sabato 5 novembre 2016

Il mondo liberal trema, da New York a casa di Riotta, Rampini e Zucconi

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Franzen: “Io sto con Hillary ma ci sarà una guerra civile” 
I timori dello scrittore di fronte all’avanzata del tycoon: “Incita alla violenza come faceva Hitler”

WIELAND FREUND Rep 5 11 2016
L’otto novembre si vota. Abbiamo alle spalle un anno di campagna con protagonista Trump. Come è stato per Lei?
«La campagna mi ha disgustato. Mi sono autoinflitto la tortura di seguire il secondo dibattito presidenziale e dopo avevo la sensazione che mi avessero puntato contro un idrante spruzzandomi addosso acqua di fogna per un’ora e mezza. Sono nauseato dalla quantità delle infami menzogne di Trump. E ora, dopo il disgustoso comportamento del direttore dell’FBI sono terrorizzato e nauseato al pensiero che Trump trovi il modo di vincere».
Trump ha attirato tutta l’attenzione.
Sorprende che invece si parli pochissimo del fatto che, stando ai sondaggi, l’America sarà governata da una donna. Come mai?
«Non sappiamo cosa succederà, ma io penso che sia arrivato il momento di un presidente donna, come era arrivato il momento di un presidente afroamericano. Molte delle mie amiche più anziane sono entusiaste di Hillary perché è donna. Se Hillary non riscuote un favore più universale è perché non rappresenta solo un genere — rappresenta i Clinton, e agli occhi di molti americani è più una Clinton che una donna. Si ha la sensazione che non sia arrivata in alto con le sue sole forze e per questo le femministe fanno fatica a tifare per lei».
Quando Hillary Clinton si è sentita male non ho potuto fare a meno di ricordare una frase che ha detto 8 anni fa, durante le primarie: “Nessuno dice che Obama non è adatto al ruolo perché è nero, ma si sente ancora dire che una donna alla presidenza non è una buona idea”. E’ così ancora oggi?
«Sono solo i sostenitori di Trump a dirlo. Il nucleo del suo elettorato è rappresentato da uomini bianchi non laureati, ossia proprio la fascia demografica che nutre una visione più tradizionale dei ruoli di genere. Se il tuo posto di lavoro è a rischio, il tuo reddito in calo, se ti senti sempre più una minoranza in un Paese un tempo bianco, tendi a compensare facendo uno sfoggio esagerato di virilità. Per questo tipo di americano la misoginia di Trump, i suoi abusi sulle donne non sono colpe. Sono virtù positive».
All’epoca ha vinto Obama. Gli ha fatto leggere in anteprima il suo romanzo “Libertà” e lui l’ha invitata alla Casa Bianca. Che ricordo avrà di lui?
«Non dimenticherò mai la facilità di dialogo. Avevamo a disposizione solo venti minuti ma dopo avrei voluto che il colloquio fosse durato cinque ore. Non approvo tutto quello che ha fatto, ma sono certo che nella mia vita non avrò più occasione di vedere un altro presidente così compatibile con me sotto il profilo sia culturale che intellettuale ».
Obama è stato presidente in un periodo difficile. Ha agito bene? Nonostante i raid dei droni? Nonostante la Siria?
«Obama è stato il primo presidente — ma, temo, non sarà l’ultimo — a dover governare il Paese in società con un partito che rifiuta sempre più il concetto stesso di governo. Tutto considerato penso che abbia fatto staordinariamente bene. E’ vero, la Siria è un disastro e la guerra dei droni è disgustosa ma non credo a nessuno che dica di avere in tasca una soluzione chiara».
Il fenomeno Trump sarebbe stato immaginabile senza Obama?
«Il fenomeno Trump è inimmaginabile senza Internet e i social media. Internet ha creato un mondo in cui si può vivere immersi nella la propria realtà virtuale senza doversi mai confrontare con la realtà nel vecchio senso del termine. E Twitter non fa che peggiorare le cose, perché non consente sfumature né complessità. Verrebbe da pensare che postare dei tweet detestabili su una ex Miss Universo alle tre di notte squalifichi un candidato alla presidenza, ma nel mondo di Twitter non esiste distinzione tra pubblico e privato. Se si vive in quel mondo il tweet di Trump, carico d’odio nel cuore della notte, sembra perfettamente normale. Si apprezza Trump perché è “vero”».
In che cosa consiste il fenomeno Trump?
