domenica 20 novembre 2016

"Intellettuali" per il Sì: leggi l'elenco di tutti quelli che puoi mandare al diavolo con un semplice No al referendum







Referendum: un pizzico di reattività ma tantissima goduria

L'appello degli "intellettuali" e degli "artisti" per il Sì ci offre un'occasione da non perdere.

Anche solo per cinque minuti, con un semplice No al referendum possiamo fare trangugiare bile ad Accorsi, Archinto, Bolle, Bocelli, Boeri, Brizzi, Capotondi, Comencini, Emma Dante e tutta via Castellana Bandiera, De Luigi, Favino, Ferrari, Ferretti, Fiorello, Ghini, Fracci, Izzo, Salvatore Natoli filosofo europeo, Orlando, Ozpetek, Placido, Preziosi, Lacan Bonazzo, Salvatores che vinse l'Oscar per Merito Erroneo, Sorrentino e il suo Young Matteo, Tamaro, Tognazzi, Villoresi, Virzì, Zingaretti e diversi altri.

Praticamente tutta la compagnia di giro del sistema industriale della manipolazione del consenso.  Vabbè, diciamo la metà visto che l'altra metà vota No.

Faccio notare che tra le firmatarie dell'appello degli intellettuali e degli artisti per il Sì c'è anche Emma Dante.

Già pensoso idolo della sinistra manifestina che faceva finta di intendersi di teatro quando ancora il teatro aiutava a portare a letto le ragazze, Emma Dante è autrice di quel vero capolavoro di trituramento di coglioni che fu "Via Castellana Bandiera".
Stiamo parlando di uno dei film più brutti della storia del cinema, che non casualmente fu visto all'epoca solo da quelli che vivono in via Castellana Bandiera e nemmeno tutti.

Mi spiace solo per Tozzi: da uno che ha scritto Gloria, Ti amo ti e Stella stai non me lo sarei mai aspettato [SGA].

Accorsi Stefano, Archinto Rosellina, Asti Adriana, Baresani Camilla, Barone Piero, Boschetto Ignazio, Ginoble Gianluca (Il Volo), Battistelli Giorgio, Betta Marco, Bises Stefano, Bocelli Andrea, Bolle Roberto, Boeri Stefano, Boni Alessio, Boni Chiara, Brizzi Fausto, Caselli Caterina, Capotondi Cristiana, Cima Francesca, Comencini Cristina, Contarello Umberto, Corsi Tilde, Cotroneo Ivan, Dante Emma, De Luigi Fabio, Dettori Giancarlo, Favino Pierfrancesco, Ferrara Giorgio, Ferrari Isabella, Ferretti Dante, Ferri Ozzola Sandra, Ferri Sandro, Fiorello Beppe, Genovese Paolo, Ghini Massimo, Fracci Carla, Giaccio Paolo, Giuliano Nicola, Gianani Mario, Izzo Simona, Manfridi Giuseppe, Mauri Glauco, Maccarinelli Piero, Mazzoni Roberta, Mehta Zubin, Mieli Lorenzo, Milano Riccardo, Minaccioni Paola, Mozzoni Crespi Giulia Maria, Natoli Salvatore, Nesi Edoardo, Neumann Andres, Nogara Anna, Nuti Franca, Occhipinti Andrea, Orlando Silvio, Ozpetek Ferzan, Pende Stella, Placido Michele, Preziosi Alessandro, Pugliese Armando, Ranieri Luisa, Recalcati Massimo, Salvatores Gabriele, Sandrelli Stefania, Savignano Luciana, Scaparro Maurizio, Scarpati Giulio, Sessa Roberto, Sforza Orsina, Shammah Andree, Soldati Giovanni, Sorrentino Paolo, Tamaro Susanna, Tardelli Marco, Tedeschi Luciano, Tognazzi Ricki, Tozzi Riccardo, Veaute Monique, Veronesi Giovanni, Villoresi Pamela, Vincenti Federica, Virgilio Luciano,Vita Zelmann Massimo, Virzì Paolo, Volli Ugo, Zingaretti Luca...



