martedì 8 novembre 2016

Il terrore freddo dei media di tutto il mondo nella notte delle elezioni statunitensi

Presidenziali Usa. Netanyahu sorride, Abu Mazen tace
Medio Oriente. Il premier israeliano è in una botte di ferro: «Chiunque sarà eletto le relazioni fra Stati Uniti ed Israele non solo resteranno eguali ma anzi si rafforzeranno ulteriormente». Per i palestinesi, con Trump o Clinton, è notte fonda
di Michele Giorgio il manifesto 8.11.16
GERUSALEMME In politica e diplomazia di solito le cose non accadono per caso. Perciò non è un caso che Israele ieri, alla vigilia del voto che deciderà il nuovo presidente degli Stati Uniti, abbia detto in maniera «chiara ed inequivocabile» di opporsi alla Conferenza internazionale per il Medio Oriente che la Francia intende organizzare entro la fine dell’anno a Parigi.
All’emissario francese Pierre Vimont, il negoziatore Yitzhak Molcho e il consigliere per la sicurezza nazionale Yaakov Nagel, hanno spiegato che «Israele non parteciperà ad alcuna conferenza internazionale che sia convocata in contrasto con le sue posizioni», che il progresso vero del processo di pace ed il raggiungimento di un accordo avverranno solo mediante negoziati diretti fra Israele e l’Autorità palestinese» e che «ogni iniziativa diversa non fa altro che allontanare la Regione da quel processo».
Il dopo Obama è già cominciato per Israele. Con il secco no di Molcho e Nagel alla Francia, il premier Netanyahu ha inviato a Trump e Clinton un messaggio molto chiaro: silurate la conferenza di Parigi e impedite un colpo di coda del presidente uscente. Da tempo circolano voci di una vendetta fredda di Obama per l’umiliazione che gli ha inflitto il primo ministro israeliano andando ad arringare (marzo 2015) il Congresso Usa contro l’accordo sul nucleare che l’Amministrazione stava negoziando con l’Iran e per il costante utilizzo degli numerosi amici di Israele ai vertici delle istituzioni politiche statunitensi contro la politica della Casa Bianca.
Netanyahu stapperà la sua bottiglia più costosa per festeggiare l’uscita di scena di Obama. Non che il presidente americano abbia modificato o limitato in qualche modo le relazioni strettissime, strategiche, tra Usa e Israele, anzi ha concesso a Tel Aviv il pacchetto di aiuti militari più generoso mai accordato ad un altro Paese. Però Obama nei rapporti personali e in con diverse dichiarazioni non ha nascosto i suoi mal di pancia per gli atteggiamenti e le politiche di Netanyahu volte a demolire definitivamente l’idea di uno Stato palestinese proclamando allo stesso tempo di appoggiarla, a cominciare dall’espansione senza precedenti delle colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme Est.
«Chiunque sarà eletto le relazioni fra Stati Uniti ed Israele, che già sono solide e forti, non solo resteranno eguali ma anzi si rafforzeranno ulteriormente», ha affermato domenica Netanyahu, con evidente soddisfazione. «Ci aspettiamo che gli Usa continuino a restare fedeli al principio che loro stessi hanno sancito molti anni fa, ossia che il conflitto israelo-palestinese può essere risolto solo mediante trattative dirette senza precondizioni, e ovviamente non con risoluzioni dell’Onu o di altre istituzioni internazionali», ha aggiunto riferendosi a una possibile iniziativa di Obama alle Nazioni Unite che Clinton o Trump dovranno bloccare, pur non essendo ancora in carica.
Netanyahu, come una buona fetta degli israeliani (soprattutto i coloni) e il suo ricchissimo alleato americano Sheldon Adelson, in silenzio tifa per Trump che in campagna elettorale ha promesso di più allo Stato ebraico, a partire dal riconoscimento Usa di Gerusalemme come capitale di Israele. Ma si augura la vittoria di Hillary Clinton più stabile rispetto all’imprevedibile Trump, con una solida esperienza internazionale, maturata prima da first lady e poi come Segretario di stato, e alleata di ferro di Israele.
Si preferisce Clinton anche ai vertici dell’Anp di Abu Mazen. Il presidente e i suoi più stretti collaboratori però tacciono per non perdere la faccia di fronte alla popolazione palestinese che rifiuta Trump e disprezza Clinton e l’intera classe americana schierata sempre e comunque con Israele e contro la legalità internazionale. «Tra gli uomini del presidente prevalgono quelli che preferiscono Clinton perchè la conoscono e mantengono rapporti politici con lei» dice al manifesto l’analista Ghassan al Khatib «eppure la politica dei Democratici si è quasi sempre rivelata sfavorevole ai palestinesi, persino più di quella dei Repubblicani. Lo stesso Obama ha promosso il disimpegno degli Usa dalla questione palestinese e dal Medio Oriente. Trump però genera troppi timori a causa della sua imprevedibilità e delle sue dichiarazioni contro gli arabi e l’Islam». Secondo al Khatib il Medio Oriente dilaniato dalle guerre sarà nei guai in ogni caso. «Dovesse vincere Trump» dice l’analista «vedremo un più intenso impegno militare americano nella regione. Con Clinton invece proseguirà il coinvolgimento minimo degli Usa che non darà alcun benefico alla causa palestinese».