«Consiste in parte nel rimpiazzare i valori politici con quelli dell’intrattenimento, in parte nell’eliminare la distinzione tra pubblico e privato, e in parte nel disprezzo crescente per i fondamentali processi di governo. Sono convintissimo che il motivo per cui questo fenomeno si manifesta proprio ora, nel 2016, ha carattere tecnologico; senza Twitter non ci sarebbe Trump. Ma va anche notato che questo tipo di populismo rispecchia una reale e giustificata frustrazione nei confronti delle élite di ogni genere. A disgustarmi non sono i frustrati dei ceti popolari, bensì il mezzo che hanno scelto per esprimere la loro frustrazione: un sociopatico narcisista, rampollo di una ricca famiglia di costruttori».
Lei conosce bene la Germania: vede paralleli fra Trump e l’estrema destra dell’AfD?
«Non so se sia utile paragonare Trump a Frauke Petry (leader dell’AfD ndr.). Sono seriamente convinto che il paragone più valido sia con Hitler. Trump incita alla violenza, è esplicito nel suo disprezzo per il sistema elettorale e si è scelto il motto “Io solo posso salvare l’America”. E’ molto lontano da Petry che, con tutte le sue pecche, non ha un atteggiamento messianico».
In “Forte movimento“, il suo secondo romanzo, descrive il clima che portò alla nascita del Tea Party. In ”Libertà“, 20 anni dopo, racconta di una famiglia che oggi senza dubbio voterebbe Trump.
Che cosa è successo al partito repubblicano?
«Ormai è il partito di Lincoln solo di nome. Una casualità storica. I repubblicani sono diventati il partito della Confederazione americana a cui Lincoln dichiarò guerra. Oggi assistiamo alla recrudescenza del grave conflitto in seno alla società americana che diede origine alla Guerra Civile. In ultima analisi riguardava la schiavitù, ma non va dimenticato che prima della guerra i sudisti formulavano la loro difesa della schiavitù rivendicando i “diritti degli Stati”. A centocinquant’anni di distanza una consistente minoranza di americani, degli Stati che vanno dalla Georgia all’Idaho, non ha mai accettato l’idea di un governo federale. Per evitare l’oblio elettorale il partito repubblicano prese ad allinearsi con questi americani ai tempi della candidatura di Richard Nixon. La conclusione logica di questo allineamento è l’ostinazione del partito a definire ipso facto illegittima la presidenza di Obama. Ora temo che la candidatura di Trump abbia danneggiato in maniera così grave il tessuto della nostra nazione che Hillary, se verrà eletta, probabilmente dovrà passare il primo anno del suo mandato a sedare ribellioni armate da parte di gruppi che negano la legittimità della sua elezione. Credo che il problema potrebbe porsi a livello grave soprattutto negli Stati rurali occidentali. Anche se non si arriverà alla ribellione armata, prevedo che Hillary combatterà una sorta di infinita guerra civile a difesa del nostro sistema di governo».
( © Die Welt / Lena, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Emili



L’incognita Millennial la generazione post ’80 che incoronò Obama ora abbandona Clinton 
Nel campus della Columbia University non c’è un solo comitato. “Per loro Trump è un razzista e Hillary una bugiarda. Per questo votarono Sanders”

FEDERICO RAMPINI LA GENERAZIONE DEI GIOVANI Rep 5 11 2016
IL TITOLO è attraente: “Trump, Brexit, i populismi illiberali”. I relatori sono autorevoli: Pippa Norris di Harvard, Jan Kubik dello University College (Londra), Sheri Berman di Columbia. Quando arrivo la prima delusione è la sala: nel campus di Columbia University il convegno si svolge a Buel Hall, un’aula piccola, appena un centinaio di posti. E neanche tutta piena. Solo la metà studenti, gli altri sono docenti, miei coetanei.
IGIOVANI prendono nota diligentemente, fanno domande serie, ma non c’è elettricità nell’aria, potremmo essere a un seminario di biogenetica. Non hai l’impressione che questi Millennial vivano l’ante-vigilia dell’Apocalisse (potenziale). Ancora peggio è lo spettacolo fuori. Il campus di Columbia come sempre brulica di popolazione studentesca, è animato, dinamico, indaffarato. L’unica cosa che manca? La politica. Non c’è un solo comitato di militanti, democratici o repubblicani. Non c’è un banchetto di appello al voto. Zero propaganda elettorale. Qualcuno ha portato due sagome in legno, caricature di Donald Trump e Hillary Clinton, con un buco al posto del volto: puoi affacciarti e farti fare una foto. Roba goliardica, un gioco che può trovare anche un turista a Times Square. A quattro giorni dal voto, il campus della Columbia che è noto come uno dei più liberal del mondo, sembra vivere una routine normale, indifferente all’ansia febbricitante della nazione. Dalla parte opposta degli Usa, mia figlia che finisce un dottorato e insegna in California si è messa a lavorare da volontaria in una phone bank pro-Hillary: telefona a liste di donne per raccomandarsi che vadano al seggio martedì. Mi conferma però che nei suoi due campus universitari, Santa Cruz e San Jose, la militanza politica è ai minimi termini. E siamo, anche lì, nell’America più radicale.
