abbattimento delle divisioni sociali, nonché le lotte contro il razzismo e il colonialismo. Ma è come se quella carica libertaria si fosse infranta sulla durezza contorta della realtà. Trasformando le proprie esigenze in una democrazia del vaniloquio dove parole e simboli hanno soppiantato i fatti e deluso ogni idea di verità possibile.
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Guardare le vite degli altri per capire la propria 
Sarah Bakewell. Un’intervista con la scrittrice inglese che domenica arriva a Milano per partecipare al Bookcity per presentare il suo ultimo libro dal titolo «Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail», edito da Fazi 
Alessandra Pigliaru Manifesto 18.11.2016, 20:50 
Sarah Bakewell, scrittrice inglese arrivata al successo con il suo libro Montaigne. L’arte di vivere (Fazi editore) che le è valso il National Book Critics Circle Award 2010 per la migliore biografia, ha lo spirito da catalogatrice. Sarà per i viaggi che fin da piccola ha dovuto affrontare con i suoi genitori che l’hanno portata a vivere in Australia, in Asia e poi a fare ritorno in Europa, che Bakewell ha fatto di questa esperienza di nomadismo un’avventura di osservazione dei dettagli. Dopo essersi laureata in Filosofia all’università di Essex e aver seguito un corso di perfezionamento in Intelligenza artificiale e Storia della medicina, ha lavorato in una fabbrica di bustine da té e in diverse librerie, tutte inglesi. Attualmente insegna scrittura creativa al Kellogg College di Oxford ma è maneggiando i libri antichi che ha cominciato a interrogarsi sull’ipotesi di scrivere.
Sempre per Fazi, è stato appena pubblicato Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail (per la traduzione di Michele Zurlo, pp. 480, euro 20) che corrisponde alla sua passione per quel fulgido e affascinante momento rappresentato dall’esistenzialismo. «Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, in particolare, hanno avuto il desiderio di cambiare il mondo. Un’enorme ambizione che sarebbe bello possedere anche oggi». 

È innamorata della filosofia, che cosa significa per lei?

La filosofia può essere molte cose. Non c’è una sola disciplina della «filosofia», perché l’arco comprende e va da chi la pratica come puro sapere accademico a chi prova a vivere in consonanza con la propria filosofia nel mondo. Non credo che nessuno di questi due atteggiamenti possa rivendicare e avocare a sé la parola «filosofia». Per quanto mi riguarda, sono più interessata alle filosofie della vita, delle relazioni umane, del mondo condiviso in cui viviamo. Certo, non amo vederla rappresentata come una mera ricetta per una buona vita o un modo per essere felici. La filosofia fornisce molte meno risposte, si tratta piuttosto di fare le domande giuste. 

Questa concentrazione verso le vite dei filosofi da dove proviene?

Ho trovato interessanti molte vite di filosofi. Con questo non voglio dire che siano esemplari ma con un forte senso del dramma sì, alcune parti di quelle storie così complesse e i potenti amori, le grandi lotte, il loro coinvolgimento politico e di impegno mi hanno spesso suggerito uomini e donne che hanno avuto a cuore ciò che hanno fatto. In particolare, mi sono riferita a quei filosofi che hanno scritto intorno alle esperienze ordinarie e quotidiane, come gli esistenzialisti hanno fatto, indagando e appuntando a proposito della propria e di quella di altri. Sartre, per esempio, era biografo – ha composto migliaia di pagine. Sarebbe davvero strano guardare a un filosofo come lui e fare finta di non sentire rilevante il modo in cui ha vissuto. Di solito attraverso le idee intuisco e cerco di capire le vite e viceversa. C’è un forte e costante movimento tra idee e vita. 