Non bevono per motivi religiosi ma idealmente stappano una bottiglia di champagne assieme a Netanyahu i petromonarchi del Golfo, a cominciare dal saudita Salman che non aspetta altro che l’uscita di Obama dalla Casa Bianca. Vorrebbero vincente Trump, perchè credono che con lui alla presidenza gli Stati Uniti probabilmente lanceranno quelle operazioni militari, contro la Siria e l’Iran, che l’Amministrazione uscente invece ha congelato. Clinton, pensano, seguirà le orme di Obama. 

“Gli Usa senza peso Queste elezioni non contano nulla” 

Gay Talese: eravamo una forza positiva nel mondo ora nessuno ci rispetta. Il presidente non ha potere 

Paolo Mastrolilli  Busiarda
«Queste elezioni non contano niente, perché ormai il presidente degli Stati Uniti non ha più potere».
Gay Talese ha costruito la sua carriera di scrittore sulle provocazioni, e quindi non vede perché dovrebbe smentirsi proprio ora, anche se molti dicono che lo scontro fra Trump e Clinton potrebbe cambiare la faccia del Paese e del mondo.
Perché queste elezioni secondo lei non contano niente?
«Perché la politica ha perso peso nella società. Mi sembra un fatto evidente. Le nostre vite vanno avanti indipendentemente dalle decisioni dei politici, perché ormai sono altri i fattori che determinano le scelte, il futuro, e la qualità della nostra vita, dalla tecnologia globale alle questioni più locali».
E il Presidente degli Stati Uniti non ha alcun potere di influenzare i nostri destini?
«Ma lo avete visto Barack Obama? Sembrava l’uomo nuovo, incarnava le virtù che avrei voluto nel politico capace di guidarci verso il futuro, e invece non è riuscito neppure a chiudere la prigione di Guantanamo. Se il capo della Casa Bianca non ha la forza di produrre anche un minimo cambiamento tipo questo, come possiamo pensare che abbia la capacità di influenzare le grandi tendenze della storia? Il potere della politica, e in particolare quello del presidente degli Stati Uniti, che un tempo chiamavamo leader del mondo libero, sono decisamente diminuiti. E questa campagna, nel frattempo, ha parlato del nulla».
Secondo lei quale doveva essere il tema principale?
«Il declino del peso degli Stati Uniti nel mondo. Negli Anni Cinquanta, subito dopo la Seconda guerra mondiale, io ero soldato nelle forze armate. Mi schierarono prima in Germania e poi in Italia, il Paese da cui era emigrato mio padre calabrese all’epoca del fascismo. Tutti ci volevano bene, tutti amavano gli Usa. Eravamo una forza positiva nel mondo, e andare in giro con la divisa era un orgoglio. Ora invece nessuno ci rispetta: persino le Filippine si permettono di sfotterci».
Come è accaduto questo declino?
«Allora eravamo una forza positiva, che cercava di stabilizzare il mondo e orientarlo verso valori democratici condivisi. Poi però abbiamo deciso di intervenire ovunque, per imporre i nostri interessi, stabilendo chi è buono e chi è cattivo. Questo ha provocato una reazione negativa globale contro gli Stati Uniti, ma nessuno ne ha parlato durante la campagna presidenziale».
Da cosa nasce invece il risentimento interno, che ha spinto tanto la candidatura di Trump tra i repubblicani, quanto quella di Sanders tra i democratici durante le primarie?
«Non avete notato l’insoddisfazione della gente nelle strade? Gli americani della classe media faticano ad arrivare alla fine del mese. La riforma sanitaria di Obama è stata un disastro, e molta gente è ancora costretta a decidere se mangiare, o andare dal medico. A causa di questa crisi economica, poi, anche le tensioni razziali sono riesplose, con i neri sempre emarginati, e i bianchi terrorizzati dalle minoranze che conquistano il Paese».
Alcuni osservatori descrivono la sfida tra Clinton e Trump come la più importante dei tempi moderni, perché considerano il candidato repubblicano pericoloso per la libertà e il modello di vita americano. Hanno torto?
«Purtroppo sì».
