lunedì 14 novembre 2016

La lezione di Trump per gli aspiranti populisti nostrani di destra e di sinistra



D'Alema: «Renzi è fuori dai valori pd Se vince il Sì nascerà un partito suo»
Corriere della Sera

"Non sono né di sentimenti renziani né antirenziani, ma se il premier fosse costretto alle dimissioni a causa di un No vincente, si aprirebbe un periodo di estrema difficoltà per il nostro Paese con una netta diminuzione della governabilità e una instabilità in Europa"

L’ALTRO POPULISMO
Roberto Esposito Repubblica 14 11 2016
CHE l’imprevista vittoria di Trump, a pochi mesi dalla Brexit, richieda un profondo mutamento delle nostre categorie di analisi politica è evidente. Tutti i commenti post- elettorali ne sottolineano l’urgenza. “Il mondo è cambiato” — titolava la copertina di Repubblica nel day after. Ma in che forma? Qual è l’epicentro della trasformazione in atto? E che tipo di risposta richiede? Nell’occhio del ciclone è la nozione di populismo, come è usata nelle analisi politologiche, nei media e nella battaglia politica.
SEGUE A PAGINA 23
DA TEMPO essa è utilizzata per delegittimare gli avversari politici, pronti a loro volta ad adoperarla allo stesso modo contro i propri. Ma tale reversibilità dell’accusa di populismo — rivolta indifferentemente alle forze di governo e di opposizione — allo stesso tempo nasconde e rivela la novità in corso. E cioè che quanto viene definito populismo sta occupando, in maniera sempre più accelerata, non una parte, ma l’intero terreno dello scontro politico. Tutta la politica contemporanea, all’interno dei nostri sistemi, in Europa come nelle Americhe, ha una tonalità populista.
A ciò hanno contribuito molteplici fattori su cui adesso è inutile ritornare. Ciò che conta è la svolta che tale trasformazione determina. E cioè il fatto che la linea di confronto, e anche di conflitto, non passa più tra populisti e antipopulisti, ma all’interno dello stesso populismo. Naturalmente tale mutamento non è percepito, o è rimosso, se si continua a caricare il termine di una valenza pregiudizialmente negativa. Ma riaffiora non appena lo si sottrae a essa, sottoponendolo a una analisi più neutrale. Populismo è un nome vuoto, pronto a essere riempito da contenuti anche molto eterogenei e a essere adoperato con intenzioni differenti e contrastanti. Esso, in questa versione più oggettiva, è l’esito di una caduta di mediazioni istituzionali tra politica e vita materiale che era stata colta da tempo dalla riflessione più acuminata. In base a tale caduta, quell’insieme di segmenti differenziati e spesso concorrenti che formano un popolo chiedono una risposta immediata, cioè rapida e diretta, ai loro bisogni, desideri, pulsioni, paure, speranze.
Ciò spiega perché in tutto il mondo occidentale quella che si chiama comunemente crisi della politica sia in realtà soprattutto crisi della rappresentanza e degli organi che la incarnano — istituzioni, partiti, sindacati. Anche l’aumento verticale di personalizzazione della politica è l’esito di questa dinamica. Ma, ecco la domanda decisiva: questa crisi della rappresentanza coincide con una crisi della democrazia? La domanda è più che legittima, visto che la democrazia moderna è essenzialmente rappresentativa. Ma la risposta non è scontata. Dal momento che la rappresentanza è una polarità, certo necessaria, dei sistemi democratici, il cui altro polo è pur sempre la sovranità popolare. Ora è evidente che nell’attuale difficoltà degli organismi rappresentativi, il gioco politico si concentra su questo secondo polo. È per esso che passa il discrimine di cui si diceva, all’interno del campo populista. Nel senso che l’implicazione immediata tra politica e vita, rispetto alla quale non è più possibile tornare indietro, può essere orientata in direzioni diverse e anche alternative. Non più riducibili alla dicotomia orizzontale tra destra e sinistra, ma piuttosto relative alla scala verticale tra stratificazioni sociali sovrapposte.
È su questo che i populismi si dividono e possono essere divisi. Se, come ha dimostrato l’elezione americana, il loro avversario comune è sempre l’establishment politico, finanziario, tecnocratico, diverso è il rapporto che si determina tra gruppi sociali. Come diverso è il rapporto di forza che passa tra essi — quello che un tempo si definiva “egemonia”. In questione è la relazione che si determina tra blocchi socio-culturali diversi e quale tra essi ne governi la saldatura. Da qui anche la relazione, non necessariamente negativa, con il quadro democratico. In un certo tipo di populismo, che possiamo chiamare inclusivo, si può creare un’alleanza tra coloro che più sono stati colpiti dalla crisi economica e ceti sociali intermedi, senza che questo comporti una barriera nei confronti della forza lavoro degli immigrati. Un altro tipo di populismo, di carattere escludente, presente in Europa come in America, si chiude su se stesso, saldando la propria identità alle spinte regressive e xenofobe che provengono da ambienti sociali diversi in direzione letteralmente reazionaria.
La partita che oggi si apre, insomma, è in buona parte interna al campo populista. Ed essa va giocata anche in quel campo. La vinceranno coloro che sapranno orientare il mutamento ormai irreversibile in una direzione allo stesso tempo innovativa e compatibile con gli standard e i valori della democrazia moderna.
©RIPRODUZIONE RISERVATA


Trump, giù le mani dal 1917! 