Corriere della Sera‎



Tremonti Corriere della Sera



La scommessa di Renzi “I sondaggi non ci prendono Si decide all’ultimo miglio” 
Il premier “celebra” i mille giorni. E ripete: non farò inciuci né governicchi Sul referendum la stima di un’alta affluenza e di 13 milioni di Sì per vincere
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA. «Siamo soddisfatti? No. Abbiamo fame, voglia di futuro, voglia di crescere». A Palazzo Chigi, Matteo Renzi fa il punto sui mille giorni del suo governo. Solo tre slide: sul Jobs Act, «il provvedimento che ha inciso di più sulla realtà», sulla timida crescita economica dell’Italia, «si deve fare di più ma il Paese è ripartito», sul debito pubblico in calo. Alle spalle la bandiera italiane e europea, stavolta, con l’ammissione che durante un recente Facebook live, sì, l’aveva tolta apposta quella blu con le stelle delle nazioni perchè da Bruxelles erano arrivati nuovi segnali contrastanti.
Ma è il referendum al centro dei pensieri del premier, anche oggi, prima di volare a Bari in serata, prima di fare altre sei o sette tappe di campagna elettorale in Puglia e altrettante domani in Campania. «Vendo cara la pelle fino all’ultimo...», dice con un sorriso rientrando nel suo studio. «I sondaggi danno in testa il No ma nel 2016 i sondaggi hanno sempre fallito, dalla Brexit a Trump, alle amministrative italiane. Fallirono anche per le Europee del 2014. Speriamo che non sia questa la volta che ci indovinano ». Lui ci crede ancora: «Esiste un numero incredibile di indecisi che alla fine andrà a votare». Dunque, non si scommette più su un No che alla fine si astiene e resta a casa. Si punta invece a conquistare il maggior numero di consensi. E Renzi espone una sua previsione: «È fondamentale portare molta gente alle urne, possiamo arrivare al 60 per cento di affluenza. Azzardo: andranno al voto 25-30 milioni di persone». Perchè? Renzi risponde: «Perchè una grande voglia di cambiamento e per questo credo che prevarrà il Sì. Mancano due settimane e l’ultimo miglio è decisivo». La convinzione è che la “maggioranza silenziosa” negli ultimi giorni si concentrerà sul “merito” del quesito e che così faranno gli elettori di Grillo, Lega e Forza Italia, il bacino del No che Renzi vuole svuotare.
La quota del Sì dunque viene ora fissata intorno i 13-15 milioni di voti. Dall’estero, secondo i calcoli del governo, verranno 700 mila schede su circa 4 milioni di aventi diritto. Servono anche questi voti per tagliare il traguardo della vittoria.
Nella conferenza stampa si avverte di nuovo l’eco della personalizzazione. Si mischiano infatti i successi dell’esecutivo al tagliando dei 1000 giorni con la campagna referendaria. «Bankitalia teme fibrillazioni sul mercato? Il mio compito non è seminare il panico o di usare la carta della paura. Ma non lo dicono i poteri forti che se si fanno le riforme sale il Pil, se non si fanno sale lo spread», rilancia il premier.
E se invece lo sforzo non sarà premiato? Il dopo 4 dicembre, in caso di successo del No, il premier lo esorcizza con un sorriso. «Io sono contro un governo di inciuci», ripete. Ma il futuro è tutto da scrivere. «Se i cittadini bocciano la riforma - dice Renzi - verificheremo la situazione politica».
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Le correnti dem in sonno fanno già i conti “Con Matteo ko si riapre la Borsa interna” 
Con il No vincente il premier sarebbe costretto a trattare. E i suoi fedelissimi sono cinquanta
GIOVANNA CASADIO
ROMA. «Siamo alle simulazioni sul “dopo”». Nei corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama gruppetti di dem ipotizzano già da giorni schemi su come sarà il Pd post-referendum. Perché una cosa è certa: il partito cambierà. Non tanto per immediate scissioni della “ditta” bersaniana , ma perché se vince il No «si riapre la Borsa». A dirlo è stato il ministro Guardasigilli Andrea Orlando, alludendo ai rapporti di forza pro o contro l’ipotesi di elezioni subito che Renzi, a quel punto, potrebbe sottoporre alla direzione e ai gruppi parlamentari. Quanti lo seguiranno?
Nella gran confusione di queste ore, con i sondaggi tutti a favore del No, ripartono infatti le quotazioni delle correnti del partito. Il premier-segretario, se sconfitto, chiamerà a raccolta i dem, ma rischia di accorgersi che i renziani della prima ora non sono più di una cinquantina.