Come purtroppo? Lei vorrebbe che la libertà e il modello di vita americano fossero distrutti?
«No. Dico purtroppo nel senso che neppure Trump riuscirebbe a fare quello che ha promesso, o minacciato. Chiunque verrà eletto verrà paralizzato, dal Congresso, e dai veti incrociati dei vari poteri in concorrenza. Il risultato è che nulla si muoverà e il Paese resterà impantanato».
Non è una visione troppo pessimistica?
«Sono vecchio. Morirò senza veder tornare l’America amata da tutto il mondo, in cui ero cresciuto da bambino».
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Simona Siri  Busiarda
Non l’ha mai amata politicamente e non l’ha neanche mai votata, ma davanti al rischio di vedere Donald Trump alla Casa Bianca, Michael Moore non ha avuto dubbi ed è sceso in campo per Hillary Clinton. L’ha fatto a modo suo, con un nuovo film, Michael Moore in TrumpLand: girato e montato in due settimane, è la ripresa di uno show teatrale che Moore ha tenuto in settembre in Ohio, cuore dell’elettorato trumpiano. «“Il clan di Trump” è convinto che il film sia su di lui», dice ridendo con una certa perfidia quando si racconta subito dopo la proiezione al Fci Center di New York. Nulla di più sbagliato. Più che del candidato repubblicano, sul quale si è già espresso in passato, quello di cui Moore vuole parlare ora è, appunto, Hillary. «Sono entusiasta di votare per lei. Non l’ho mai fatto, perché nel 2008 ho votato Obama e a queste primarie ho sostenuto Bernie Sanders, ma ora sono felice. Non vedo l’ora». 
Come si passa da critico a sostenitore appassionato di Hillary Clinton?
«Perché è cambiata. Era contro i matrimoni gay, ma poi è stata a favore. Ha ammesso che votare per la guerra in Iraq è stato un errore. È pur sempre una politica, certo, ma si è evoluta, ha cambiato opinione. E poi ha fatto cose ottime, ad esempio per quello che riguarda la sanità, un problema per il quale si batte dal 1993. Certo, è troppo vicina a Wall Street ed è più a destra di Obama, ma Trump è un pericolo vero e va fermato». 
L’ha mai incontrata?
«La prima volta nel 1998. Fui invitato alla Casa Bianca e lei fu gentilissima. Bill mi prese la mano e stringendo mi disse di essere mio fan, ma lei strappò la mia mano da quella del Presidente e la mise nella sua dicendo “mio marito mente: sono io la sua più grande fan”. Poi mi ringraziò per il capitolo che le avevo dedicato e che si intitolava “My forbidden Love for Hillary” (all’interno del libro “Downsize This!”, ndr). Hillary è stata la First Lady peggio trattata della storia, umiliata, ridicolizzata per come vestiva, per i capelli, per il suo aspetto fisico. Come cittadino ero e sono ancora oggi in imbarazzo per il modo in cui gli Usa l’hanno aggredita». 
Ammettiamo che Hillary vinca. Poi che cosa succede?
«Sono ottimista. La mia speranza è che farà grandi cose. Nel film la paragono a Papa Francesco: per anni è stato in silenzio, ma da quando è Papa fa e dice cose rivoluzionarie, come se prima si fosse trattenuto. Spero che succeda lo stesso con Hillary: una volta liberata ci stupirà». 
Lei è femminista?
«Qualcuno ha scritto che il film lo è. Le riprese sono state fatte quattro ore dopo che era diventata pubblica la registrazione in cui Billy Bush e Trump parlano in quel modo delle donne ed ero ancora emotivamente scosso. Non posso credere alle schifezze che le donne devono sopportare da certi uomini». 
Da dove viene la sua passione per la politica?
«Da uno zio che ha lavorato nell’amministrazione di Franklin D. Roosevelt. Sua figlia, cioè mia cugina, mi ha educato alla politica, costringendomi da bambino a imparare a memoria tutti i presidenti». 
Come vede il futuro?
«Bene, ogni anno in Usa ci sono 3 milioni di neo votanti. Alla prossima elezione i giovani saranno 12 milioni. Ho fiducia in loro perché non sono portatori di odio». 
E se il suo entusiasmo per Hillary fosse disatteso?
«Allora nel 2020 mi candido io. So che ci sta pensando anche Kanye West. Mi toccherà batterlo». 
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Fareed Zakaria “Se Trump vince la democrazia sarà più fragile”
Il giornalista: “A rischio la libera stampa e le minoranze religiose” intervista di Federico Rampini Repubblica 8.11.16
«Non ci libereremo di Donald Trump nemmeno se perde. E la destra non sarà più la stessa». Intervisto Fareed Zakaria, commentatore di geopolitica per Cnn e Washington Post, autore di un libro preveggente (2003) sulle “Democrazie illiberali”.