Angelo D'Orsi Manifesto 13.11.2016, 23:58 
Eh, no! Che si legga la vittoria di Donald Trump nei termini leniniani, come ha fatto Leonardo Paggi sul Manifesto di ieri, mi pare non solo un errore storico e uno svarione politico, ma persino un oltraggio. Giù le mani dal 1917!, mi vien fatto di urlare. E non mi risento in modo peculiare avendo appena pubblicato un libro dedicato al 1917; mi incupisco davanti a una simile interpretazione proprio perché proviene da una delle menti più acute della sinistra intellettuale italiana, che mi fa temere per il futuro della sinistra stessa, che, in effetti, non se la passa tanto bene. 
È certo condivisibile il punto di partenza dell’articolo di Paggi che denuncia gravissime manchevolezze ed errori catastrofici della «sinistra perbene» (ma vorrei aggiungere anche di larga parte di quella «permale», confusa e spesso autoreferenziale), così come condivido le critiche a Obama. E sarei ancora più aspro nel giudizio su Hillary Clinton, della cui sconfitta non ci si può che rallegrare; il che non ci deve portare a fare del suo avversario il nostro eroe, il cavaliere libero e selvaggio che si incarica di portare al vertice del potere Usa le voci del popolo in catene, di far risuonare nel mondo le immortali parole dei bolscevichi vittoriosi: «Pane e pace». Trump rappresenta una destra che sconfigge un’altra destra: questo è chiaro, ma che la destra del tycoon americano sia in grado di esprimere il disagio sociale di ceti non rappresentati, sconfitti dalla gestione oligarchica della crisi finanziaria, e che si debba apprendere da questa linea i rudimenti di una nuova sinistra mi pare pensiero bislacco. 
Paggi parla di «coraggio e creatività politica»: a me pare che il messaggio di Trump sia una miscela pericolosa, e insieme banale di luoghi comuni della destra peggiore, che, nondimeno, ha, per noi europei e specie per noi italiani, il vantaggio di aprire un qualche ritorno all’isolazionismo di Washington, che è ciò che i commentatori mainstream, politici e giornalistici, in questi giorni paventano e che invece deve farci rallegrare. Così come ci deve rallegrare l’apertura alla Russia (e alle sanzioni per la Crimea), l’accenno alla Nato, e alla riduzione delle spese militari. Sotto questi aspetti, Trump ci dà speranze che la signora Clinton non ci dava, con la sua dichiarata predisposizione a rilanciare la linea della «esportazione della democrazia», i cui nefasti effetti sono il nostro tragico presente. Ma non possiamo neppure dimenticare le dichiarazioni su Gerusalemme, che il neopresidente vorrebbe dare in esclusiva agli ebrei, violando storia, geografia, cultura e buon senso; né le inquietanti allusione sull’Iran, che danno adito al timore che si voglia riaprire un contenzioso la cui chiusura è di fondamentale importanza. Né inquieta meno l’intenzione dichiarata di «rivedere» gli accordi, pur minimalisti, sulla riduzione del danno ambientale, di cui gli Stati Uniti sono i grandi protagonisti mondiali, seguiti a ruota dalla Cina. 
Per non parlare del programma di pulizia razziale che è nell’hardcore della agenda politica Trump, e del suo conclamato progetto di quell’America «forte» che solo a sentirlo vagheggiare fa venire i brividi, se la si vede nei termini di una nuova feroce supremazia Wasp, che espelle i latinos e tiene «al loro posto» i neri, magari ritornando a chiamarli negri, in odio alla political correctness, di cui tanto gioiscono Libero e Il Giornale, Salvini e Meloni. E, su questa scia, arrivare a dichiarare, come Paggi fa, che bisogna smetterla di «bollare di razzismo ogni protesta contro una situazione caratterizzata da crescente immigrazione e crescente disoccupazione», lascia sgomenti. 
Dunque, siamo all’«io non sono razzista, ma…»? Il problema, naturalmente, non è costituito tanto e solo dai bravi cittadini e cittadine delle numerose Gorino d’Italia, ma dal fatto che tante di queste proteste sono un fatto politico, politicamente caratterizzate e come tali utilizzate. Difendere gli interessi locali e nazionali, come Paggi invita a fare, incuranti del tessuto sociale di cui tali interessi sono espressione, e ignorando i più larghi e generali contesti geografici e sociali in cui essi si collocano, mi pare un programma perfetto proprio per la Lega Nord 2017, non per una «nuova sinistra», a meno che si voglia perseguire davvero una sinistra «coraggiosamente trumpista».


La nascita del partito populista 


Nel nome di Trump, il centrodestra italiano finisce a pezzi. E se doveva servire a riunificare gli ex berlusconiani, la vittoria di Donald, inutilmente paragonata a quella altrettanto inattesa del Cavaliere nel 1994, ha invece ottenuto l’effetto opposto. 



Marcello Sorgi  Busiarda

Ha funzionato da centrifuga. Le immagini contrapposte nei tg della sera delle due manifestazioni di ieri - Salvini a Firenze, Parisi a Padova, dove tra l’altro Forza Italia è stata determinante per la caduta della giunta guidata dal sindaco leghista Bitonci - non hanno dato solo l’ennesima picconata al tentativo di ricostruire le ragioni della coalizione, all’ombra del «No» al referendum costituzionale del 4 dicembre. Hanno anche posto, in termini ultimativi, la questione del superamento della leadership di Berlusconi.

Sul palco della manifestazione di Firenze, accanto a Salvini, che si è ormai autoproclamato il Trump italiano e ha posto la sua candidatura alla guida del governo, c’erano la leader di Fratelli d’Italia Meloni, che il centrodestra lo aveva già spaccato in primavera a Roma, correndo vanamente per il Campidoglio ormai destinato ai 5 stelle, e il governatore della Liguria Toti, già delfino del Cavaliere in una delle tante successioni annunciate e fallite al vertice di Forza Italia. Toti non è il solo ad aver rotto gli indugi, scegliendo la strada movimentista dell’insubordinazione a Berlusconi e dell’accordo, costi quel che costi, con Salvini e la sua linea radicale. Brunetta e Santanchè sono con lui. Altri, come Romani, non si sono spinti a partecipare alla manifestazione, ma temono l’isolamento del Cavaliere. E se l’alternativa è quella rappresentata da Parisi, organizzatore, a Padova, dell’altra manifestazione del centrodestra moderato che ha platealmente preso le distanze dall’assemblea fiorentina, o quella professata da Berlusconi nell’intervista al «Corriere della Sera» in cui ha proposto il ritorno al sistema elettorale proporzionale e non ha escluso un accordo in Parlamento per dar vita a un governo Pd-Forza Italia, le file del neonato partito trumpista italiano sono destinate a ingrossarsi.