In Transatlantico si fanno calcoli. Quando #Enricostaisereno Letta era ancora in sella e Renzi appena eletto segretario, Bersani poteva contare su 120 deputati, che erano l’ago della bilancia nel voto alla Camera, e su una cinquantina di senatori. In questi anni si sono squagliati, attirati dal renzismo. Oggi i bersaniani di “Area riformista” che ha in Roberto Speranza, Pierluigi Bersani e Nico Stumpo le figure di riferimento - sono trenta a Montecitorio, una ventina al Senato. Gianni Cuperlo, leader di “Sinistra dem”, ha 15 parlamentari dalla sua. Rosy Bindi, anche lei tenacemente anti-renziana, ha un seguito di 5-8 parlamentari.
Ma è la resurrezione delle correnti negli ultimi anni “in sonno” e diventate filo renziane, che farà la differenza. Prima tra tutte “Area dem”, il gruppo del ministro ed ex segretario del Pd, Dario Franceschini. Franceschini, uomo delle emergenze, sa come far sentire il suo peso politico e parlamentare. I “suoi” sono circa 50 deputati e 40 senatori. Se si spostano, fanno perdere equilibrio alla barca, saranno il segno che la maggioranza renziana si è frantumata. Va ricordato che il Pd ha 301 deputati e 113 senatori.
Faranno sentire forte la loro voce i “Giovani turchi”, alle ultime primarie del 2013 sostenitori di Cuperlo contro Renzi, diventati fiduciari del premier-segretario. Buon rapporto personale tra Renzi e Matteo Orfini, il leader (con Francesco Verducci) dei “Turchi”, presidente del partito. I “Turchi” possono contare su una sessantina di parlamentari.
Anche i numeri tuttavia invecchiano. Ecco quindi che cresce il peso della corrente di Maurizio Martina e Cesare Damiano, ministro dell’Agricoltura e presidente della commissione Lavoro della Camera. Si chiama “Sinistra è cambiamento” ed è diventata molto attraente, tanto che - partita da 50 deputati e 20 senatori - sta ingrossando le file. Lo stesso Orlando, fondatore dei “Giovani turchi”, è sempre più impegnato in iniziative con Martina. «La “Sinistra per il Sì”, creato in vista del referendum, a cui aderisce Anna Finocchiaro, sarà incubatrice del Pd che verrà», dice Damiano.
Risorgerà la corrente dei lettiani? Francesco Russo, senatore, amico di Letta, racconta che le carte si sono mescolate: «Il 6 dicembre ci vedremo a cena, non rispettando antiche correnti, ma nuove sensibilità con Pizzetti, Vaccari, Zanda...». Poi ci sono i15 ex Sel, i 10 ex Scelta civica, Retedem degli ulivisti: il Pd è un puzzle. Una domanda su tutte: i catto renziani di Delrio e Richetti cosa consigliano a Renzi per il “dopo”? Beppe Fioroni con i suoi 30 “popolari” bacchetta: «Sono scaramantico, parlare del “dopo” porta sfiga».
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“Democrazie fragili se la sinistra si divide o insegue i populisti rischia di sparire” 
L’ex leader Pd: “Voto Sì ma non partecipo alle lacerazioni. Paura e povertà, rischio autoritario in Occidente”
STEFANO CAPPELLINI Rep
Brexit, Trump, referendum italiano. La sequenza che spaventa molti, dice Walter Veltroni, non è una questione che possa essere risolta con un Sì o con un No nella cabina elettorale. L’ex segretario del Pd ha annunciato il suo voto favorevole alla riforma costituzionale. Ma la baruffa in corso gli appare il sintomo di una vocazione al suicidio politico. Sostiene Veltroni: «Il problema non è l’Italia, ma il tramonto della sinistra in tutto l’Occidente. O ci si mette mano o finisce male. Molto male». Il che, spostato sul fronte nazionale, significa immaginare un appuntamento per il dopo referendum: «Le migliori intelligenze devono guardarsi negli occhi e trovare le parole per costruire insieme una interpretazione riformista della realtà, senza la quale ogni personalizzazione è peggio che dannosa, è inutile».
Quale interpretazione suggerisce?
«La sinistra deve seguire due bussole: il bisogno di riscatto di chi sta ai margini e il bisogno di sicurezza di chi sta in mezzo. Nella storia, quando la classe media si è sentita perduta non ne è mai venuto nulla di buono. Siamo cresciuti in un mondo basato su cinque pilastri - studio, lavoro, famiglia, casa, pensione – che si sono sgretolati. Questa è la prima generazione nel dopoguerra che scende di un gradino invece di salire ».
Il problema è che, dagli Usa all’Europa, chi è in difficoltà sempre meno si rivolge alla sinistra.
«Se c’è un posto dove la sinistra non può non stare è il disagio sociale. Si abbinano la più lunga recessione della storia e la più grave crisi dei sistemi democratici, persino negli unici due Paesi – Usa e Gran Bretagna – in cui non c’è mai stata una dittatura. L’inesperienza è oggi considerata un valore: Trump è arrivato così al mestiere più complicato del mondo. La paura che si sta diffondendo ha sempre prodotto autoritarismi, perché in queste fasi la società tende a soluzioni di tipo semplificato».
C’è il rischio che la sinistra rincorra queste semplificazioni? “Contro i politici attaccati alle poltrone”, è uno slogan usato nella campagna del Sì come in quella del No. E non è l’unico esempio.