Ci sono differenze fra Trump e i populismi europei?
«Poche. In passato la politica americana e quella europea seguivano logiche diverse, oggi molto meno. Da Berlusconi in poi, gli ingredienti del trumpismo li avete tutti in Europa. Un’ondata di nazionalismi di destra invade l’intero Occidente. Più ancora delle spiegazioni economiche – l’impatto della globalizzazione su alcuni ceti sociali – contano quelle culturali: la reazione nei confronti dell’immigrazione».
Il suo saggio sulle democrazie illiberali è stato premonitore, a un’epoca in cui applicavamo quella definizione alla Russia o alla Turchia, che cercavano nelle urne una legittimazione dell’autoritarismo. Oggi esiste il rischio che Trump, se vince, attacchi i fondamenti della liberal-democrazia come lo Stato di diritto, la libertà di stampa, la tutela delle minoranze?
«È quasi una certezza. Noi tendiamo ad avere questa visione della democrazia in Occidente come di un sistema solido, capace di sopravvivere alle offensive. È una visione a-storica. Le liberal- democrazie sono giovani. Quella americana, una delle più antiche, ha una tradizione costituzionale che tuttavia non impedì degli episodi gravi: dall’oppressione delle minoranze razziali nel Sud, alla caccia alle streghe durante il maccartismo. Trump se vince farà quel che ha promesso: cercherà di limitare la stampa, opprimerà le minoranze religiose. Il vero interrogativo è se la democrazia americana riuscirebbe a risollevarsi. Le democrazie sono fragili, possono sfasciarsi, basti ricordare l’Europa degli anni Trenta».
Trump-Putin: deve spaventarci questo asse?
«Nessuno capisce veramente cosa ci sia dietro. Trump non sa nulla di politica estera, finora si è fatto guidare da un solo criterio: su ogni tema cambia opinione inseguendo ciò che è popolare o impopolare in quel momento. L’unico elemento di coerenza e di persistenza è il suo atteggiamento filo-russo. La spiegazione bonaria è l’attrazione verso il modello dell’Uomo Forte. Di certo c’è qualcosa di strano nella sua fissazione su Putin. Mi chiedo se non ci siano altre connessioni tra i due».
La destra sarà trasformata dal ciclone
Trump, anche se lui perde?
«Il partito repubblicano non potrà più tornare ad essere quello di prima. Trump ha messo a nudo una spaccatura fra l’élite e la base. L’élite è legata a un credo neoliberista ed economicamente conservatore, dal libero scambio ai tagli al Welfare, la base non ne vuole sapere. Il messaggio di Trump che l’ha conquistata è questo: la vostra vita è dura, la colpa è di cinesi e messicani. Dopo avere fatto presa con un messaggio valoriale di questo genere, non puoi rimettere il genio dentro la bottiglia».
Otto anni di Obama hanno “generato” questo mostro?
«Il legame è diretto. L’elezione del primo afro-americano non poteva essere indolore. Nella storia dell’America il periodo dello schiavismo è più lungo dell’era post-schiavismo. Un evento storico come la vittoria di Obama ha scatenato una reazione. Trump ha saputo giocarsela fin dall’inizio quando cominciò a cavalcare il movimento “birther” sostenendo la menzogna di Obama nato all’estero e ineleggibile. Era un modo per negare la legittimità di un nero come capo della nazione”.
Anche se vince Hillary i democratici dovranno fare un bilancio autocritico, per avere lasciato così ampi spazi a Trump.
«La ripresa economica è stata in parte debole, in parte mal distribuita nei suoi benefici. È una conseguenza di trend di lungo periodo: da vent’anni la globalizzazione impoverisce molti lavoratori. È la chiave del voto degli operai bianchi per Donald Trump».
La guerriglia si prolungherà anche in caso di vittoria di Hillary, con tentativi di impeachment, inchieste parlamentari?
«Dipenderà dalla misura della vittoria. Se almeno il Senato torna ai democratici può darsi che il partito repubblicano diventi un po’ meno ostruzionista, se la vittoria è di stretta misura invece continuerà un’opposizione intransigente. Di certo si aprirà una guerra intestina fra repubblicani. Trump non si farà da parte. Nella base ha conquistato un seguito enorme, e molto leale». 