Opposte, infatti, sono le due strategie, di Salvini e Berlusconi. A cominciare dall’eventuale vittoria del «No», e dalla conseguente sconfitta di Renzi nel voto del 4 dicembre. Il leader leghista la considera una piattaforma di lancio di una specie di campagna elettorale permanente che dovrebbe portare in tempi ravvicinati a uno sfondamento del nuovo centrodestra nelle probabili elezioni anticipate di primavera, determinate dalla possibile bocciatura della riforma istituzionale. Una campagna fieramente populista - la Meloni s’è detta orgogliosa di definirsi così - a base di una nuova serie di «No»: a Renzi, prima di tutto, agli immigrati, all’Europa, all’euro, alle banche foraggiate dal governo con fondi pubblici ricavati da un’insopportabile pressione fiscale. E così via, nella convinzione di andare verso una vittoria sicura e simile a quella americana di Trump, perché fondata sull’ascolto di tutte le ragioni di protesta dei cittadini e sul risveglio degli istinti nascosti della società civile.

Ma Berlusconi non fa mistero di pensarla in tutt’altro modo. La sconfitta di Renzi, che considera necessaria ma si augura non clamorosa, a suo modo di vedere dovrebbe servire a riannodare il filo tra le forze politiche responsabili, seriamente preoccupate per l’avanzata del populismo, che intendano collaborare per salvare il Paese. Una nuova legge elettorale proporzionale, indispensabile per cancellare il pericolo, insito nell’Italicum, di far vincere Grillo con meno di un terzo dei voti degli elettori, andrebbe concordata di conseguenza con Renzi e il Pd. L’offerta è questa, esplicita e non ancora ufficiale solo perché mancano tre settimane al voto referendario. E in queste condizioni, anche se Berlusconi ci ha abituato a improvvise giravolte, è difficile che le strade ormai separate dei due tronconi del centrodestra possano tornare a incontrarsi.

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI



Quello che gli europei non capiscono dell’America 

Al contrario di noi, crede nei fatti e nel futuro. Il declino dell’Occidente rende le comunicazioni transatlantiche più difficili che a fine ’800 
Gianni Riotta  Busiarda
Scrivendo Il giro del mondo in 80 giorni, nel 1873, Jules Verne inventa ogni sorta di disavventure per trattenere l’intrepido gentleman inglese Phileas Fogg dal compiere l’impresa in tempo, rovinando la suspense. A San Francisco lo fa dunque attardare da un comizio finito a botte, che oppone «l’Onorevole Camerfield all’Onorevole Mandiboy… per eleggere qualche pezzo grosso in politica, un governatore? Un membro del Congresso? Doveva essere così, perché la folla era davvero fuori di sé…». Se volete capire perché, malgrado linguaggi comuni, storia, Big Mac e pizza, musica rap e Verdi, Trono di Spade e Elena Ferrante, l’Europa non capisce l’America (e viceversa esclameranno qui, giustamente, tanti lettori!), partite dalle botte al comizio di San Francisco che riducono Fogg «con l’abito in stracci». La democrazia per gli americani è sport estremo, «quando la strada si fa dura, il duro si fa strada» è proverbio, attribuito al presidente Kennedy o all’allenatore del football Knute Rockne, la cui storia diventa film con un altro futuro presidente, Reagan.
Gentili gli ultimi
«Se sei gentile, finisci ultimo» è regola che, dai campetti del calcio dei bambini al duello tv Trump-Clinton, gli americani imparano e accettano. Molti insistono a restare gentili (Roosevelt, M. L. King, Spielberg…) ma con la consapevolezza di cedere un vantaggio agli avversari. Settanta anni di pace hanno persuaso gli europei che c’è una strada negoziata a ogni conflitto, la trattativa a oltranza vince. La violenza come risoluzione di un confronto è deprecata in Europa (a meno che non si tratti dei rifugiati), mentre l’America arma un arsenale militare più fornito di quello del resto del mondo.
Gli europei scelgono quel che loro piace degli Usa, vedi l’acerbo premio Nobel e sdilinquirsi per Obama, primo presidente nero nel 2008, ma online diffondono la leggenda che il presidente Bush e il suo vice Cheney «non viaggiano in Europa perché temono l’arresto dopo i crimini di guerra in Iraq». L’America è adorata quando Bob Dylan vince il Nobel (beh, da quasi tutti…), se l’ex vicepresidente Al Gore vince l’Oscar con il documentario sull’ambiente, ma non se ne discutono mai le contraddizioni, la furia, l’energia formidabile che la muove. Vero, e disgustoso, il Ku Klux Klan razzista ha appoggiato Trump, e dopo la sua elezione sono apparsi squallidi segnali, scritte murali con la svastica, insulti agli emigranti su Instagram. Ma, fidatevi, l’America non era un inferno sotto Bush, paradiso sotto Obama, e non sarà apocalisse sotto Trump, è lo stesso Paese, vari elettori hanno votato tutti e tre i presidenti e non sono dottor Jeckyll e Mr. Hyde.
Sessanta anni fa nel Sud americano c’era l’apartheid contro i neri, si chiamava Jim Crow. Otto anni fa hanno eletto un nero: quando vedremo un giamaicano a Downing Street, un turco cancelliere tedesco, un algerino presidente all’Eliseo e un albanese a palazzo Chigi? Non trattenete il fiato, l’America è spazzata dalla sua furia in direzioni sbagliate, poi con la stessa foga si autocorregge. 
Kissinger nel mirino
Il futuro la ammalia, mentre spaventa noi europei, perché crede alla realtà, scommette sulla realtà, inventa il web, non lo regola con dazi come noi con Google. C’è un momento della verità nel bel documentario che Walter Veltroni ha dedicato al leader Pci Enrico Berlinguer: chiedono all’ex ambasciatore americano a Roma Dick Gardner perché l’amministrazione democratica di Carter non appoggiasse la svolta eurocomunista. Noi eravamo interessati a Berlinguer, risponde Gardner, si diceva filo Nato, ma quando chiedemmo all’Italia di ospitare i missili Cruise, in reazione all’offensiva dei missili russi SS20, Berlinguer mobilitò la piazza pacifista e ci chiedemmo che differenza c’è, nei fatti, dopo le parole, resta contro la Nato.
Gli americani sono distratti ai discorsi, sono i fatti che li persuadono. Henry Kissinger, 93 anni, nato in Germania, che parla ancora con formidabile accento tedesco, rimasto «europeo» fino in fondo, crede all’equilibrio dei poteri come al Congresso di Vienna e nel saggio Ordine mondiale (Mondadori) propone all’America giusto di tornare «europea» e trattare con Russia e Cina senza sanzioni sui diritti umani, senza perdere tempo con ragazzi arabi scapestrati, monaci tibetani irruenti, lesbiche punk moscovite poco ortodosse. Per questo i neoconservatori di destra e i liberal lo odiano, perché, da europeo, non crede al «destino speciale Usa», e apre alla Cina come un Metternich.
Una diaspora di valori
A ben guardare, infatti, non è che America e Europa non si capiscano più, è che la diaspora culturale, di valori, religione, ha spaccato l’Occidente. La guerra civile non è «tra» i due continenti, è «dentro» i due continenti. Quando Bush decise di invadere l’Iraq, il grosso del partito democratico, e il futuro presidente Obama, si opposero con argomenti identici a quelli del cancelliere tedesco Schroeder, oggi lobbista per il Cremlino, e del presidente francese Chirac. Mentre in Europa lo spagnolo Aznar, l’inglese Blair e - con il contingente italiano in Iraq - anche Berlusconi provarono invano a evitare la deriva delle relazioni Usa-Ue che si rivelò poi insanabile.
Donald Trump è adesso acclamato in Italia da Lega, Beppe Grillo, parte della vecchia destra e perfino a sinistra affiorano ingenui entusiasmi che legano il No al referendum con la carica anti-establishment di The Donald. Trump boccia il trattato commerciale Ttip con l’Unione Europea e la piazza europea esulta, nemica di Ogm e globalizzazione. Michelle Obama e Carlin Petrini si capiscono benissimo sui pomodori organici, Clint Eastwood e Michel Houellebecq si capiscono benissimo nel difendere dall’estinzione «multicultural» la cultura in cui sono cresciuti, a Hollywood come a Parigi. È il declino dell’Occidente a rendere le comunicazioni transatlantiche più difficili che ai tempi del primo telegramma via cavo sottomarino dalla regina Vittoria al presidente Buchanan, 99 parole, 18 ore e mezzo di trasmissione. Per ora parliamo di declino dell’Occidente, vedremo se, e quando, anche della democrazia.