Lei ha detto di essere stata una «ragazzina esistenzialista», ispirata da «La Nausea» di Jean-Paul Sartre. Poi cosa è successo e, soprattutto, perché ha fatto ritorno all’esistenzialismo?
Ho scoperto il libro di Sartre nel giorno del mio sedicesimo compleanno – lo avevo comprato per caso perché incantata dalla copertina. Mi piaceva anche il titolo, così strano. Solo dopo averlo letto ho scoperto che il libro era molto più che strano, forse troppo: negli occhi dei miei 16 anni osservavo quelle cose colme di trasformazioni descritte nelle pagine sartriane, quelle esperienze apparentemente senza senso attraverso il protagonista Roquentin. Egli cerca di capire solo cosa gli stia accadendo intorno. Come in un thriller in cui l’unica soluzione si rivela essere filosofica. Così ho proseguito leggendo Albert Camus e Simone de Beauvoir. All’università ho invece conosciuto Martin Heidegger per poi collocarmi lontana da lui e dal suo pensiero, così come dalla filosofia per parecchi anni. Quando ho ricominciato a rileggere gli esistenzialisti l’ho fatto per curiosità, volevo sapere se, in una fase diversa della mia vita, mi potessero ancora sembrare eccitanti. La risposta è che lo erano ancora ma per ragioni completamente differenti. 
Nella prospettiva critica da cui parte il suo lavoro, viene dedicato ampio spazio a un’idea portante che è quella della libertà. Come si è misurata con il rilievo esistenzialista?
Nel senso comune, si immagina che la libertà nel principio esistenzialista si configuri come un fare quel che ci piace, in modo selvaggio e irresponsabile. Procedere insomma secondo il personale sentire in ogni singolo momento. In realtà, è vero il contrario. Per Sartre, la libertà porta con sé anche una grande responsabilità. Scegliamo quello che facciamo e nell’istante della scelta bisogna pensare lo si stia facendo non solo per sé ma anche per gli altri. L’azione del singolo acquista dunque un’importanza cruciale, se intesa in questo senso. 

Insieme alla libertà, altre parole hanno contrassegnato quell’orizzonte di senso che è stato l’esistenzialismo. Essere, responsabilità, l’altro, sessualità, relazione, autenticità, assurdo – solo per citarne alcune. Lei crede che qualcuna di queste idee in particolare vada rimeditata oggi con maggiore urgenza? 

Probabilmente la responsabilità. È incredibilmente difficile essere onesti con se stessi circa le proprie azioni, e sulle conseguenze che possono avere per gli altri.
Nel suo volume precedente ha affrontato Montaigne, ora l’esistenzialismo e la fenomenologia. Due atmosfere molto diverse nel nome della condizione umana?
In fondo mi dico che ogni libro pubblicato, non solo i miei, si riferiscano in ultima istanza alla condizione umana. Separandosene, cercando di comprenderla, interpretarla o tenendola sullo sfondo. In effetti il punto di vista di chi scrive è per forza umano. Ed è un elemento, questo, inaggirabile. 

Immaginazione, documentazione, modi di stare nel mondo. Quando decide di scrivere, in che modo lavora e quali aspetti predilige? 

Prediligo la documentazione, almeno in prima battuta. Scrivo di storie che mi interessano molto ma voglio stare fedele ai dettagli giusti, per quanto possibile. Non amo inventare narrazioni dal nulla, preferisco invece tornare indietro e mettermi alla ricerca di figure particolari, speciali, insieme ai contesti da cui partono. Quindi leggo moltissimo per acquisire la sensazione del mondo da cui emergono. E poi, naturalmente, l’immaginazione entra in gioco, così posso provare a lambire la loro esperienza e dare avvio alla mia interpretazione. È come una continua scoperta, anche per me in modo che l’atto della scrittura faccia sgorgare cose che ancora non conosco o che credevo di sapere e invece risultano non veri. Per me, questi sono i momenti più belli nella vita di una scrittrice. 

L’ultimo libro di Sarah Bakewell dal titolo «Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail» verrà presentato domenica 20 novembre alle 13.00 al Teatro Franco Parenti di Milano. Con l’autrice interverranno Mauro Bonazzi, Armando Massarenti e Gianni Vattimo

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