Election Day, dal film alla realtà 

Guido Moltedo Manifesto 8.11.2016, 23:59 
Oggi l’Election day è il finale di un lungo film iniziato oltre un anno fa, e anche prima. Ritornare con la memoria ai suoi inizi, e a quel che poi è successo; rammentare il copione che la maggioranza di politologi, giornalisti e protagonisti aveva scritto. 
sarebbe andato come loro avevano deciso: ricordare tutto questo, aiuta a capire quel che succederà stanotte, e da domani in poi, a prescindere da chi sarà il vincitore, diventando il 45 presidente (probabilmente Madam President) degli Stati Uniti. Ricordate Jeb? E Hillary già incoronata nominee del Partito democratico, prima ancora che annunciasse la sua candidatura? Il film scritto allora dall’establishment e dai media era la storia di un duello tra dinastie, i Bush e i Clinton. 
Peccato fosse il copione di una fiction. Ecco, solo un anno fa la maggioranza di chi è in politica o s’occupa di politica in America aveva in testa una trama logora. 
A conferma della loro distanza dagli americani che non vivono di politica ma che decidono la politica, ecco poi i ripetuti abbagli su Donald Trump, schiacciato dalla sua esuberanza politicamente scorretta o messo alle corde da avversari spietatamente innocui. Ed ecco la pertinace negazione dell’evidenza di un’altra candidatura democratica, perfino munita di maggiori chance di vittoria, non necessariamente quella della predestinata Hillary. La candidatura di un settantaquattrenne del Vermont, socialista e orgoglioso di esserlo, che avrebbe raccolto più di tredici milioni di voti, pari al 43%, prevalendo in 22 Stati.
Fino ad arrivare a ridosso dell’Election Day, in un clima altamente enigmatico, tra folle di elettori che ricorrono al voto anticipato – oltre 40 milioni, un fenomeno sorprendente – e sondaggi troppo ballerini per essere presi sul serio, segno fino all’ultimo dell’incapacità del sistema mediatico-politico di leggere una realtà, peraltro in molti aspetti tutt’altro che indecifrabile. 
Si pensi solo allo studio dell’autorevole Pew che un anno fa – sì, mentre si sproloquiava di Jeb e dell’inevitable Hillary – rilevava come il 41% dei giovani sotto i 35 si dichiarasse indipendente, solo il 35% democratico e un altro 22% repubblicano. Non è la maggioranza degli elettori attuali, ma ne è una quota significativa ed è quella che s’attiva e si mobilita, non limitandosi a deporre il voto nell’urna. Ci parla di un futuro già iniziato che va oltre i due partiti storici dell’America novecentesca e delle sue ultime propaggini. Sono i giovani che avrebbero affollato i comizi di Bernie Sanders e avrebbero dato una spinta poderosa alla sua candidatura e alla sua causa politica. 
Già, i comizi. La vendetta della vecchia politica. Dall’apparizione di Obama in poi, i rally, i grandi comizi sono diventati una caratteristica saliente. Anche il vecchio porta a porta. Sì, la partecipazione. Non solo attraverso la rete e i social, ma quella d’un tempo, troppo in fretta dichiarata morta. Sì, saranno ancora troppo pochi gli elettori che sceglieranno il prossimo presidente americano, ma non significa per questo che la politica in America sia in una crisi irreversibile. È in crisi una certa politica, quella conosciuta, quella dell’intreccio con Wall Street e con l’apparato energetico-militare. È in crisi il Partito repubblicano. Il successo Trump ne ha messo a nudo l’inconsistenza organizzativa e ideologica, giunta a un punto tale che – sia in caso di vittoria del magnate, che avverrebbe con l’ostracismo dell’establishment repubblicano, sia a maggior ragione con la sua sconfitta – non avrebbe neppure la base minima per ricostruirsi. Potrebbe letteralmente sparire. 
È in crisi il Partito democratico che, negli anni di Obama, e per sua responsabilità, non si è rinnovato, riproponendo la candidatura di un personaggio simbolo della sua cristallizzazione in apparato burocratico legato ai poteri forti. 
Hillary Clinton ne è dunque l’ultima rappresentante. Significa necessariamente che questo suo retroterra condizionerà la sua azione presidenziale? È l’ipotesi che molti temono e che mettono in conto anche quelli che la voteranno solo perché considerano Trump un rischio maggiore. Non si pecca però di eccessivo ottimismo se si ricorda che i voti di Sanders contano e che Sanders saprà farli pesare. 
E, non ultimo, sarà convenienza di Madam President farvi conto, di fronte alla prevedibile, incontinente, rabbiosa opposizione di un Partito repubblicano sconfitto.
«Emailgate», dietrofront Fbi. Hillary allontana i fantasmi
Presidenziali Usa. James B. Comey alla nazione: «Non c’è nulla che incrimini la candidata democratica»
NEW YORK8.11.2016, 23:59
L’America finalmente va alle urne e lo fa sotto l’onda dell’ultimo, si spera, colpo di scena di questa infinita campagna elettorale.