“Il Vecchio Continente non vede fenomeni che sono anche i suoi” 

Parla il sociologo Etzioni, padre del comunitarismo 

Paolo Mastrolilli  Busiarda
Amitai Etzioni scuote la testa: «La cosa più pericolosa è che l’Europa non riesce a vedere negli Usa fenomeni che stanno avvenendo anche al suo interno, forse in forma più grave».
Il sociologo della George Washington University, padre del comunitarismo, è forse la persona più adatta per discutere le incomprensioni tra le due sponde dell’Atlantico. Nato in Germania da una famiglia ebrea, era scappato al nazismo rifugiandosi nella terra che sarebbe diventata lo Stato di Israele, trasferendosi poi negli Stati Uniti. Un uomo vissuto a cavallo di almeno tre culture, dunque, di cui conosce bene pregi e contraddizioni.
Come si è spiegato la vittoria di Donald Trump?
«Una combinazione di tre fattori: economico, culturale e sociologico. L’economia dei liberi commerci e della globalizzazione ha tolto a molte persone lavoro e casa; sul piano sociologico, le migrazioni hanno forzato le comunità ad accettare persone molto diverse fra loro; sul piano culturale, i liberal hanno imposto a tutti provvedimenti come i matrimoni gay. La classe lavoratrice, ferita sul piano economico, culturale e sociale, ha reagito votando Trump».
La sua elezione è stata una sorpresa per gli Usa, ma l’Europa fatica ancora di più a capirla. Forse perché abbiamo l’abitudine di vedere e prendere dell’America solo quello che ci piace?
«Questo è vero, ma anche naturale. Gli Stati Uniti sono un Paese grande come un continente, complesso e variegato. Contengono molte realtà diverse o anche opposte, e gli stessi americani scelgono quelle che preferiscono e ignorano il resto. A maggior ragione lo fanno gli europei: la sinistra vede solo l’America liberal, e la destra quella conservatrice. Solo che quando ci sono le elezioni questi mondi così distanti devono convergere alle urne, e quindi le differenze esplodono in maniera drammatica».
L’Europa è sorpresa dalle tendenze americane, che però stanno avvenendo al suo stesso interno,e non riesce a riconoscerle?
«Esatto. Il trend è identico: emigrazione, globalizzazione, guerra culturale su tutto, dal burqa al resto».
Dobbiamo aspettarci l’avvento dei Trump anche in Europa?
«Ogni Paese vive situazioni diverse, ma se non c’è una risposta democratica alle stesse ansie basilari, prima o poi vedremo un movimento verso la destra. In Ungheria, Polonia e Danimarca sta prendendo la forma di un allontanamento dalla democrazia; in Germania la crescita dei partiti marginalizzati; in Francia Le Pen, ma è un trend generalizzato verso la destra».
L’Unione Europea è la causa?
«È una fonte del problema, perché ignora i sentimenti nazionali e agisce come se ci fossero gli Stati Uniti d’Europa. Andava bene quando era una unione commerciale, ma ora si occupa di immigrazione, terrorismo e altri temi che toccano identità profonde. Se non ne tiene conto e cerca di dettare le regole da Bruxelles, diventa fonte di risentimento».
Nei giorni scorsi l’Anti Defamation League ha invitato Trump a non usare la retorica che aveva alimentato le persecuzioni naziste contro gli ebrei. Lei vede questo rischio?
«Non c’è dubbio. Ha avuto atteggiamenti antisemiti, contro i musulmani, le donne, i gay, ha sfruttato i propri dipendenti e imbrogliato i partner. La cosa straordinaria non è che ci sia stata la svolta populista, ma che abbia scelto lui come messaggero. Questo però è un avvertimento proprio per l’Europa, che non è riuscita o non ha voluto vederlo. Quando vai così a destra, non puoi prevedere cosa ti aspetta. Nei prossimi anni la perdita di lavoro aumenterà, a causa della tecnologia: se la sinistra non saprà dare una risposta efficace, la rabbia guarderà a destra, trovando ogni tipo di persone, anche estremisti».
Teme reazioni più gravi in Europa?
«Io sono ebreo, e quindi attento ai rigurgiti di antisemitismo, che esistono. Però il problema è più grande. L’Europa non sta gestendo l’immigrazione, che ha aiutato Trump a vincere, e tra cinque anni avrà cento milioni di giovani musulmani istruiti e disoccupati. A quel punto il risentimento verso gli islamici diventerà il problema principale: come lo gestirà?».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI



