lunedì 14 novembre 2016

L'epistolario di Wincklemann tradotto in edizione critica

Johann Joachim Winckelmann: Lettere, Istituto Italiano di studi germanici, vol. I , pp. 906; vol. II, pp. 759; vol. III, pp. 881, € 125,00

Maria Fancelli ha curato per l’Istituto Italiano di Studi Germanici i tre volumi delle «Lettere» di Winckelmann: la rete di relazioni per il fondatore del mito della classicità
di CLAUDIO MAGRIS Corriere

Principi e studi per il figlio del ciabattino 
Centenari Winckelmann. L’Istituto Italiano di Studi Germanici pubblica tre libri di «Lettere» a cura di M. Fancelli e J. Raspi Serra 
Claudio Franzoni Manifesto Alias 13.11.2016, 20:12 
Gli epistolari non appartengono certo a un genere familiare al nostro orizzonte (e non si può dar la colpa solo all’onnipresenza di mail, SMS e altre forme di comunicazione digitale). Ma l’impressione di lontananza sparisce presto davanti a quello di Johann Joachim Winckelmann, pubblicato dall’Istituto Italiano di studi germanici di Roma a cura della germanista Maria Fancelli e della storica dell’arte Joselita Raspi Serra: Lettere, traduzioni di Bianca Maria Bornmann, Barbara Di Noi, M. Fancelli, Delphina Fabbrini, J. Raspi Serra, Paolo Scotini, Francesca Spadini (vol. I , pp. 906; vol. II, pp. 759; vol. III, pp. 881, € 125,00).
Quello di Winckelmann – il fondatore dell’archeologia classica intesa come storia dell’arte – non è per nulla un epistolario fittizio, una raccolta pensata per lettori colti; si tratta di lettere, più di 800, scritte (e inviate) nel corso di una vita, dal 1742 al 1768, l’anno della morte a Trieste. E davvero, se non tutta, c’è gran parte della vita di Winckelmann, in una sorta di autobiografia indiretta e involontaria.
Già ai contemporanei questi brevi scritti sembrarono preziosi, tanto è vero che iniziarono presto a circolare: la storia della pubblicazione delle lettere, che Maria Fancelli ripercorre nel primo volume, è anzi un capitolo a sé, che racconta da solo il peso che Winckelmann ha avuto nella cultura europea dal Settecento in poi (basti ricordare, tra gli altri, il coinvolgimento di Goethe, che nel 1805 rese nota la corrispondenza con J. D. Berendis). Nel nostro paese va segnalata l’elegante, ma ormai lontana, edizione delle sole lettere italiane curate da Giorgio Zampa per Feltrinelli (1961).
Basata sulla più importante edizione del Novecento, quella di Walther Rehm (integrata con più recenti acquisizioni), la raccolta è dunque la prima edizione italiana completa delle lettere di Winckelmann, poiché comprende quelle in latino (le più antiche, a cominciare da quella rivolta al Senato di Stendal), in francese, in italiano e, naturalmente, in tedesco. Le lettere sono disposte in ordine cronologico in tre corposi volumi, ciascuno dei quali si apre con un saggio che riannoda i singoli testi alle vicende biografiche e alle opere dello studioso tedesco; ricchi apparati di note, alla fine di ogni volume, analizzano puntualmente le missive fin nel dettaglio.
Non solo per specialisti
Una fatica rivolta agli specialisti, ma non solo. Pubblicare l’epistolario di Winckelmann significa infatti recuperare alla cultura italiana una figura che le appartiene pienamente. Senza contare che l’italiano è stata una delle lingue di Winckelmann, la più importante dopo quella materna, la lingua di tutti i giorni una volta arrivato in Italia. Sentite come ne parla all’amico Berendis: «Questa lingua è più difficile di quanto si pensi leggendo i libri. È ricca come il greco e l’accento romano si impara difficilmente. Ma visto che parlo con príncipi e cardinali, puoi ben capire che so il necessario».