A due giorni dal voto, domenica, il direttore dell’Fbi (nominato dall’attuale presidente Barack Obama), James B. Comey ha comunicato alla nazione ed al mondo che, dopo aver valutato le mail contenute nel computer di Anthony Weiner, no, non c’è nulla che incrimini Hillary Clinton, come invece l’agenzia temeva una settimana fa. Quindi, tutto a posto, non è successo niente, amici come prima.
«Sulla base della nostra analisi, non abbiamo cambiato le conclusioni a cui eravamo arrivati nello scorso mese di luglio rispetto al Segretario Clinton» si legge nel comunicato che ristabilisce l’onorabilità di Hillary Clinton che, da segretario di Stato ha – al limite – peccato di cialtroneria utilizzando la propria mail personale e poi cancellando migliaia di mail dai suoi server.
LA LETTERA ARRIVA dopo nove giorni tumultuosi sia per Clinton che per Comey, il quale ha attirato critiche sia su di sé sia sui federali; critiche arrivate da entrambi i partiti e che, probabilmente, persisteranno dopo le elezioni.
Il comunicato di Comey è stato a dir poco vago: non ha specificato se gli agenti abbiano completato la revisione dei messaggi di posta elettronica, o se invece abbiano solo abbandonato la questione; i funzionari federali hanno poi precisato di aver semplicemente considerato completa la revisione delle email relative al server di Clinton, e che la lettera del direttore Comey aveva lo scopo di trasmettere questo dato, senza ulteriori dettagli.
QUESTA GESTIONE DEL CASO da parte dell’Fbi più che chiarire i lati oscuri sulla vicenda delle mail della candidata democratica, il cosiddetto «emailgate», alla fine getta ombre soprattutto sui federali; quel genere di ombre che fino ad ora non c’eran mai state.
Fin ad ora infatti l’Fbi era sempre stata l’unica istituzione americana ad avere un pedigree di tutto rispetto, come un’agenzia seria, affdabile, super partes.
Era stata l’Fbi, in piena «era Bush», quella «del terrore», a rivelare che l’antrace che veniva spedito in giro per gli Stati uniti era di un tipo speciale e che gli unici laboratori in grado di produrlo erano quelli della Cia. A dimostrare una affidabilità per chiunque sedesse nella stanza ovale.
L’Fbi durante il suo operato cominciato nel 1908, aveva perseguitato con lo stesso puntiglioso accanimento sia i pericolosi comunisti quanto il Kkk, in modo coordinato, ponendo il bene della federazione al di sopra di ogni partigianeria . Ecco, questa reputazione ora è distrutta.
I repubblicani hanno subito reagito al comunicato dell’Fbi accusando Comey di «essere sotto un’enorme pressione politica per annunciare qualcosa che non può assolutamente sapere», come ha scritto su Twitter Newt Gingrich, consulente di Trump, sottolineando come fosse bizzarro che per analizzare accuratamente 650.000 email ci fosse voluta una sola settimana.
DA PARTE DEMOCRATICA il senatore della California Dianne Feinstein ha dichiarato che il Dipartimento di giustizia «ha bisogno di dare un’occhiata alle procedure per prevenire altre azioni simili che potrebbero influenzare future elezioni. Non c’è dubbio che questo episodio ha creato una falsa impressione sulla natura della richiesta dell’agenzia».
Molti attuali ed ex agenti dell’Fbi e funzionari del Dipartimento di giustizia tra cui il procuratore generale Eric H. Holder Jr, hanno detto che Comey con questa mossa ha inutilmente gettato i federali nella politica di una elezione presidenziale, con nessun modo chiaro per venirne fuori illesi.
L’AMERICA SI RECA A VOTARE, dunque, non può che farlo con una sorta di rammarico per gli otto anni di presidenza Obama che sembrano già un lontano ricordo, a fronte di una campagna elettorale terribile dal punto di vista dello scontro, priva di contenuti e fatta per lo più da insulti e torbidi scandali. L’America oggi appare un paese nel quale i due candidati in corsa sono odiati dalla maggioranza dei cittadini, inclusi quelli che li voteranno, e i due partiti a cui questi candidati appartengono non rappresentano più nessuno, nemmeno loro stessi e l’unica organizzazione credibile rimasta ha perso ogni tipo di credibilità.
Nell’ultimo giorno elettorale Clinton sembra aver riguadagnato consensi, con l’aiutino dell’Fbi, mentre il team di Trump addirittura ha smesso di utilizzare i social network: «Controproducenti», dicono.


Comunque vadano a finire le elezioni gli Stati Uniti non saranno più gli stessi 

Il “Trumpismo” ha rotto gli schemi tradizionali della democrazia 
Una campagna memorabile, e non in senso positivo, a prescindere da chi la spunterà come 45° Presidente. 

