lunedì 14 novembre 2016

Lo Jung di Romano Màdera

Risultati immagini per Màdera, Carl GustavJungRomano Màdera: Carl Gustav Jung, Feltrinelli

Risvolto
Ogni vita umana chiede di essere salvata. Ogni vita umana si fa strada nel mondo impersonale delle convenzioni, si scava nella pietra refrattaria dei conformismi, si mette in cerca della voce segreta che la chiama a spogliarsi di ciò che è noto ma non le appartiene, per assumere fino in fondo ciò che le appartiene ma non conosce ancora. È sull’onda di questa idea di salvezza che Romano Màdera rivisita il pensiero di Carl Gustav Jung, mettendo al centro della sua rilettura il documento più enigmatico dell’intera opera junghiana, quel Libro rosso che lo psicoanalista svizzero aveva composto in una stagione segnata dal travaglio interiore e dalla necessità drammatica della trasformazione della propria vita come del proprio pensiero.
Màdera rilegge con pazienza e audacia queste pagine sconcertanti e personalissime regalandoci una rivisitazione profondamente filosofica e quasi sapienziale del lascito junghiano. E ci dona un libro capace di misurarsi in maniera radicale con gli enigmi tutti umani del sacro come potenza di trasformazione, della morte interiore come fuga dai pericoli della metamorfosi, della rinascita come incalcolabile avventura del divenire se stessi.
“In Jung c’è una sorta di romantica aspirazione alla totalità dell’umano dentro e oltre le sue mille fratture. Per me è proprio questa aspirazione ciò che svetta nel suo lascito.” Romano Màdera

Così teoria e vita s’intrecciano in Jung 
Una monografia di Romano Màdera sull’eredità terapeutica e culturale dello psicanalista svizzero. A partire dalla sua dimensione storica e biografica