Fa sorridere l’idea di un Winckelmann che si sforza di parlare romanesco, ma dal 1755 Roma per lui è il vero centro del mondo. La corrispondenza a ridosso di questa data sembra gravitare quasi unicamente sul tema del viaggio in Italia: in un primo tempo una provvisoria opportunità di studio, in realtà un trasferimento definitivo. Roma diventa occasione unica per l’incontro con quell’antichità classica sognata in gioventù e per un riscatto dopo gli anni di Dresda: «Ho passato ben 14 anni della mia vita in solitudine, la metà come rettore di una scuola, e poi come capobibliotecario della biblioteca del sig. conte di Bünau». Il viaggio a Roma non è cosa semplice e c’è di mezzo il tormento dell’opportuna (o opportunistica?) conversione al cattolicesimo: «Mio padre – scrive al solito Berendis – (…) non ha voluto fare di me un cattolico, mi ha fatto una pelle delle ginocchia troppo più sottile di quella che ci vuole per inginocchiarsi di buona grazia cattolicamente: avrebbe dovuto foderarle con un pezzo dei suoi tiranti da bufalo». Per il figlio del ciabattino, dunque, la città non è solo un’immensa riserva di sculture antiche: a Roma «godo della mia tranquillità … e vivo e opero secondo il mio arbitrio», perché «sono nato libero e voglio morire così». Con tutte le sue contraddizioni, «Roma comincia a piacere non appena si impara a rinnegare la pulizia tedesca, e io non riesco a trovare nulla che possa essere paragonato a Roma».
Un cardinale fanfarone
Si pranza e si cena nei palazzi dei cardinali; in queste occasioni Winckelmann parla poco ma, quando è costretto, si fa sentire: dal cardinale Passionei, un abate francese («fanfarone ignorante») ingaggia con lui una sfida culturale, ma «fu come spazzato via dalla corrente, e in presenza del cardinale gli dissi che era un ignorante e un asino». Le simpatie sono nette come le antipatie: «il mio unico giudice è il mio amico Mengs», lui sì che «sa cos’è la bellezza». Viceversa Giovanni Gaetano Bottari è «un notorio pedante e un povero ignorante in fatto di competenza artistica»; «il sig. conte Caylus sbaglia perché non sa abbastanza. Io ne so più di lui e degli artisti locali». Giovanni Pietro Bellori era «un dotto imbroglione e fanfarone», Du Bos «uno di quei rapsodisti che riversano in un libro tutto quello che sanno». La polemica con gli «scartabellatori di vocaboli», con l’«infima plebe degli eruditi», insomma con gli «antiquari», è un tema costante.
La lista dei corrispondenti parla da sé e non solo per la sua lunghezza: ci sono gli amici degli anni di studio (J. D. Berendis prima di tutto), quelli acquisiti una volta giunto a Roma (in primis il pittore Anton-Raphael Mengs); ci sono gli studiosi, locali e non (come Jean-Jacques Barthélemy), ma anche esponenti dell’aristocrazia, del mondo ecclesiastico, príncipi delle più importanti corti europee. C’è una sola donna (ed è la moglie di Mengs).
Aneddoti ed erudizione
È chiaro che tono e argomenti variano a seconda dell’interlocutore: per gli amici ci sono aneddoti, dimostrazioni di affetto, confidenze, confessioni; con gli eruditi e gli appassionati si discute di libri, si tratta di «questioni importanti dell’arte», si danno notizie sulle scoperte recenti (e non solo a Roma). Un capitolo a parte sono le lunghe relazioni dalla Campania e in particolare dagli scavi di Ercolano, luoghi ormai da anni sotto lo sguardo dell’opinione pubblica colta di tutta Europa.
Nella corrispondenza con gli amici più intimi fa capolino la vita quotidiana, e l’abbigliamento (comprese la biancheria, le camiciole, le calzette) sembra al primo posto: «da ottobre mi vesto da abate, la sola differenza è un nastro azzurro con un orlino bianco applicato a una fascia nera e una cappa di seta che non è più lunga della giubba. I pantaloni sono di velluto».
