sabato 12 novembre 2016

La Cina e Trump


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La Cina e altri ostacoli al nuovo programma
Corriere della Sera

La Cina  Pechino pronta alla sfida deprezza subito lo yuan e dà lezioni di ecologia
Scoppia la guerra delle monete tra le due superpotenze, dalla fine delle delocalizzazioni pochi posti in Usa

ANGELO AQUARO Rep
DAL NOSTRO INVIATO
SHENZHEN. La prima guerra tra Stati Uniti e Cina è già scoppiata, ma per la sorpresa di tutto il mondo il colpo d’inizio non l’ha battuto Donald Trump. A sparare la bordata di benvenuto al presidente eletto sono stati i signori di Pechino. Un bel deprezzamento dello yuan che tocca i minimi degli ultimi sei anni: con tanti saluti al miliardario che accusa il Dragone di svalutare la moneta per favorire l’export. Ma che volete? Perfino il
Wall Street Journal, che non è proprio il “Giornale del Popolo”, ammette che contro il rafforzamento del dollaro la Banca centrale cinese non aveva altra scelta se non sparare il renminbi ad altezza di verdone: tasso di cambio 6.7885. Ed è solo l’inizio: «Lo stimolo fiscale che i repubblicani lanceranno porterà al rialzo dei tassi e a un dollaro ancora più forte» avverte l’economista Zhou You. E quindi? «A un ulteriore indebolimento dello yuan».
La mossa sui cambi è la dimostrazione che Pechino non ha nessuna intenzione di piegarsi. Anzi. «Se Trump cerca di sondare la Cina con qualche provocazione » avverte il Global Times, che è il megafono in inglese del partito «la Cina dovrà rispondere con decisione e senza paura, stabilendo il tono dell’interazione con Washington». Per adesso è più che baldanzoso. Pechino che soffoca di smog si permette pure di dare lezioni di ecologismo agli Usa: se il nuovo presidente rimetterà mano agli accordi sul clima sappia che sta sfidando «la volontà dell’intera società globale». E indovinate un po’ chi è pronto a difenderla? «Siamo il più grande mercato del mondo: siamo il futuro» dice Jack Ma dalla platea del Singles Day di Alibaba, dopo che l’altro giorno aveva perso la pazienza persino lui: «Se Trump non collabora con la Cina sarà un disastro ». Davvero?
Il New York Times fa due conti e scommette che a perderci sarebbe comunque Pechino che negli Usa esporta 4 dollari per ogni dollaro di merce che importa. Ma gli scambi commerciali non sono semplice matematica. Minxin Pei, l’autore di “China’s Crony Capitalism”, spiega su Fortune che è vero, i 116 miliardi dell’export Usa verso la Cina sono poca cosa rispetto ai 483 miliardi che Pechino incassa dall’export. Ma le vittime collaterali? Il 35% delle esportazioni del Dragone sono “rimbalzi” da Giappone, Corea del Sud e Taiwan, cioè prodotti che la Cina assembla e poi riesporta. È pronto mister Trump a colpire anche i suoi alleati?
E con che armi poi. Un conto è ruggire in campagna elettorale: tasserò il 45% del loro export. Ma la legge, fino a quando il Congresso tutto repubblicano non la cambierà, gli permette di brandire al massimo il 15%: e per non più di 150 giorni.
I più preoccupati sono proprio gli americani: anche perché la guerra alla Cina riporterebbe a casa ben pochi dei posti di lavoro promessi da Trump. Finita l’era della delocalizzazione da queste parti: gli stessi cinesi di Byd, il gigante dei bus ecologici, trovano più conveniente andare a produrre in Ungheria. E poi a chi giova scagliare la prima pietra? Già quando ad alzare la voce era Barack Obama, accusandoli della sovraproduzione di acciaio, i cinesi rispondevano: e noi vi togliamo le fabbriche degli iPhone. Ora le ritorsioni potrebbero volare molto più in alto. Pensate solo a un signore come Chen Feng, il proprietario di Hainan, la più grande compagnia aerea privata cinese, che quest’anno ha fatto spesa all’estero per 10 miliardi e si dice pronto a comprare «anche mille jet» pur di abbassare il prezzo imposto da Boeing.
Certo: il Dragone agita la coda ma poi conferma che gli annuali colloqui sul commercio si terranno regolarmente il 21 novembre a Washington, anche se è chiaro che con Trump l’obiettivo del Trattato bilaterale d’investimento si allontana sempre di più. E del resto come si può scendere a patti con chi sulla Cina si fa consigliare da Peter Navarro? Il professore dell’Università di California è l’autore di un video dal distensivo titolo “Morire di Cina”: dove non solo si sostiene che gli Usa devono stracciare le bozze del Patto Transpacifico, si suggerisce pure che per proteggere i commerci bisogna rispedire nel mar della Cina 70 navi militari in più.