Matteo leva la felpa e scopre l’America “Trump ci ha insegnato come vincere” 

La cerimonia di auto-incoronazione e i cartelli stile Usa “Vince il No, poi subito al voto”. Insulti al Quirinale: “Ci farei un asilo nido”
CARMELO LOPAPA 
FIRENZE. Matteo l’Americano ripiega la felpa di tante altre piazze, è giunta l’ora della giacca blu su camicia bianca, di fasce tricolori esibite dai suoi sindaci e della rottamazione di 22 anni di centrodestra berlusconiano. «Non c’è più tempo da perdere» urla dal palco di Piazza Santa Croce a Firenze, «io la faccia ce la metto, non ho paura di niente e di nessuno, da qui inizia una lunga marcia ». Quella della sua leadership nella coalizione e della corsa alla premiership, adesso che Trump ha dimostrato che tutto è possibile per chi cavalca l’onda del populismo.
“Salvini premier” campeggia del resto sul cartello fatto stampare e distribuire in migliaia di copie, issato dai duecento sindaci sul palco e dai militanti in piazza: caratteri cubitali bianchi su sfondo blu, stessi caratteri e medesimi colori dei cartelli della campagna del tycoon entrato a sorpresa alla Casa Bianca. Mentre sui maxi schermi sotto lo sguardo della statua di Dante campeggia la foto del leader accanto a Donald Trump, scattata durante la campagna elettorale americana. Va all’incasso di quel sodalizio ora Salvini. La sfida è venuta a lanciarla dalla città del premier Renzi, definito a più riprese il «bugiardo patologico», la sua riforma «la più infame degli ultimi anni».
Ma è tutta interna alla destra, in realtà, la sfida, ha nel mirino proprio l’assente Berlusconi, è tempo di concludere l’Opa sui suoi parlamentari e i suoi elettori. «Se il voto sulla Brexit e il voto degli americani ci insegna qualcosa, con oggi si parte per andare a vincere» è il grido di battaglia del capo del Carroccio. I primi cittadini leghisti che arrivavano senza fascia tricolore ne ricevono una posticcia da indossare sul palco, altro che “Padania libera” e “secessione” (mai citate), eccola la nuova Lega (mai definita Nord) di Salvini. Si chiamerà “Lega degli italiani” dicono i fedelissimi. Sul palco tra gli altri parleranno anche i primi cittadini di Andria e di Foggia. Di Bossi non c’è l’ombra, Calderoli si intravede sotto. Di quei tempi riecheggia giusto il “Nessun dorma”. Piazza Santa Croce può contenere 12 mila persone, è gremita, gli organizzatori parleranno di 40 mila persone. Per Salvini, il «Matteo Giusto che scaccerà quello sbagliato» - come lo presenta il governatore e (ex?) avversario interno Roberto Maroni - contava solo riempirla. Le uscite ultime di Berlusconi sono state interpretate dall’entourage di Salvini come un’apertura bella e buona a un governo di scopo o a larghe intese dopo l’eventuale vittoria del No del 4 dicembre. Ecco perché il leader leghista spara a pallettoni sotto l’enorme volto di Renzi incastonato nella “O” del “No” sullo sfondo del palco. “Non è più tempo di re tentenna, se i nostri alleati hanno ancora nostalgia di governi tecnici, inciuci, di Nazareni e di Alfano, non saranno mai nostri alleati», più chiaro di così? La bordata al Colle è senza precedenti. «Dopo il referendum si va dritti al voto, decidono i cittadini, non il Quirinale, chi è Mattarella?». Fosse per il leader leghista, «il Quirinale lo trasformerei in un grande asilo nido per tutti quei bambini che non hanno posto altrove». Se è per questo, in un escalation molto trumpista, anche l’ex inquilino del Colle, Giorgio Napolitano, viene definito «da ricovero». Compaiono due bandiere Usa in piazza in onore del nuovo amico presidente, perfino una russa per Putin. Sul palco sale il prof grillino Paolo Becchi gemellato in nome del No, giù si vede Daniela Santanché che spara contro il moderato forzista Stefano Parisi («Si è montato la testa»), unico berlusconiano a salire al microfono è il governatore ligure Giovanni Toti. Ma lui ormai fa storia a sé, in asse coi colleghi leghisti Maroni e Zaia (impegnato in Argentina), sempre più vicino alla galassia di “lega Italia”. Applausi e bandiere di Fratelli d’Italia sventolano quando alla tribuna sale Giorgia Meloni per un discorso tutto di pancia: «Il 4 dicembre Renzi sarà seppellito da una valanga di No e se Mattarella non ci farà votare noi vi chiameremo alla mobilitazione», standing ovation. Tamburi di guerra per una piazza che non vuole altro.
A rovinare in parte la “festa”, guarda caso, è giusto lo sgambetto di Padova ad opera di due consiglieri forzisti determinanti nella sfiducia della notte al sindaco leghista Massimo Bitonci. «I traditori », li chiamerà l’ex primo cittadino del quale Salvini annuncia subito la ricandidatura «contro i giochi di palazzo di alleati sbagliati». «Sfigato» il Parisi che prende le distanze. E’ tutto un avvertimento all’indirizzo di Arcore, questa manifestazione proiettata già sul post 4 dicembre. «Se voi ci sarete, io ci sarò e andiamo a vincere, non è più tempo di dubbi e paure, oggi comincia una lunga marcia», li scalda l’autoproclamato leader. Scende la notte di Firenze e annuncia il big bang del centrodestra. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Renzi, caccia ai voti degli elettori di Lega e M5S “La riforma è anti-casta” 