Le lettere accennano ai progetti di saggi e opuscoli abbozzati e poi abbandonati, ma descrivono anche le fasi di elaborazione delle opere poi condotte a termine; i Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura (il saggio che per primo gli darà fama internazionale), il catalogo delle gemme del barone von Stosch, il «lavoro bestiale» per cui non verrà pagato, i Monumenti antichi inediti (pubblicati in italiano). Ma soprattutto si delinea il progetto fondamentale, la Storia dell’arte nell’antichità. L’opera viene pubblicata a Dresda nel 1763, ma alcune lettere ne parlano già dal 1756; addirittura, il passo di una lettera del ’57 (nr. 172) sul Laocoonte sfocia quasi identico nella Geschichte. «Era infine il tempo, dopo quasi trecento anni, che qualcuno osasse lavorare a un sistema dell’arte antica, non per migliorare in tal modo la nostra, ché pochi ne sarebbero capaci, ma per imparare a guardarla e ammirarla» (lettera 373): ben lontana dall’essere un accumulo erudito di dati, ma un «sistema», la Storia dell’arte è l’esito di un ambizioso progetto educativo in ideale continuità col Rinascimento italiano. Mosso da questo desiderio di insegnare la grandezza dell’arte classica, spesso accompagna i forestieri per le bellezze di Roma, salvo poi stufarsi del comportamento di taluni annoiati gentiluomini britannici («inglesi bestiali e infelici che sono stanchi di qualsiasi cosa al mondo»).
Eppure, a volte questi viaggiatori fanno innamorare. Le parole indirizzate al barone Friedrich Reinhold von Berg, allora ventiseienne, sono uno dei momenti più commoventi dell’intero epistolario: «Un indecifrabile impulso verso di Voi, tale che non può sorgere solo dalla figura e dalle forme esteriori, mi ha fatto percepire fin dal primo momento una traccia di quell’armonia che va oltre ogni umano concetto, e che nasce dall’eterno legame tra le cose». Persino in un passo come questo riscontriamo l’idea tipicamente winckelmanniana che la realtà più profonda trapela nelle apparenze esteriori, degli uomini come delle statue.



La problematica parabola degli Etruschi nel disegno storico winckelmanniano 

Centenari Winckelmann. AL MUSEO ARCHEOLOGICO DI FIRENZE, LA MOSTRA «WINCKELMANN, FIRENZE E GLI ETRUSCHI», FINO AL 30 GENNAIO 2017 
Maurizio Harari Manifesto alias FIRENZE  13.11.2016, 20:27 
Alla vigilia di un giubileo addirittura biennale – nel 2017 saran trecent’anni dalla nascita, e nel ’18 duecentocinquanta dalla morte – ha battuto tutti sul tempo, se non sbaglio, il Museo Archeologico di Firenze, con una mostra (inaugurata il 26 maggio e visitabile fino al prossimo 30 gennaio) eloquentemente intitolata Winckelmann, Firenze e gli Etruschi Il padre dell’archeologia in Toscana: progetto di Maria Fancelli, Giovannangelo Camporeale, Max Kunze e Stefano Bruni (catalogo ETS Pisa, con la collaborazione di Barbara Arbeid e Mario Iozzo). Merita peraltro d’essere ricordata un’altra non troppo dissimile, già realizzata in Germania dalla Winckelmann-Gesellschaft nell’autunno del 2009: Die Etrusker. Die Entdeckung ihrer Kunst seit Winckelmann, per le cure competenti del medesimo Kunze.
È noto come il talentuoso precettore e bibliotecario nativo di Stendal, nel Brandeburgo, si fosse trasferito trentottenne a Roma, dove il patronato di cardinali del calibro di Alberico Archinto e Alessandro Albani gli consentì di formare la sua expertise su un incomparabile campionario di monumenti antichi; mentre in Toscana ebbe modo di soggiornare tra il settembre del 1758 e l’aprile del ’59, trattenendosi di fatto nella sola Firenze, nonostante l’intenzione di condurre un canonico tour fra Volterra, Arezzo, Cortona, Chiusi e altre località d’interesse antiquario. È dato acquisito, fin dalle prime riflessioni sull’argomento proposte da Mauro Cristofani un quarantennio fa, che l’idea dell’arte etrusca di Winckelmann si sia formata in maniera pressoché definitiva, oltre che sui pezzi forti della raccolta granducale, soprattutto attraverso l’autopsia dell’eccezionale collezione di gemme intagliate, che appunto a Firenze aveva messo insieme il barone Philipp von Stosch. Rientrato a Roma e subito pubblicato, in lingua francese, il catalogo delle gemme Stosch (Description des pierres gravées, 1760), Winckelmann chiuse, in apparenza, la sua parentesi toscana ed etrusca, avviandosi alla grande stagione di quei capolavori saggistici che hanno fondato, fattualmente, la storia dell’arte antica – più che altro greca – intesa come lettura di stili cronologicamente sequenziali (in particolare, la Geschichte der Kunst des Alterthums, Dresda 1764). Solo in apparenza, tuttavia: perché l’esperienza di quei sette-otto mesi fiorentini aveva messo Winckelmann a confronto con le peculiarità di un’arte figurativa, l’etrusca, che gli appariva affine, per distinti e contrapposti versi, non meno all’arcaismo morfologico congenito a quella egizia, che all’immaginario figurativo e al narrare per immagini, propri di quella greca. La parentesi etrusca si svela così decisiva a orientare l’approccio storico winckelmanniano e all’origine di argomenti che ritorneranno puntualmente, appassionanti e irrisolti, in tutta la produzione successiva.