Il mio doppio test personale e familiare è confermato dai sondaggi. In quegli Stati dov’è consentito il voto anticipato la partecipazione della Generazione Millennial è in calo rispetto al 2012. Un brutto segno per Hillary, che sulla carta gode di un netto vantaggio fra i giovani… ammesso che vadano a votare. In confronto a quattro anni fa e al 2008, quando i Millennial furono una
constituency cruciale per portare Obama alla Casa Bianca, oggi hanno tutti raggiunto l’età del voto, quindi sono numericamente ancora più importanti. È la prima elezione delle storia in cui i Millennial, nati dal 1982 al 1999, eguagliano i Baby boomer (sostanzialmente i loro genitori). Circa 70 milioni. L’uno e l’altro gruppo superano il 30% dell’elettorato potenziale. Ma in assenza di un candidato carismatico come Obama, in tempi normali meno della metà dei giovani americani votano, mentre i baby-boomer superano sempre il 60% e gli anziani il 70%. È l’affluenza che può giocare uno scherzo terribile ai democratici. Trump ha l’elettorato più anziano e più bianco: quello più disciplinato nell’esercitare il diritto di voto.
Millennial uguale generazione apolitica? Non lo pensa affatto David Cahn, ricercatore della University of Pennsylvania, lui stesso Millennial, che assieme al fratello gemello Jack ha perlustrato l’America per due anni per intervistare i suoi coetanei e ne ha tratto il saggio When Millennials Rule: The Reshaping of America. Per Cahn i giovani rigettano non la politica tout court, ma quella tradizionale: «Il 50% rifiuta sia l’etichetta democratica sia quella repubblicana, e si dichiara indipendente. Sono dei radicali realisti. Una generazione incompresa. Che ha sofferto molto per l’ultima crisi economica e continuerà a soffrire a lungo: i livelli salariali si sono abbassati durevolmente». La diffidenza che provano verso i due candidati, Cahn la riassume così: «Per loro Trump è un razzista, Clinton una bugiarda. Vogliono un cambiamento vero. Per questo votarono Bernie Sanders». Ecco il
deus ex machina. Dov’è finito il 74enne socialista che seppe entusiasmare i giovani con la sua “rivoluzione politica”? Vive e lotta insieme a noi: disciplinatamente, dopo avere deposto le armi e concesso il suo endorsement a Hillary, Sanders sta facendo la sua brava campagna elettorale, Stato per Stato. Al tempo stesso appoggia l’occupazione degli indigeni americani nel South Dakota, per bloccare la costruzione di un oleodotto nelle riserve indiane. E questo va citato: perché una battaglia che sta appassionando i giovani molto più dell’elezione presidenziale è proprio quella per salvare dai petrolieri le riserve indiane. Altro che generazione apolitica. BlackLivesMatter, o la denuncia delle violenze sessuali, hanno appassionato i giovani universitari. Quando si è trattato di denunciare il razzismo della polizia, a Ferguson o a Baltimora, li ho sempre visti in prima linea. Non a caso Trump, in alcuni Stati molto liberal, tra i giovani rischia di arrivare perfino terzo o quarto dietro il libertario Gary Johnson e la verde Jill Stein. Conta anche il fattore etnico: 20% dei Millennial sono immigrati o figli di stranieri. Ma non basta che disprezzino Trump, divorando Saturday Night Live o i talkshow della satira politica dove lo ridicolizzano i vari John Oliver, Jon Stewart, Bill Maher, Stephen Colbert. Dopo essersi fatti grasse risate, condivise con gli amici su Facebook, si ricorderanno quella piccola incombenza da assolvere martedì?
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I GIOCHI SPORCHI NEL CASTELLO DELL’FBI 

VITTORIO ZUCCONI Rep 5 11 2016
È AL NUMERO 935 di Pennsylvania Avenue, a soli quattro isolati dalla Casa Bianca, che il filo della possibile vittoria di Donald Trump conduce diritto dentro il castello di quell’Fbi che da centootto anni manovra nell’ombra le manopole segrete della politica, fingendosi neutrale. L’irruzione nella campagna elettorale del direttore James Comey, che ha rivelato a sette giorni dal voto l’esistenza di altre, possibili email sul conto di Hillary Clinton, ha proiettato Trump in una rimonta nei sondaggi che sembrava impossibile. Ha fatto gridare all’invasione di campo i sostenitori dell’ex segretaria di Stato e il presidente Obama, di fronte alla scoperta che i G-Man giocano sporco, e ha illuminato come dentro quel massiccio palazzo nel centro di Washington lavori una cabala spregiudicata e segreta disposta a far di tutto per fermare colei che, nel giudizio di una “gola profonda” dentro lo stesso Fbi, è vista come “l’anticristo”.