«La sinistra in difficoltà ha questo riflesso pavloviano: da una lato pensare che il modo migliore di risalire sia, non guadagnare l’altra sponda, ma tornare alla foce del fiume, a un passato ideologico che, non lo si vuol capire, non esiste più. Dall’altro, l’omologazione alla Zelig, nel senso del film di Woody Allen. Io per esempio non ho condiviso la scelta di Renzi di togliere la bandiera europea, che ieri ho visto tornare alle sue spalle. Penso sia un errore, una concessione all’antieuropeismo. Se la sinistra si fa variabile di un discorso populista, è morta. Si rischia la Germania di Weimar».
Nell’Italia di oggi significa un governo Salvini?
Grillo?
«Attenzione a fare di tutti i populismi un unico fenomeno. Quando sento dire Trump-Le Pen-Wilders- Grillo penso che ci sia una semplificazione propagandistica. Tra gli elettori di Grillo ci sono molti ex del Pd che chiedono solo più moralità pubblica e più attenzione a chi è escluso».
Grillo dice che sinistra e destra non esistono più.
«Dissento, naturalmente. Ma la sinistra deve cambiare. Sono cambiati i modi di produzione, di comunicare, cambiano le relazioni umane... Voglio citare il titolo di un film, Spara forte, più forte non capisco, l’ultima pellicola di Eduardo De Filippo, uomo di sinistra e di popolo. Ecco, cosa altro deve succedere perché capiamo che è cambiato tutto? La sinistra ha cambiato il mondo, conquistato diritti e fatto vivere meglio milioni di uomini. La mia paura è che oggi non sia capace di stare dentro il suo tempo ».
Altri sostengono che c’è stata fin troppo, barattando “modernità” e disuguaglianza.
«La modernità non è il balletto Excelsior come forse qualcuno ha pensato negli anni Novanta. Non è assecondare una globalizzazione che ha fallito o aumentare la distanza tra la testa della società e la coda. La sinistra deve tornare, da riformista, a farsi popolo. Viviamo nella società dell’istante, un presentismo esasperato che nega la coscienza del passato e il desiderio di futuro e rifiuta i due elementi chiave della democrazia: la delega e la processualità, presentata come una lentezza, un orpello, una fatica.
Si è accorto che sono alcuni degli argomenti con cui il No si oppone alla riforma della Costituzione?
«No, io dico quello che penso con la libertà che discende dalla mia scelta di vita. Dico che la cruna dell’ago è molto stretta. Il cambiamento serve. Ma deve correre su un doppio binario: rafforzamento delle capacità di decisione del governo e rafforzamento delle capacità di controllo del Parlamento. Altrimenti, la democrazia vacilla».
Democrazia senza partiti veri: può funzionare?
«Viviamo una società fortemente individualizzata. La democrazia della Rete è il trionfo dell’Io. Non si può decidere tutto sull’asse Stato-privati. Occorrono forme intermedie nelle quali la società si organizza e si responsabilizza. La disintermediazione è pericolosissima. Ci vogliono nuove forme di democrazia di comunità».
Renzi è stato un teorico della disintermediazione.
«Se è così, non è stato il primo. Personalizzare, ripeto, non ha senso. Non partecipo al gioco del tiro all’orso sul segretario di turno».
Allora tiriamo sul suo Pd. Primarie per la leadership e partito liquido, non era questa la ricetta?
«Io non ha mai usato espressione “partito liquido”. Ho sempre parlato di partito aperto. Radicato nel territorio, ma non in mano a correnti e capibastone. E me ne sono andato quando ho visto che il Pd non andava nella direzione sperata».
La situazione non sembra migliorata.
«Penso che una lacerazione nel più grande partito della sinistra sarebbe oggi una tragedia per la democrazia italiana».
Ha sentito De Luca su Bindi?
«Le parole hanno perso il loro peso. Il Pci aveva tanti difetti, su questo però era una grande scuola. Nel mio documentario su Berlinguer, Napolitano si commuove parlando di un leader con cui pure ebbe forti scontri politici. C’era un rapporto di solidarietà umana che si è perduto. Io con D’Alema ho discusso una vita, e continuo a farlo, ma mi lega a lui un rapporto di stima».
Il nome di D’Alema viene usato in piazza per scatenare l’ululato.
«E dall’altra parte viene usato quello di Renzi con aggettivi inaccettabili. Il partito del “fuori-fuori” e quello del tiro all’orso si somigliano».
Come può un Pd in queste condizioni sopravvivere unito al referendum?
«Non partecipo da molto tempo alla discussione interna al Pd. Dico solo una cosa: la caduta di uno di pochi governi di centrosinistra rimasti in Europa sarebbe molto grave. Vorrei che tutti se ne rendessero conto».
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