L’odierna mostra fiorentina occupa un unico ambiente del piano terra del Museo, introdotto dalla statua votiva dell’Arringatore, entrato nel terzetto dei grandi bronzi medicei per trafugamento dalla località di rinvenimento (Sanguineto sul Trasimeno, entro i confini dello Stato Pontificio): ma il neoeletto papa San Pio V, ad altri serissimi problemi intento, non se n’ebbe evidentemente a male, visto che giusto tre anni dopo, nel 1569, conferì a Cosimo il titolo di granduca. Invece gli altri due grandi bronzi, la Minerva e la Chimera, non sono stati sloggiati dalla loro abituale collocazione, e il visitatore li ritroverà facilmente al primo piano del Museo.
La strategia espositiva adottata dai curatori è quella, mi sembra, della ricreazione di una Kammer antiquaria del XVIII secolo, il tempo di Winckelmann, dove fossero radunati in un unico contesto opere editoriali e manufatti etruschi (o presunti tali) variamente presenti e citati nei suoi saggi di storia dell’arte: quindi la bibliografia scientifica disponibile a Winckelmann (in primis Thomas Dempster, Filippo Buonarroti e Anton Francesco Gori) e i non numerosi capisaldi (bronzetti, vasellame, urnette, glittica) su cui fu costruito il suo pionieristico tentativo. Questo è uno degli aspetti che più colpiscono il visitatore: quanto fosse ridotta, in termini quantitativi, la documentazione archeologica ‘etrusca’ giudicata utile all’elaborazione di un disegno storico. Insomma: tutta l’arte etrusca racchiusa in una stanza! Decideva, ovviamente ma non troppo, il criterio epigrafico: iscrizione etrusca, opera etrusca; iscrizione greca – ciò vale specialmente per le ceramiche a figure nere e rosse –, opera greca. Camporeale e Kunze, nel catalogo, insistono opportunamente su questa scelta di Winckelmann, invero cruciale ai fini di una distinzione pre-stilistica, e meritoria nel campo della pittura vascolare, dove egli precorse Luigi Lanzi ed Eduard Gerhard.
Nella prospettiva dell’officina di Winckelmann meritano d’essere segnalati, in particolare, il prestito, da parte del Museo di Stendal, dell’intera serie degli otto pannelli d’impronte in gesso dalla gliptoteca Stosch, distribuite secondo la classificazione tematica della Description; e l’emozionante «Manoscritto Fiorentino» dell’Accademia La Colombaria, taccuino di lavoro contenente, fra l’altro, appunti sulle sculture del Belvedere, passi della Geschichte in gestazione e rari schizzi sul canone proporzionale umano. Meno direttamente pertinenti al tema, ma oggi molto interessanti – alla luce dell’innovativa mostra Portable Classic, proposta a Venezia l’anno passato da Salvatore Settis – risultano le quattro più o meno piccole repliche in porcellana del tipo della Venere Medici, realizzate dalla manifattura Ginori di Doccia nella seconda metà del XVIII secolo. E, su questo intrigante tema del collezionismo di miniature scultoree, pare il caso di ricordare al visitatore del Museo Archeologico di trasferirsi poi a Palazzo Pitti dove, sino all’8 gennaio, sono esposte Splendida minima, vale a dire le «piccole sculture preziose» – così recita il sottotitolo – delle collezioni medicee (catalogo a cura di Valentina Conticelli, Riccardo Gennaioli e Fabrizio Paolucci, per la Casa Editrice Sillabe).