Ma se lo shock per la mossa del direttore, repubblicano di antico pelo, sottosegretario alla Giustizia sotto George W. Bush, finanziatore di John Mc-Cain e Mitt Romney e scelto da Obama in un gesto di malintesa conciliazione bipartisan, ha mobilitato gli elettori repubblicani riattizzando la “sindrome anti-Clinton” pur senza nessun indizio nuovo, la storia delle interferenze della massima, e unica, polizia federale nella vita politica americana è antica quanto la sua esistenza. Comey, il direttore che si è schierato — o è stato costretto a farlo sotto minaccia di fughe di notizie da parte della fazione “trumpista” — contro Clinton è nel solco tracciato dal Padre Fondatore e Santo Patrono del Federal bureau of investigation, G. Edgar Hoover.
Non c’è stato partito, non c’è stato presidente, da Woodrow Wilson al prossimo, chiunque sia fra Clinton e Trump, che non abbia dovuto subire, o abbia cercato di usare, la potenza investigativa dell’Fbi contro avversari politici, per influenzare l’opinione pubblica o per difendersi. In un rapporto alternativamente di succubo e incubo, la politica utilizza, e subisce, la colossale burocrazia investigativa del governo, con i suoi 35 mila dipendenti.
Franklin Roosevelt, che detestava Hoover e a ogni elezione minacciava di sostituirlo e poi si doveva rimangiare la minaccia, lo usava per tenere sotto controllo le organizzazioni di estrema destra e sinistra brulicanti negli anni ‘30. Dai G-Men ottenne la distruzione di un oppositore, un predicatore populista con grande seguito, padre Coughlin, utilizzando un classico della disinformatsia del tempo: l’accusa di essere omosessuale. Partita da un uomo, il direttore stesso, sul quale circolavano e continueranno a circolare ipotesi di omosessualità nascosta.
Hoover lavorò segretamente per silurare la campagna elettorale di Truman, appoggiando il repubblicano Dewey, ma servì poi a Truman per contenere il maccartismo, esibito come prova della propria battaglia anticomunista. E quando arrivò il momento dei Kennedy, il dossier privato del boss sui due fratelli si gonfiò di intercettazioni e di ricatti. Hoover aveva le prove di tutte le avventure amorose dei due fratelli, che quindi poteva ricattare, odiandoli odiato. Ma i Kennedy, soprattutto Bob diretto superiore al Ministero della giustizia, lo usava per sorvegliare il movimento per i diritti civili e Martin Luther King.
Nella House of Cards del potere washingtoniano, oscillante fra i due capi opposti di Pennsylvania Avenue, il Campidoglio sede del Parlamento e la Casa Bianca, il castello dell’Fbi sta esattamente, fisicamente nel mezzo, tenendo le chiavi dei segreti più impronuciabili e di tutti. Fu lì che il vicedirettore, Mark Felt, sussurrò dalla propria Gola Profonda gli sporchi trucchi di Richard Nixon ai reporter del Washington Post nel 1973-74, portando alle dimissioni del presidente. Ed è lì che oggi si è formata la “Trumpland”, la terra dei funzionari pro Trump che comunicano in anticipo ai media di estrema destra e agli uomini vicini a Donald come Rudy Giuliani a New York, già avvocato della associazione dei funzionari Fbi, le notizie di indagini su Hillary.
Furono necessari decenni perché la reputazione del Bureau, passato dal mito glorioso della lotta al gangsterismo alla vergogna delle interferenze politiche, si ristabilisse dopo la morte di Hoover nel ’72 e le azioni del direttore in carica, incomprensibilmente piombato sulle elezioni a sette giorni dal voto senza neppure offrire elementi nuovi, torneranno a intossicare l’immagine dell’Fbi, proprio nel momento della massima domanda di sicurezza nazionale. Se la mattina del 20 gennaio 2017, viaggiando nel percorso trionfale fra il giuramento in Campidoglio e l’ingresso alla Casa Bianca, il passeggero della “Bestia”, della-Cadillac presidenziale blindata, sarà Trump, dovrà rivolgere uno sguardo di gratitudine verso quel palazzaccio dell’Fbi e quel direttore che potrà dirgli: io ti ho fatto re. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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