MORENO MONTANARI Rep
Peccato che il sottotitolo, L’opera al rosso, non appaia direttamente nella copertina di questa monografia sull’eredità terapeutico-culturale dell’opera junghiana. Scegliendo il Libro rosso come punto di vista privilegiato per comprendere la psicologia del profondo, Romano Màdera invita a guardare l’opera junghiana come un esperimento personale nel quale teoria e vita si comprendono e si trasformano vicendevolmente. Nel Libro rosso Jung vive infatti in prima persona la straziante lacerazione tra “lo spirito del suo tempo” che, anche grazie alla mediazione di Nietzsche, gli appare del tutto privo di senso, e lo “spirito del profondo” il quale, ben lungi dal ridursi a quell’oscuro serbatoio di pulsioni irrazionali descritto da Freud, gli si rivela come un’inesauribile eccedenza di senso. Questa, tuttavia, parla per immagini: archetipi che richiedono una rinnovata ermeneutica simbolica capace di cimentarsi non solo con il materiale onirico ma anche con le religioni, i miti, l’arte e la cultura in generale.
Si delinea così una sorta di processo alchemico nel quale la vita, presa nel proprio sapere, insegue «la romantica aspirazione alla realizzazione della totalità dell’umano», come elaborazione e ricomposizione delle sue innumerevoli fratture. Una proposta che si spinge ben oltre la mera dimensione terapeutica e mira alla realizzazione di un processo di individuazione — versione psicoanalitica del motto pindarico-nietzschiiano “divieni ciò che sei” — che valorizza il mondo come sua irrinunciabile sponda dialettica, alla ricerca di uno stile di vita più consapevole e armonizzato. Un’esperienza per certi versi simile, nota Màdera, all’originaria pratica della filosofia antica come maniera di vivere improntata alla saggezza.
Ma come rinnovare, senza tradirla, l’eredità di un maestro il cui motto preferito era «grazie a Dio non sono junghiano»? Come «universalizzare l’esperienza individuale e individualizzare il lascito universale» di una proposta per la quale, come amava ripetere Jung, «il metodo è l’analista»? Proprio lasciando la via dell’imitazione per quella dell’individuazione; riconoscendo la dimensione storico-biografica come fondante; liberando il soggetto dalla sterile autoreferenzialità narcisistica per riconoscerlo come «interpunzione del tutto»; rilanciando in chiave laica, ben oltre Jung, il dialogo con le diverse tradizioni spirituali ed esplicitando la sua qualificazione etica, nella consapevolezza che «nessuno resta fuori dalla nera Ombra collettiva dell’umanità» che è tuttavia possibile integrare; partendo da sé ma avendo a cuore la possibilità di incidere sul mondo. Un compito ambizioso ma tutt’altro che futuribile del quale il libro ci offre una pluridecennale e convincente testimonianza.
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Se il senso cambia pelle
Psicoanalisi. Un saggio di Romano Madera dedicato al fondatore della psicologia analitica: "Carl Gustav Jung", da Feltrinelli
Paulo Barone Alilas Manifesto 20.11.2016, 16:53
Come seguire i continui mutamenti che rimodellano senza sosta il volto della società contemporanea e dare conto dei lineamenti sempre più sfuggenti e dei modi di vivere spesso indecifrabili e sconclusionati che la caratterizzano? Come avere il polso della corrente di infelicità e di misfatti, di sogni e nostalgie che scorre sotto la superficie dei suoi comportamenti per cogliere, al di là di essi, il tratto saliente che li unifica e la vocazione di fondo che potrebbe ispirarli? Come farsi un’idea, insomma, del tempo presente, del tempo in cui viviamo?
Sino a un passato non lontano si poteva ancora esser certi che domande del genere avrebbero trovato, prima o poi, delle risposte adeguate, che lo sforzo impiegato per cercarle sarebbe stato infine coronato da successo. Oggi, al contrario, sperimentiamo non solo che le risposte mancano del tutto, ma che il domandare stesso è diventato superfluo: il nostro tempo – forse per la prima volta nel corso della storia – potrebbe risultare privo di qualunque idea o immagine di fondo che lo orienti, e dunque ritrovarsi stordito, inconsistente, letteralmente insensato. Proprio intorno alla questione della sparizione di senso dalla scena contemporanea, dei guasti che ne derivano, della necessità di ripristinarne la ricerca , ma, insieme, dei limiti invalicabili con cui quest’ultima si scontra, ruota il recente Carl Gustav Jung di Romano Màdera (Feltrinelli, pp. 160, euro 14,00).
La sua scelta di rifarsi – con Jung – alla psicoanalisi per seguire le vicissitudini del senso è più che pertinente. La nozione di inconscio con cui la psicoanalisi si qualifica emerge infatti nel mezzo di una precisa frattura storica, al termine cioè di quel processo di erosione con cui la Modernità si sbarazza di tutti i vincoli mitici, magici, religiosi, soprannaturali che regolavano invece i modi di vivere delle società tradizionali.
L’inconscio è innanzitutto il risultato e il sintomo storico di questo sgretolamento, il «prezzo del progresso», l’equivalente moderno dei vincoli antichi andati in frantumi, la nuova oscurità che vela la luce della ragione e scinde il profilo dell’Io. Ecco perché, ben prima di costituire la parola d’ordine di un sapere specialistico divenuto via via più o meno competente, l’inconscio resta il cristallo in cui si riflette una svolta epocale – la tradizione che si spezza – nonché una delle più efficaci lenti d’ingrandimento attraverso cui osservarla. È qui che, ricorda Màdera, il senso cambia pelle. Non si può più accedervi uniformando la propria condotta a quella di un modello esemplare, restando nell’anonimato e «imitando» la via seguita da un altro, come nel passato. Ciascuno adesso è chiamato per nome a trovare da sé la propria via, il proprio senso.
Màdera mostra bene come sia Freud che Jung accolgano questa ingiunzione, benché sia Jung a trarne le conseguenze più radicali: con la «morte di Dio» l’inconscio per Jung non è solo il deposito che ne raccoglie le scorie, ma soprattutto il luogo in cui torna libera l’energia incandescente e misteriosa che l’immagine storica del dio unico prima incorporava. Sprigionata, tale energia è ora variazione, diversificazione continua: preme direttamente nelle vite dei singoli, reclama di essere realizzata e riconosciuta individualmente, intima a ognuna di «seguire il battito del proprio cuore». Dare ascolto a questo appello sarebbe la sola cura per la nostra intera «civiltà in transizione».
Le condizioni attuali sembrano però averla resa quasi del tutto impraticabile. A Màdera, come ad altri, pare che la «clinica dell’individuazione» si scontri ormai con l’amorfo, caotico impasto sociale prodotto dal capitalismo globale. Invece che individui riunificati – cioè alla lettera, sottolinea Màdera, in-dividui, in-divisi – finalmente in cerca del proprio senso, ci troveremmo di fronte individualisti atomizzati, ripiegati narcisisticamente su di sé. Ciò che rimane tuttavia inspiegato in queste letture è come il medesimo processo storico sia, al contempo, quello che promuove le mille voci soggettive e quello che produce il loro doppio deforme e aberrante.
Del nostro tempo ci viene così restituita una dolente immagine scissa, spaccata in due: e poiché questo è il tempo in cui viviamo, anche un’immagine scissa di noi stessi, dove non possiamo dirci individui senza sospettare di essere, insieme, un po’ atomi – termine che paradossalmente significa, anch’esso, in-divisi. Eppure da tempo la modernità del Capitale – non potendo prescindere dal suo presupposto di avere a disposizione sempre e solo risorse inesauribili – è entrata in un vicolo cieco, popolato via via da figure di cui non sa venire a capo, perché appunto figure esaurite, dal senso esausto, dai tempi morti. C’è da chiedersi se non occorra rivolgere con più fiducia la dovuta attenzione a queste figure impossibili e impensate per riannodare i lembi della scissione, abbandonando entrambi i termini, individuo e atomo, che la mantengono ancora in vita.