Ciò che tuttavia la mostra winckelmanniana – col suo taglio dichiaratamente antiquario e rétro (in accezione settecentesca), che sembra assecondare, fra i curatori, un penchant caratteristico dell’eruditissimo Bruni – non riesce o piuttosto rinuncia in partenza a trasmettere al pubblico, sono i temi della discussione storico-critica intorno all’arte etrusca, posti per la prima volta, con estrema lucidità, non solo nella Description e nella Geschichte, ma pure nei Monumenti antichi inediti (1767). Questi temi potranno essere invece accostati attraverso la lettura del catalogo, specie della sua seconda sezione, affidata a Camporeale e Kunze e ad Axel Rügler: e se Camporeale appare interessato soprattutto alle conoscenze storico-letterarie di Winckelmann, alle sue fonti e all’uso che ne faceva in ambito esegetico, sia Kunze sia Rügler colgono appieno la forte problematicità dell’adattamento del modello evoluzionistico alla storia dell’arte etrusca.
La questione, tutt’altro che oziosa, fu trattata già dallo scrivente in un lavoro giovanile, pubblicato nel 1988 nella rivista «Xenia» di Antonio Giuliano. Lo sviluppo dell’arte antica, nel disegno di Winckelmann, risponde, come tutti sanno, a un modello parabolico derivato, in ultima analisi, da Plinio il Vecchio o più esattamente dalle fonti ellenistiche di Plinio il Vecchio, con progressivo miglioramento dai primi due stili fino all’acme qualitativa del «bello» – riconosciuto nella fase per noi tardoclassica del IV secolo – e con inevitabile decadimento nel quarto, quello degli «imitatori» (arte romana inclusa). Rispetto a questo schema, organico alla rappresentazione storica dell’arte greca, quello analogamente parabolico proponibile per l’arte etrusca poneva due ordini di difficoltà: una difficoltà cronologica, in quanto occorreva stabilire una sensata relazione temporale tra le due esperienze e dunque, se si vuole insistere sulla metafora geometrica, una sorta di rapporto grafico tra le due curve – parallele? tangenti? secanti? –; e una difficoltà nel giudizio di qualità, che avrebbe dovuto pronunciarsi per un momento storico apicale, da mettere a riscontro (ma quando esattamente?) con un Bello ellenico non necessariamente parallelo.
Kunze e Kügler chiariscono in effetti come Winckelmann, dopo qualche incertezza iniziale, si rendesse conto della dipendenza iconografica dell’arte etrusca dalla mitologia figurata dei Greci e perciò della determinazione di un terminus invalicabile nell’età coloniale, circa tre secoli dopo la Guerra di Troia, prima del quale questa figuratività d’impronta ellenica sarebbe stata ovviamente inconcepibile. Ciò comportava dunque che, alle origini dell’arte etrusca, su una sorta di tronco arcaico egittizzante – vecchio cliché pseudocritico già presente nella letteratura antica – s’innestassero le storie e le immagini e, con queste, lo stile dei Greci. Dopodiché, l’arte etrusca avrebbe percorso il ramo ascendente della sua parabola, con assimilazione progressiva ma caratteristicamente manierata dello stile «elevato», rispondendo a un contesto etnico-psicologico, culturale e politico che era molto differente da quello greco.
Nel finale, peraltro, l’aporìa diventa ingovernabile: il terzo stile etrusco, che pur chiudeva la parabola, è quello in realtà più vicino ai modelli greci, i quali, alla luce della sequenza cronologica, non potevano che esser ‘belli’; ma, stando così le cose, questo ultimo stile etrusco non denuncerebbe una decadenza senza scampo, quanto piuttosto il compimento faticoso e sia pure imperfetto di un lungo apprendistato. Perciò: il modello non era più, in tal caso, a parabola? O la vera bellezza dell’arte etrusca andava ricercata – con sensibilità paradossalmente anticlassicistica – in quel di più di espressione, dettato da malinconia, da crudeltà e da superstizione, che aveva modellato il suo secondo stile?

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