La prima guerra tra Stati Uniti e Cina è già scoppiata: e non abbiamo ancora visto niente.
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Ma con i suoi agenti è già sbarcato in Asia Mentre Pechino studia un’intesa “made in China”
Trump va all’offensiva con l’esperto Edward Feulner, l’ex ufficiale dell’intelligence Michael Flynn e la finta colomba Walid Phares
ANGELO AQUARO Rep
La campagna d’Asia è cominciata quando nessuno avrebbe mai scommesso un soldo su un miliardario alla Casa Bianca: nessuno, ovviamente, tranne quel miliardario. Che mentre nei comizi sbandierava una personalissima “dottrina Monroe”, l’America agli americani e al diavolo tutti gli altri, mandava un suo uomo a trattare le postazioni che all’ora X serviranno alla conquista. E indovinate dov’è cominciata la missione di Edward Feulner, l’uomo che conosce il Sud-Est asiatico come i corridoi del Congresso? Proprio da Taiwan: l’isola-nazione che da 70 anni è la spina nel fianco di Pechino, il piccolo Dragone che con la presidente Tsai Ing-wen sta accarezzando quell’idea contro cui ancora ieri ha tuonato Xi Jinping, l’imperatore rosso di tutte le Cine: siamo una e indissolubile, la riunificazione non è più una virtù, Pechino addio.
Altro che isolazionista, altro che alleato riluttante: invece che disimpegnarsi, Trump è già partito per la guerra d’Asia. I cinesi, sotto sotto, pensavano di averla scampata, Hillary Clinton era la nemica giurata perché era stata lei a ispirare a Barack Obama la dottrina del pivot verso l’Asia, quel Trattato Trans Pacifico che avrebbe finito per isolare la Cina. Così ieri già gongolavano alla notizia che il Trattato era stato stracciato: perché non sostituirlo con un altro made in China? L’idea è tutto tranne che peregrina, e magari alla fine il Dragone la sfrutta e la spunta davvero. Peccato che, al momento, il miliardario sembra averli fregati sul tempo.
C’è perfino una data d’inizio per la campagna di Donald Trump, il giorno in cui Feulner ha incominciato a tessere la tela d’Asia, rivelato al China Post grazie al lavoro delle opposizioni di Taiwan: 13 ottobre, la scoperta dell’Asia. È stato allora che l’ideologo repubblicano, che da presidente della Fondazione Heritage guadagnava 1 milione e 200 milia dollari ma che oggi, con The Donald presidente, s’è guadagnato l’ingresso nell’empireo del suo staff, ha intrapreso quel viaggio che da Taiwan l’ha poi portato sicuramente in Corea del Sud e probabilmente anche in Giappone. A fare che? Tessere, rassicurare, complottare forse. Il dottore d’altronde sa come funziona, il suo think thank ha fatto della manipolazione uno slogan: “Dobbiamo educare la gente che fa la salsiccia e chi è costretto a mangiarla: il popolo americano”. Bello eh?
Per la verità anche tutti gli (altri) uomini d’Asia del presidente non è che scherzino. Michael Flynn , ex ufficiale dell’intelligence, s’è fiondato guarda un po’ anche lui già a ottobre in Giappone per preparare il Sol Levante a digerire l’amaro calice d’addio al Trattato. C’è quel falco travestito da colomba di Walid Phares: «È chiaro che Trump vuole ridurre le tensioni con i cinesi, per spingerli a impegnarsi nella Corea del Nord è disposto a usare tutte le leve economiche ». Cioè, traduce The Diplomat, le sanzioni. C’è ovviamente Peter Navarro, il prof per cui la Cina è la madre di tutti i mali. E poi c’è la rete sudcoreana.
Anche lì, alla faccia dell’isolazionismo, Il presidente eletto è in affari da trent’anni con i Daewoo, che hanno finanziato metà Trump Tower a Manhattan e hanno costruito le torri del Trump World di Seul, ripagandolo con un affitto del marchio da almeno 5 miliardi l’anno. E chi sono qui gli amici di Feulner, cioè dell’amico di The Donald? Gente come Lee-Jae-yong, proprio lui, il figlio del magnate della Samsung che si appresta a prenderne le redini. O Chung Mong-joon, il più intrallazzato tra gli eredi della Hyundai. E voi, con due amici così, ve ne stareste davvero al largo della Corea, come Trump ha promesso, lasciandola al suo destino deciso dal pazzo Kim Jong-un?
No, la domanda vera da farsi è un’altra: possibile che i cinesi si facciano circondare così? Nel gioco degli specchi di questa guerra di posizione, dove oggi sembra spuntarla uno e domani tocca all’altro, proprio ieri l’ambasciatore negli Usa, Cai Tiankai, si è fatto intervistare dalla Cnn, per una volta ripresa anche dalla tv nazionale CCCTV, per dire che «la Cina spera di collaborare presto con la nuova amministrazione ». Ok: qualcuno ha il numero del dottor Feulner da passargli?
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