L’appello: “Non andate contro la vostra storia”. Voto all’estero, esposto dei comitati del No sulla lettera del premier. Viminale: dati consegnati a tutti

Rep
Con il Partito democratico diviso sul referendum e senza speranze di ritrovare l’unità in extremis, arriva il giorno in cui Matteo Renzi in vista del 4 dicembre si rivolge direttamente agli elettori dei partiti di opposizione. «Se votate No andate contro la vostra storia», è l’appello che il premier lancia sui social mentre a Firenze manifestano il sostenitori del No. Un messaggio rivolto a chi vota Salvini e Grillo, come testimonia il ragionamento del Capo del governo che accusa i loro senatori di essere «affezionati a poltrone e privilegi mentre chi ha scelto Lega e Cinquestelle vuole cambiare».
L’uscita del premier non riesce a togliere dal tavolo la polemica sulla lettera inviata a 4 milioni di italiani residenti all’estero per invitarli a votare la riforma Boschi. Tanto che il Comitato per il No al referendum costituzionale con il suo vicepresidente, Alfiero Grandi, annuncia iniziative legali contro il premier: «Il ricorso alla magistratura in tutte le sedi possibili è inevitabile per cercare di ottenere giustizia e il ripristino della parità di condizioni in campagna elettorale». Inoltre «stampare e inviare 4 milioni di lettere ha un costo rilevante, c’è stato l’aiuto disinvolto di qualche struttura pubblica?». Anche Salvini dal palco di Firenze annuncia ricorsi legali perché «comprarsi gli indirizzi di milioni di italiani è un reato, i brogli prima delle elezioni non li avevo ancora visti». I Cinquestelle parlano di «truffa» e «atteggiamento eversivo», D’Alema chiede chiarezza e sottolinea che «sarebbe grave se il governo avesse abusato del suo potere» mentre per Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi, «si rischia di influenzare l’elettorato ». Brunetta annuncia iniziative legali congiunte da parte di tutti i soggetti contrari alla riforma.
Ma il Viminale in una nota spiega che i dischetti con i dati dei connazionali all’estero «sono stati regolarmente consegnati a tutti i richiedenti» tra i quali il Comitato per il No di Giuseppe Gargani. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano afferma poi - facendo insorgere l’opposizione - che l’iniziativa «è normale e ha tutta l’istituzionalità che giustifica l’intervento » del premier».
Intanto sul fronte del Pd Gianni Cuperlo, che ha firmato il documento sulla riforma dell’Italicum rigettato però dal resto della minoranza, parla di «prosecuzione di un rodeo che fatico a capire, di fronte all’enormità dei problemi che abbiamo davanti non riesco a comprendere cosa impedisca prima di tutto al premier di cambiare spartito». Ma Cuperlo a sua volta viene impallinato da D’Alema con una battuta riferita alla sua firma sull’Italicum: «Bisognerebbe stabilire, se non per legge per consuetudine, dei limiti all’ingenuità ». E l’ex premier per togliere un argomento a Renzi che lo accusa di schierarsi per il No nel tentativo di tornare sulla scena, assicura che «comunque vada a finire, che vinca il Sì e che vinca il No, quando finisce questa campagna elettorale tornerò pienamente al mio lavoro di presidente della Fondazione culturale dei Socialisti europei a Bruxelles e quindi non mi occuperò della politica italiana».
( a. d’a)


Martina: “La sinistra protegga i dimenticati il modello è l’operazione Sala a Milano” 

ALBERTO D’ARGENIO Rep
Ministro, dopo la vittoria di Trump c’è il rischio che anche in Italia vincano i populisti?
«In Italia abbiamo anticipato alcuni scenari come l’esperienza di una destra che nel nostro caso si è affidata a Berlusconi e che ha diverse analogie con Trump. Ma anche l’esperienza di innovazione del Pd - come risposta alternativa a certi fenomeni - è una novità del tutto originale nel campo progressista e democratico europeo ».
Vuol dire che l’Italia è immune ad un futuro populista?
«No, e non possiamo sottrarci ad una riflessione generale su cosa sta accedendo».
E dunque come si reagisce?
«La destra si batte con una sinistra capace di esprimere una proposta di cambiamento forte, in grado di reinterpretare le nostre stelle polari come uguaglianza, solidarietà ed equità. Questione sociale e questione democratica si tengono anche da noi. Per questo ritengo che il referendum abbia una valenza strategica cruciale per il futuro. E’ lo strumento che abbiamo ora per battere chi pensa che nulla possa cambiare nel sistema» Parla di destra: teme più Salvini che Grillo?
«Continuo a pensare che l’asse fondamentale sia quello destra- sinistra e che proprio da destra arrivino le interpretazioni più avanzate di certi fenomeni preoccupanti. I 5 Stelle hanno le loro peculiarità e le loro ambiguità ma alla fine quando governano le città anche loro sono chiamati a fare scelte che si misurano su questo asse tra cambiamento e conservazione e troppe volte scelgono il secondo fronte, come sta accadendo a Roma».
E allora che fa la sinistra?
«A me interessa recuperare la consapevolezza di tutte forze riformiste e progressiste che devono unirsi e comprendere che la grande questione democratica davanti a noi va interpretata con una forte proposta di cambiamento. Diffido da una sinistra che risponde all’avanzata di queste novità rimanendo ferma».
E’ un appello alla minoranza sul voto?
«E’ una lettura riduttiva, qui serve una discussione aperta che coinvolga energie e forze ampie. Poi certo, sono convinto che oggi il Sì sia lo strumento che abbiamo per battere innanzitutto chi immagina di continuare a prendere voti per l’incapacità delle istituzioni di rinnovare se stesse. Ma il Sì è fondamentale anche per proseguire più forti la battaglia per cambiare l’Europa».
La Milano di Sala è un esempio per il futuro di una sinistra unita?
«Milano è un’esperienza avanzata, dove pluralità e unità hanno marciato unite e il Pd ha assolto alla sua funzione di innovazione e radicamento unendo sensibilità diverse, l’anima più tradizionale a quella più innovativa, superando sterili discussioni autoreferenziali su di noi».
©RIPRODUZIONE RISERVATA