Busiarda
Questa corsa alla Casa Bianca resterà nei libri di storia come un momento di discontinuità profonda nella politica americana (e non solo).
Nell’ultimo sondaggio del New York Times sull’umore degli elettori prima del voto, 8 su 10 si sono detti «disgustati». Chiunque vinca troverà un Paese diviso, un dibattito pubblico invelenito e un tasso di faziosità ben oltre il livello di guardia. 
In una nazione che ha vissuto nella sua storia una guerra civile e tragici episodi di violenza politica (anche durante le campagne presidenziali) è esagerato sostenere che «nulla del genere si sia mai visto in passato». Ma questi mesi di inusuale confronto tra due candidati impopolari ci hanno costretti a rivedere alcune categorie dell’analisi politica e a inaugurarne di nuove. 
Se gli scandali sessuali o l’ingerenza dell’Fbi sono in modi diversi dei déjà-vu, su altri fronti abbiamo assistito a uno spettacolo senza precedenti. 
Il trumpismo, innanzitutto, non è una nuvola passeggera. Il personaggio ha tratti di unicità ed è forse irripetibile, ma il successo del suo messaggio ha cause più profonde del suo stravagante carisma personale. La segmentazione della società che alimenta il populismo, negli Usa come in Europa, pare fuori dal controllo dei partiti tradizionali, come dimostrano il «suicidio» repubblicano o l’improvvido hara-kiri politico di Cameron. Una sua vittoria equivarrebbe a una sorta di mutazione genetica del concetto stesso di democrazia (delle sue forme, dei meccanismi di formazione del consenso etc…). Ed è difficile dire, nel caso entrasse alla Casa Bianca, se a prevalere sarà l’enormità della carica o l’enormità del suo ego: potremmo dire che la figura del Trump presidente è assolutamente imprevedibile più per ragioni psicologiche che politiche. 
Il «cyber warfare» è un altro inedito protagonista che ha fatto un ingresso trionfale nella campagna presidenziale e che purtroppo non uscirà più dalle cronache. Mail hackerate, attacchi sempre più massivi a infrastrutture informatiche, perfino il rischio di cyber-brogli. Che il colpevole sia a Mosca o che si voglia richiamare «l’influenza del complesso industrial-militare» paventata da Eisenhower, quel che è certo è che la guerra a colpi di codici e malware è ormai entrata a pieno titolo tra le minacce per l’ordinamento democratico e per i processi che gli danno forma (in primis, naturalmente, le elezioni). 
Molti invitano a non sopravvalutare queste criticità perché vincerà senz’altro Hillary Clinton e questo spazzerà via le tossine che hanno avvelenato questa strana campagna. Sono due previsioni legittime ma insidiose. 
Trattandosi del Paese che ha conosciuto il più colossale fiasco nella storia dei sondaggi (la vittoria di Roosevelt nel ’36) è bene mantenere ancora per qualche ora un po’ di prudenza.
E se davvero vincerà Hillary Clinton, non pensiamo che la mattina del 9 novembre tutto torni magicamente alla normalità. Le regole del gioco potrebbero essere cambiate in modo irreversibile. 
Molto dipenderà dai nuovi equilibri al Congresso, ma certo non basterà «abbassare i toni» per ricomporre un clima in cui, per lo meno, le parti si riconoscano e non evochino l’impeachment in caso di sconfitta (un quarto degli elettori di Trump dichiara del resto di non essere disposto ad accettare la vittoria dei democratici). 
Gli Stati Uniti usciranno dalle Presidenziali 2016 diversi da come ci sono entrati. Quanto diversi lo vedremo martedì notte. 
* Direttore di Sky Tg24
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L’ONDA DA FERMARE 
MARIO CALABRESI Rep
VINCERÀ anche questa volta l’irrazionalità, il gesto clamoroso e disperato contro un mondo da cui ci si sente dimenticati e esclusi? Il modello Brexit incendierà anche le pianure americane o un sussulto di razionalità riuscirà a tenere a bada gli spiriti selvaggi che soffiano a ogni latitudine?
Se guardiamo al voto di oggi con il fiato sospeso è perché il rischio di una rottura storica è reale, perché ciò che sembrava impossibile e quasi ridicolo ha preso forma e consistenza. Tanto che il presidente in carica, nell’ultimo giorno di campagna elettorale, è stato costretto a correre in Michigan, New Hampshire e Pennsylvania.
SEGUE A PAGINA 43
È ANDATO nei tre stati operai tradizionalmente democratici, per provare a scongiurare un cambio di bandiera dagli esiti fatali per Hillary Clinton. Se questo accade è perché l’avverbio tradizionalmente non ha più uso nel mondo, tali e tante sono le rotture di prassi, appartenenze e anche di senso comune a cui stiamo assistendo.