La faccia filosofica della psicologiaPaolo Legrenzi Domenicale 26 2 2017
Il saggio di Romano Màdera, filosofo versatile dell’università Bicocca, è ben più di un profilo del pensiero di Jung, il discepolo/avversario di Freud. Màdera ha fondato nel 2007 la società degli analisti filosofi. Chi appartiene a questa società si occupa del benessere altrui. Cura le psicopatologie, ma solo quando l’analista filosofo è anche psicologo o psichiatra.
Con una scrittura chiara e scorrevole (almeno per chi già conosca Jung e la filosofia), Màdera traccia il bilancio dell’intreccio tra la sua formazione filosofica, l’eredità di Jung, e la pratica terapeutica. È una miscela ricca, ma anche povera. Fin dove possiamo spingerci oggi, trascurando un secolo di psicologia scientifica? Abbastanza in là, proprio perché si può partire dalle ipotesi incorporate nei grandi sistemi filosofici del passato. E si può procedere servendosi dell’introspezione, cercando cioè di guardare dentro la propria mente e di capire che cosa si celi dietro i racconti che gli altri fanno dei loro pensieri e delle loro emozioni. Questa è la fonte principale delle intuizioni del senso comune.
Spesso diverse dalle scoperte fatte dagli psicologi sperimentali in laboratorio. Consideriamo, per esempio, i meccanismi inconsci. Intuitivamente coincidono con qualcosa di cui siamo non-consapevoli, ma che può affiorare alla coscienza in determinate circostanze e con l’aiuto di altri. Nella Vita dopo la morte Jung ci dice: «quanto più domina la ragione critica, tanto più la vita si impoverisce». Lo studio sperimentale dell’effettivo funzionamento del pensiero umano ha mostrato che il presunto dominio della ragione critica è illusorio.
L’inconscio - quello ipotizzato da Freud, Jung e Màdera - è solo una piccola porzione di una vita mentale che non affiora mai alla coscienza. Una vita ricca ma silente, impenetrabile dall’introspezione. Solo indirettamente, tramite gli esperimenti, possiamo scoprire come il cervello produca le funzioni mentali. Màdera, secondo la tradizione filosofica, si accontenta degli strumenti quotidiani volti a ricostruire la nostra storia e quella delle menti altrui. Egli affronta il rapporto tra il sintomo, cioè il segno di un disagio o disadattamento mentale, e la causa che si suppone «dietro» a quel sintomo. Curare «tutto», non solo il «sintomo»! Giusto, ma si deve tener conto della nostra tendenza a confondere segni e cause, cause e effetti.
Il libro di Màdera allude però a un problema ancor più rilevante. In Italia ci sono più di novantamila laureati in psicologia iscritti all’albo. Almeno il 70% di loro pratica una qualche forma di psicoterapia. Negli anni della formazione universitaria, costoro hanno per lo più studiato discipline lontane dalle loro pratiche professionali. Solo dopo un successivo tirocinio sono diventati freudiani, junghiani, adleriani, reichiani, lacaniani, sistemici, gestaltisti, transazionali: il catalogo è questo – ci dice Màdera, e gli «analisti biografici a formazione analitica» possono anch’essi collaborare.
Formazione universitaria e successiva pratica professionale non sono così lontane in altre categorie professionali: medici, ingegneri, architetti, avvocati. Come mai? Per molti motivi, ma il principale è proprio la funzione di supplenza della psicologia dell’introspezione e del senso comune, quasi assenti nel caso di altre professioni. I metodi appresi (non da tutti) nel corso della formazione universitaria hanno ben poco a che fare con quelli impliciti in molte attività psicoterapeutiche.
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La visione luminosa dell’inconscio Lea Melandri MAnifesto 17.5.2017, 19:15
L’ultimo libro di Romano Màdera, Carl Gustav Jung (Feltrinelli, pp. 160, euro 14) è difficile da districare nei suoi molteplici annodamenti e al contempo affascinante per il sapere a cui vorrebbe aprire la strada: «fortemente individualizzato, autobiografico e biografico, immaginativo, emozionale, onirizzato e relazionale».
Una «clinica dell’individuazione», intenta a riportare la dimensione inconscia collettiva al momento storico-biografico delle persone è, del resto, l’assunto principale di Philo e Sabot, le scuole a orientamento filosofico di cui Màdera è stato ideatore.
LA RICERCA DI NESSI tra individuo e collettivo, tra i mutamenti storici, sociali, culturali e il riflesso che hanno nel vissuto dei singoli, è stata al centro dei movimenti antiautoritari degli anni Settanta, del femminismo in particolare, e la psicoanalisi, sia pure per un tempo breve, è sembrata indispensabile per interrogare l’agire politico.