I rapporti Usa-Ue e il ruolo chiave della germania Giovanni Sabbatucci  Busiarda 14 11 2016
Comunque la si pensi sulle vere intenzioni e sui programmi di Donald Trump, è certo che l’approccio del neo-presidente alla politica internazionale non sarà senza conseguenze sulle relazioni degli Stati Uniti col resto del mondo: in primo luogo con l’Europa, che dovrà confrontarsi con i suoi molti problemi irrisolti senza poter contare sulla sponda tradizionalmente offerta dall’alleato d’oltreoceano. Un rischio, sicuramente, ma forse anche un’occasione da sfruttare. 
Quel rapporto, stretto e obbligato, fra nuovo e vecchio continente fu inaugurato un secolo fa dall’intervento americano nella Grande Guerra: intervento che il presidente Wilson vedeva come premessa all’instaurazione di un nuovo e pacifico ordine internazionale. Un’utopia democratica che si contrapponeva esplicitamente al mito della rivoluzione rilanciato dalla Russia dei soviet, già prefigurando il confronto bipolare di parecchi anni dopo. Il sogno si infranse a guerra appena finita per il prevalere di un antico riflesso isolazionista nel Congresso Usa, che rifiutò di ratificare il trattato di Versailles. E la rinuncia degli Stati Uniti a un ruolo di responsabilità mondiale aprì in Europa un drammatico vuoto di egemonia, in cui trovarono spazio le vecchie logiche di potenza e si affermarono su scala continentale i movimenti e i regimi autoritari. Mentre la grande crisi degli Anni Trenta, non governata a livello internazionale e aggravata dal ritorno alle pratiche protezioniste, distruggeva la fiducia nella democrazia e cancellava le speranze di stabilità maturate dopo i travagli del primo dopoguerra. 
Con l’intervento nella Seconda guerra mondiale e la sconfitta delle potenze fasciste, furono però gli Stati Uniti d’America a proporsi a un’Europa dissanguata non solo come alleati egemoni, ma anche come dispensatori di benessere e di democrazia. Furono gli Stati Uniti a spingere la ripresa dell’Europa attraverso il piano Marshall e ad aiutare la ricostruzione degli ex nemici sconfitti, Germania occidentale in testa. Furono loro a contenere, attraverso il dispositivo militare della Nato, l’avanzata dei comunismi e a incoraggiare i primi passi del progetto di integrazione europea: progetto che difficilmente si sarebbe avviato senza un robusto sostegno americano. Non a caso gli anni della guerra fredda coincisero con una fase di straordinaria espansione delle economie occidentali: «l’età dell’oro» dei miracoli economici, legati anche all’apertura delle frontiere e alla creazione di aree di libero scambio. Non sono mancati da allora i momenti di rottura e le incomprensioni fra Usa e partner europei. La Nato è stata vista spesso come uno strumento improprio di dominio politico. Dopo la caduta del muro, molti si sono chiesti se avesse ancora senso un’alleanza militare piegata su esigenze diverse da quelle originarie. Non credo però che si possa contestare l’evidenza storica di una correlazione diretta fra la salute politica ed economica dell’Europa e lo sviluppo della cooperazione inter-atlantica. 
Ora il quadro è cambiato. Non potremo aspettarci, da ora in poi, che sia l’America a proteggerci dalle derive nazionaliste. Meglio allora ripensare il ruolo della Nato collegandola a un progetto di difesa comune. Meglio sforzarsi di chiarire quale Europa si voglia costruire e quali Paesi siano disponibili all’impresa, a prescindere dalle scelte dell’amministrazione Usa. Oggi il riferimento interno più sicuro per un’Europa che non rinneghi i suoi princìpi costitutivi non può essere che la Germania di Angela Merkel: proprio la Germania che negli Anni Trenta aveva portato una minaccia mortale alla democrazia e che oggi resiste alle ondate populiste meglio di qualsiasi altro paese dell’Unione; la Germania che nell’immediato dopoguerra, aveva rappresentato soprattutto un problema da risolvere e che oggi è l’unico membro dell’Ue a disporre dell’autorevolezza e delle risorse necessarie alla grande politica. Possiamo rilevare il paradosso, ma questa oggi è la realtà. Di fronte alla quale non avrebbe senso per i Paesi europei, compreso il nostro, dividersi su qualche decimale di Pil.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