Si usa definire questo tempo come “Età dell’Incertezza”, ma ora stiamo scivolando sempre più nel tempo dell’Irragionevolezza. Irragionevole infatti sarebbe Donald Trump alla Casa Bianca: la vittoria dell’imbonitore, di chi spaccia ricette semplici e di immediata applicazione per risolvere istantaneamente problemi complessi e profondi. Si può sorridere e dire che non è la prima volta, ma l’importanza della posta in palio rende inadatto ogni paragone. Saremmo di fronte alla negazione di un sistema di valori, in più di un’occasione stravolti e negati ma formalmente sempre rispettati, che suonerebbe come una sorta di liberi tutti per populisti di ogni specie. Chi potrebbe più, per fare un esempio tra i tanti possibili, richiamare il presidente ungherese Orbán al rispetto di una grammatica umanitaria quando l’uomo che siederà nello Studio Ovale ha proposto ricette più incendiarie delle sue?
L’unica certezza che ci resta è che si tratta di una partita tutta in difesa, in cui non c’è più spazio per parlare di costruzione, speranza, collaborazione. Le parole d’ordine dell’agenda mondiale sono ricorrenti, ci sono sempre un noi e un loro, una linea da tracciare, un muro da costruire, qualcuno da mandare a casa e molto da abbattere o più gentilmente da smontare. Di progettare si parla poco, perché è il concetto stesso di futuro che è diventato difficile da declinare.
È una partita in difesa perché i progressisti non hanno parole d’ordine convincenti da opporre agli slogan del populismo, dei nuovi razzismi e delle derive xenofobe. Perché non hanno spinta propulsiva e soprattutto non hanno la capacità di offrire nuove chiavi interpretative in grado di disegnare oggi un’agenda credibile.
Una vittoria di Trump non solo certificherebbe una rottura nel tessuto sociale americano, già drammaticamente avvenuta e difficilmente ricomponibile anche in caso di successo democratico, ma finirebbe per contagiare le altre democrazie occidentali sempre più fragili e sotto pressione.
Con lo stesso meccanismo con cui si generano le onde, nel modo magnifico con cui le descrive il premio Pulitzer William Finnegan nel suo potente memoir sul surf Giorni Selvaggi: “In mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell’acqua, creando una mareggiata, un’increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a mano si addensano, si fanno più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al mare grosso. A riva, su una costa lontana, noi riceviamo l’energia che si sprigiona da quella tempesta, irradiandosi attraverso acque più calme sotto forma di un treno d’onda”. Quella tempesta, figlia della delocalizzazione del lavoro, delle bolle speculative, delle paure di non essere all’altezza di un mondo profondamente cambiato dalla tecnologia, ha cominciato a gonfiare l’onda molto tempo fa ma quel treno d’acqua troppo a lungo è stato ignorato.
Oggi è la sfida di Trump, domani — la prossima primavera — sarà Marine Le Pen con il suo Fronte nazionale a togliere il sonno all’Europa e a moltiplicare fantasmi che si sono già ampiamente risvegliati. E ogni partita, ogni rottura sembra alimentare la successiva, in una giostra da cui non sappiamo come scendere.
Pensate alla Gran Bretagna, al modo amaro con cui si sta allontanando dall’Europa, agli istinti che queste rotture liberano: i tre giudici dell’Alta Corte che hanno imposto al Parlamento di votare sulla Brexit sono stati messi all’indice ed esposti al dileggio come “nemici del popolo”.
Un liberi tutti, una resa dei conti, una voglia di dileggio che sembra conquistare i cuori e annebbiare le menti. Ma per andare dove? Per costruire cosa? L’idea è che non ci sia futuro e quindi nulla da tenere caro, nulla da preservare, da trattare con attenzione e allora si possono sfogare gli istinti, prendere a calci ogni cosa esistente, tanto se non esiste domani a cosa serve preoccuparsi se la casa brucia?
Così siamo ridotti a sperare di scampare il pericolo, in un mondo che viene giù, in cui saltano riferimenti, prassi e in cui non abbiamo più il tempo e la forza di far sentire la voce di fronte a quelle violazioni che ci hanno sempre indignati. E quelli che della democrazia non si preoccupano troppo, si chiamino Erdogan, Al Sisi o Putin, gonfiano il petto vedendoci deboli e smarriti.
Abbiamo bisogno di orgoglio, di persone capaci di recuperare i nostri valori e di rivendicarli e di cittadini che siano capaci di tenere la testa fredda e di non farsi contagiare dalle sirene del cinismo e dello sfascio.
Se vincerà Hillary sarà solo un punto di partenza. Il resto è tutto da ricostruire.
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