La «sfinge analitica» – scriveva Elvio Fachinelli – aspetta al varco il viandante e il quesito che gli pone è «che cosa è l’uomo». Ma per incontrare Edipo bisogna essere sulla strada di Tebe, bisogna che l’analista porti in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica.
MA SI PUÒ DIRE – come fa notare Màdera – che la stessa psicoanalisi aveva rappresentato, agli inizi del Novecento, il «sintomo» di un profondo rivolgimento della ragione e della cultura occidentale, la crisi del patriarcato e l’inizio di quella che Jung, identificando sesso e genere, chiama la rinascita attraverso il «principio femminile», l’ingresso nel «dominio vero e proprio della donna, la sua psicologia basata sul privilegio dell’Eros», cioè sessualità, corporeità, istinti, maternità creativa.
È su questi inizi e sul Libro rosso di Jung del 1916 che si ferma l’attenzione di chi, come Màdera, ha conosciuto le delusioni della sua militanza politica e l’analisi che gli avrebbe «cambiato la vita».
Con un libro che fa della «immaginazione attiva» – sogni, visioni, metafore, simboli – la «via regia per il viaggio nell’inconscio», Jung si fa interprete di una svolta che coinvolge, al medesimo tempo, la sua vita personale, la separazione da Freud, padre, maestro, e il contesto storico culturale che ha fatto da sfondo alla Grande Guerra.
Dallo smottamento di una storia che si era basata fino ad allora sulla tradizione e l’imitazione, così come dalla presa di distanza dal successo, dalla maschera professionale e accademica, avrebbe preso avvio la psicoterapia vista come «processo di sviluppo della personalità», la via dell’individuazione capace di portare gli umani a sentire la comunanza delle loro vite.
PER QUANTO ANCORA legato, come Freud, all’idea che sia da cercare nella psiche la «sorgente segreta della storia», Jung sembra tuttavia voler riportare la malattia al di là del singolo, il nevrotico visto come un «sistema di relazioni sociali ammalato».
A fare da ponte, da mediazione, tra il vissuto del singolo e il segno che lasciano su di esso l’eredità storica e il presente, sono le immagini dominanti nell’inconscio collettivo rielaborate dalla psiche individuale. Per unirsi a se stessi – precisa Màdera – bisogna sapere di poter crescere sul terreno della comune umanità. Il viaggio per il mare notturno dell’inconscio collettivo e personale è imprescindibile se si vuole rimanere in contatto con ciò che ci costituisce, ci nutre, ci sfida a trovare «la nostra personalissima equazione di risposta all’enigma che la vita è».
Ma perché la clinica della individuazione diventi in qualche modo anche «clinica del mondo», una via per interrogare la nevrosi comune di un determinato tempo storico culturale, è necessario una «rinascita della psiche» come riunificazione degli opposti ereditati dalla visione maschile del mondo: inclusione del male, della corporeità, degli istinti, del «pantano e delle rovine che ogni secolo ha lasciato in noi».
È IN QUESTO APPELLO alla totalità dell’uomo, alla ricerca di un senso che può venire solo dalla cooperazione della coscienza con l’inconscio, che Màdera vede la «modernità» del Libro Rosso di Jung. La figura più rappresentativa della nostra cultura e della nostra psiche, individuale e collettiva, è il «caos», frutto di una globalità che è accumulazione fine a se stessa, iperstimolazione di bisogni e desideri, licitazionismo, orrore e diseguaglianza in crescita.
Tra gli aspetti rimossi della vita psichica c’è il «non-potere», l’interdipendenza degli umani, la guerra con l’ «ombra» che ci portiamo dentro e che, proiettata all’esterno va alla ricerca ogni volta di un capro espiatorio: il nemico, lo straniero, il diverso.
Màdera ricorda l’esplosione della Jugoslavia, dieci anni di atrocità che mostrano che il nuovo ordine mondiale «non solo è inesistente ma volge al caos; che la globalizzazione non salva, neppure in Europa dallo sterminio di massa come mezzo per affrontare i conflitti».
Il libro si chiude con quello che Màdera chiama un «astuto paradosso»: la via della individuazione spinge ad assumersi la responsabilità della propria vita e quindi anche ad abbandonare Jung per «rilanciare il futuro del suo insegnamento», prendersi la responsabilità del distacco solitario come via per una «autorealizzazione consapevole e solidale» nel concepirsi dentro l’«interdipendenza» di ciascuno da tutto e da tutti.

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