IL TRUMPISMO ALL’ITALIANA E LA DESTRA SENZA LEADER ILVO DIAMANTI Rep 14 11 2016
LEGA e Forza Italia, Forza Italia e Lega. Oggi sembrano distanti e distinte. Lega o Forza Italia. Forza Italia o Lega. La Lega di Salvini si è mobilitata per il No al referendum. A Firenze. La città di Renzi. Che una settimana fa, proprio a Firenze, alla Leopolda, ha presieduto la convention del PdR. Forza Italia, invece, si è riunita intorno a Stefano Parisi. A Padova. Dove, il giorno prima, è stato sfiduciato il sindaco leghista, Massimo Bitonci. Per la defezione, determinante, di due consiglieri di Fi.
SEGUE A PAGINA 23
COSÌ, Bitonci ha sostenuto che ci sono due Forza(e) Italia(e). Anche perché a Firenze, insieme a Salvini, manifestavano Toti, presidente — forzista — della Liguria. Ma anche Brunetta e la Santanché. Però è altrettanto vero che non c’è una sola Lega. Visto che Manuela Dal Lago, ex Presidente della Provincia di Vicenza, ex deputata, ex triumvira della Lega Padana, non ha rinnovato la tessera. Perché si sente lontana da questa Lega, che ha rinunciato all’indipendenza padana. E, per questo, lascia insoddisfatto il padre fondatore, Umberto Bossi. Una Lega Nazionale e lepenista. Antieuropea e anti-immigrati. Che, invece di marciare contro Roma, si è scagliata contro Bruxelles. Tuttavia, il problema di fondo, a Destra, appare proprio l’identità e la leadership. Della Destra. In particolare oggi, dopo la vittoria di Donald Trump negli Usa. Perché gli Usa costituiscono, comunque, la guida e il riferimento della politica globale. Tanto più in Italia. Per decenni, il confine dell’Occidente. Cioè, del Mondo ispirato e guidato dall’America. Alternativo al sistema socialista. Il baricentro impiantato a Mosca. Oggi non è più così. Da tempo ormai. Ma l’elezione di Trump ha accelerato e accentuato questo passaggio. In modo traumatico. Perché Trump guarda oltre l’Europa. E si rivolge direttamente alla Russia di Putin. Mentre marca maggiormente i confini interni. Nei confronti del Messico. E fra le popolazioni, vista l’importanza, per il risultato, del voto dei “bianchi”. Così, la distinzione fra Destra e Sinistra, in Italia, diventa ancor più problematica. Ma soprattutto nella Destra, dove convivono componenti e leadership molto distinte. Soprattutto dopo il declino di Silvio Berlusconi, in seguito alle dimissioni del suo governo, giusto cinque anni fa. Il 12 novembre 2011. Infatti, la Destra, meglio: il Centro-destra, in Italia, è stato improntato da Berlusconi. La sua “discesa in campo”, nel 1994, divise il (nostro) mondo in due. Fra Berlusconiani e Comunisti. Perché, sulle macerie del muro di Berlino, Silvio Berlusconi ricostruì il muro di Arcore. Puntualmente ricambiato — e confermato — dagli avversari. Che hanno diviso il mondo fra berlusconiani e anti-berlusconiani. In questo modo, peraltro, la Lega secessionista riuscì a divenire forza di governo. “Sdoganata” da Berlusconi. Che riuscì nell’impresa di “legare la Lega” con i post-fascisti di An. E di “unire”, così, il Nord con il Sud.
Oggi, però, è rimasto poco di quella stagione. Di quel progetto. Di quelle fratture. An si è disciolta nel PdL. Mentre il leader, Gianfranco Fini, è scivolato al Centro, insieme a Futuro e Libertà. Ai confini della Destra è rimasta Giorgia Meloni, con i suoi “Fratelli d’Italia”. Mentre la Lega e Fi faticano a tenere i loro elettori. Secondo i sondaggi — che, naturalmente, sbagliano, ma continuano ad essere considerati con timore dagli attori politici — Fi oggi si aggira intorno al 12 per cento. In crescita negli ultimi mesi. Ma 5 punti sotto il risultato delle europee. La Lega, invece, è stimata un po’ meno del 10 per cento. In aumento, rispetto alle Europee. Ma in calo significativo nell’ultimo anno, visto che a giugno 2015 il suo peso elettorale era valutato al 14 per cento. Il problema, per la Lega e per Forza Italia, è che la spinta anti-sistema, contro l’establishment e contro le èlite, in Italia, non è interpretata da loro. O meglio, non tanto da loro. Perché il posto di Trump, da noi, è già stato occupato da tempo. Dal M5s. Che, non a caso, nei sondaggi, è molto vicino al Pd, nel voto proporzionale. Ma, in caso di ballottaggio, prevarrebbe. Certo, fra gli elettori del M5s, Trump non appare popolare quanto presso la base della Lega e dei FdI. Perché l’elettorato del M5s è distribuito in modo trasversale da destra a sinistra passando per il centro. Mentre il sostegno a Trump, in Italia, fra gli elettori di centro-destra e di destra, (prima del voto Usa) appariva più che doppio, rispetto alla media (sondaggio Demos). Tuttavia, Trump non si è affermato perché ha attratto — specificamente — gli elettori di “destra”. Cioè, per ragioni “ideologiche”. Si è affermato, invece, perché ha intercettato il voto degli elettori “arrabbiati” (per usare un eufemismo) contro la politica, i politici e, soprattutto, le dinastie politiche — come i Clinton. Perché ha raccolto il consenso — e amplificato il dissenso — dei ceti medi in declino. E delle classi declinate da tempo. Insomma, per dirla “all’italiana”, Trump ha vinto perché si è presentato come l’anti- politico contro l’erede dichiarata della politica — tradizionale. Contro Washington, la capitale. Che, in Italia, non coincide più con Roma, dove, ormai, stazionano tutti i “politici”. Del Pd, ma anche di Fi, della Lega e del M5s. La capitale, ormai, è Bruxelles. Il nemico è l’Europa.
Per i soggetti politici di Destra, dunque, il problema è che, in Italia, lo spazio di Trump e del trumpismo risulta già occupato. Dal M5s. E da Grillo. Tuttavia, è probabile, anzi: certo, che tutti cercheranno di trarre spunto — e spinta — dalla “lezione americana”. Soprattutto in Italia. Così non mi sorprenderei se lo stesso Renzi tentasse di trumpizzarsi. Almeno un po’. Tanto più in caso di vittoria del No al referendum. In fondo, la “rottamazione” l’ha inventata lui. Potrebbe presentare Trump come un imitatore… ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: